“Mettere ogni giorno insieme, senza alcuna selezione, gli argomenti dei filosofi e le arrabbiature del tizio davanti al cappuccino tiepido, l’analisi economica di un Nobel e lo sfogo del qualunquista di turno, può essere celebrato dagli ingenui alla moda come «open source» e «democrazia di rete». Il pericolo è invece riassunto bene nelle parole del guru Lanier: «I blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video» ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter e la pasquinata firmata «Zorro» sul sito. In realtà questa poltiglia di informazione amorfa rischia di distruggere le idee, il dibattito, la critica.”
Queste sono le parole di Gianni Riotta del … 2010.
Quasi quindici anni dopo (l’articolo è apparso sul Sole 24 ore il 10/1/2010), possiamo benissimo togliere il “rischia”.
La poltiglia di informazione amorfa ha distrutto idee, dibattito e critica. Solo che la “colpa” non è da addebitarsi ai blog e siti anonimi, ormai quasi completamente estinti (l’ultimo grande blog, benché non anonimo, è stato quello di Beppe Grillo), ma una grande responsabilità ce l’hanno i social network. Facebook e Twitter c’erano già nel 2010, negli anni se n’è aggiunto qualcun altro.
Ma come può una piazza virtuale esserne responsabile? La tecnologia non dovrebbe essere neutra?
In quegli anni, gli “ingenui” come li definiva Riotta, credevano davvero che Internet, una rete aperta, senza censure, senza controlli, senza limitazioni di spazio e di tempo, avrebbe reso la democrazia finalmente matura, in tutto il mondo. E’ successo il contrario, perché?
La democrazia è indebolita dalle guerre, dagli attacchi terroristici, dai crolli economici, dalle epidemie … Dall’undici di settembre del 2001 in poi non c’è stato un periodo senza una di queste “crisi”.
Nei periodi di crisi, i componenti principali di una democrazia, lo stato di diritto, l’equilibrio dei poteri, la stampa libera, la partecipazione dei cittadini, passano in secondo piano. Le crisi richiedono sicurezza ed ordine.
I blog, i siti, pur nel loro caotico tentativo di fare informazione, erano liberi. L’autore della pagina partiva dalla pagina bianca, vuota. Poteva scrivere scemenze, certo, il più delle volte erano articoli inutili ma, scriveva Italo Calvino ne “Le città invisibili“: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Cercare e saper riconoscere cosa non è inferno informativo e dargli spazio. Con i blog e i siti personali/collettivi poteva accadere, accadeva. Con i social no. I social sono costruiti secondo uno schema completamente diverso e in questo schema la parte preponderante è il profitto (la seconda è la visibilità/propaganda ai fini politici).
Le “fonti” dei social sono sempre le stesse e sempre di meno, singole persone o piccoli gruppi che selezionano le notizie e li danno in pasto alla gente. Gli algoritmi, poi, fanno il resto, sofisticati e spregiudicati per catturare e tenere incollati, fino a rendere dipendenti, quasi drogati, gli utenti. C’è un problema di giornalismo? No, il buon giornalismo esiste, ma il pubblico è altrove. Non lo vede. Non sa nemmeno dove andare a cercarlo.
Il consumo di notizie avviene all’interno di un caos informativo. In questo marasma, l’informazione diventa indistinguibile da tutto il resto – video di gatti, pubblicità, aggiornamenti dagli amici, ancora pubblicità.
Non ci sono demarcazioni. Tutto fa parte di un minestrone di contenuti.
I giovani entrano nel mondo reale, votano e partecipano alla vita civile, senza alcuna comprensione di ciò che accade intorno a loro, e senza nemmeno le abitudini e gli strumenti per iniziare a farlo se volessero.
Ai tempi della rivoluzione internet, racconta Jaron Lanier, “io e i miei collaboratori venivamo sempre irrisi, perché prevedevamo che il web avrebbe potuto dare libera espressione a milioni di individui. Macché, ci dicevano, alla gente piace guardare la tv, non stare davanti a un computer. Quando la rivoluzione c’è stata, però, la creatività è stata uccisa, e il web ha perso la dignità intellettuale”.
Oggi la gente continua a stare lontana dal computer, ma preferisce guardare la tv lillipuziana di questi decenni, lo smartphone.
Cosa resta da fare a chi ha creduto alla potenza sociale, culturale e creativa della rete?
Disconnettersi e tornare al passato? Aprire un blog che nessuno leggerà mai?
Sicuramente ridurre il tempo passato sui social, ridurre il tempo passato con gli occhi sullo smartphone, alzare di quei pochi centimetri la testa per guardare il mondo, male non fa.
Online, invece, bisogna dare spazio ai siti che, nonostante tutto, continuano a nascere, ai giornali indipendenti, pensati e creati da giornalisti e giornaliste, costruiti intorno a comunità di lettrici e lettori che vogliono conoscere il mondo, senza censure, autocensure e interessi di parte e che magari partecipano economicamente all’iniziativa, diventandone proprietari.
Andiamoli a cercare fuori dai social, abbandoniamo al loro destino “disumano” gli algoritmi. Tutto sommato c’è ancora vita nel web.
Infine, una chiosa sul titolo che ad alcuni potrebbe apparire criptico. E’ un omaggio al saggio dell’ingegnere e scrittore Roberto Vacca, edito per la prima volta nel 1971, dal titolo “Il medioevo prossimo venturo”.