La Corte di giustizia dell’Unione europea, sez. II, si è recentemente espressa, nella causa n. C-662/22 e C-667/22, Airbnb Ireland UC, in materia di obblighi posti dalla legislazione domestica di uno Stato membro a carico dei fornitori dei cd. “servizi di intermediazione online”.
La Corte si è espressa su un rinvio pregiudiziale sollevato dal T.A.R. Lazio con ordinanza n.12834/2022, con la quale era stato chiesto se la disciplina europea – ossia il regolamento n. 2019/1150 e le direttive 2006/123 e 2000/31 – in materia di servizi di intermediazione online e di mercato europeo comune ostasse all’adozione di una disposizione nazionale in base alla quale gli operatori economici sono tenuti a rendere dichiarazioni sul loro assetto societario, ad iscriversi ad un apposito registro, a pagare un contributo economico periodico e, eventualmente, a sottostare a sanzioni economiche in caso di inadempimento.
La normativa nazionale controversa è rappresentata dalla Legge n. 178/2020 e dalla delibera n. 200/21 e dal provvedimento n. 14/21 (adottate dall’AGCOM) le quali, appunto, hanno stabilito l’obbligo per gli operatori dei servizi dell’informazione in generale di iscriversi ad uno specifico registro (ROC) tenuto da AGCOM e di comunicare, di conseguenza, una serie di informazioni a tale autorità, nonché di versare un contributo economico.
Più nello specifico, tali obblighi riguardavano tutti gli operatori attivi sul territorio italiano, anche se stabiliti in un altro Stato membro.
La Corte di Giustizia ha chiarito che le direttive nn. 2006/123 e 2000/31 mirano a garantire il buon funzionamento del mercato interno e la libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri (più nello specifico, la direttiva 2000/31 disciplina i cd. servizi della società dell’informazione).
In particolare, l’articolo 3 della direttiva 2000/31 prevede che gli operatori dei servizi della società dell’informazione debbano rispettare le specifiche disposizioni previste dallo Stato membro in cui sono stabiliti e che, di conseguenza, gli altri Stati non possano limitare la libertà di circolazione di tali servizi; sicché – in virtù del principio del mutuo riconoscimento – lo Stato in cui un operatore offra i propri servizi non potrà stabilire requisiti ultronei a suo carico.
La Corte, dunque, ha stabilito che “ l’articolo 3 della direttiva 2000/31 osta, fatte salve le deroghe autorizzate alle condizioni previste al paragrafo 4 di tale articolo, a che il prestatore di un servizio della società dell’informazione che intenda prestare tale servizio in uno Stato membro diverso da quello nel cui territorio è stabilito sia soggetto a prescrizioni rientranti nell’ambito regolamentato imposte da tale altro Stato membro.”
Ebbene, laddove lo Stato italiano ha previsto norme specifiche volte ad agevolare l’applicazione del Regolamento n. 2019/1150 ha interferito con l’ambito regolamentato a livello europeo, imponendo agli operatori economici di soddisfare condizioni che non sono richieste nel loro Stato membro di stabilimento.
A parere della Corte di Giustizia, non hanno colto nel segno le contestazioni del Governo italiano, a parere del quale la normativa controversa non disciplina le condizioni relative alla prestazione dei servizi e, dunque, non impedisce agli operatori di avviare e svolgere la propria attività, trattandosi di disposizioni finalizzate a garantire ad AGCOM la possibilità di svolgere l’attività di vigilanza, esorbitando non attenendo – dunque – alla materia disciplinata a livello europeo.
La Corte ha altresì escluso che tali disposizioni nazionali potessero rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3, paragrafo 4, direttiva 2000/31, il quale prevede la possibilità per gli Stati membri di adottare disposizioni restrittive rispetto alla libertà di circolazione a determinate condizioni, ossia che tali disposizioni riguardino uno specifico servizio, che la deroga sia finalizzata alla tutela dell’ordine pubblico, dei consumatori ovvero della sanità pubblica.
Per i Giudici di Lussemburgo tali requisiti non sussistono nel caso concreto; in primis, perché le disposizioni nazionali non riguardano uno specifico servizio, essendo destinate ad un’applicazione generale.
Peraltro, data la natura e la finalità della normativa nazionale controversa, non può affermarsi che essa sia tesa a garantire la tutela dei consumatori (dovendosi escludere a priori la possibilità di ricondurla alla tutela della salute pubblica o dell’ordine pubblico).
difatti, la disciplina nazionale è strettamente connessa al Regolamento n. 2019/1150, il quale stabilisce norme relative ai rapporti tra i fornitori di servizi di intermediazione online e gli utenti commerciali.
A tal proposito, la Corte ha rilevato che “dal considerando 3 del regolamento 2019/1150 risulta che il nesso tra, da un lato, «la trasparenza e la fiducia nell’economia delle piattaforme online nei rapporti tra imprese» e, dall’altro, il «[miglioramento della] fiducia dei consumatori nell’economia delle piattaforme online» è solo indiretto.”
Ebbene, non si può dedurre dal fatto che misure nazionali sono state adottate allo scopo dichiarato di assicurare l’applicazione del regolamento 2019/1150 che esse siano necessarie per garantire uno degli obiettivi elencati all’articolo 3, paragrafo 4, lettera a), punto i), della direttiva 2000/31.
La Corte, dunque, ha concluso affermando che “Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima, terza e quarta questione dichiarando che l’articolo 3 della direttiva 2000/31 deve essere interpretato nel senso che esso osta a misure adottate da uno Stato membro, allo scopo dichiarato di garantire l’adeguata ed efficace applicazione del regolamento 2019/1150, ai sensi delle quali, a pena di sanzioni, i fornitori di servizi di intermediazione online stabiliti in un altro Stato membro sono obbligati, al fine di prestare i loro servizi nel primo Stato membro, a iscriversi in un registro tenuto da un’autorità di tale Stato membro, a comunicare a quest’ultima una serie di informazioni dettagliate sulla loro organizzazione e a versare alla stessa un contributo economico.”