Decadenza, la memoria di Berlusconi al Senato. …

Decadenza, la memoria di Berlusconi al Senato.

Senato

Memoria depositata il 28 settembre 2013 dal Sen. Silvio Berlusconi presso la Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari in vista dell’udienza pubblica del 4 ottobre 2013

 

Alla Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari

In relazione alla comunicazione di fissazione dell’udienza pubblica per il giorno 4 ottobre 2013,
il sen. Silvio Berlusconi espone quanto segue.

A) In ordine alla terzietà dell’organo giudicante.

Codesta Giunta svolge nell’ambito del procedimento in oggetto funzioni giurisdizionali.

Ciò è reso palese sia dalle indicazioni sul punto della Corte Costituzionale, ampiamente richiamata nella relazione del Sen. Augello a cui ci si riporta integralmente per quanto attiene tale problematica, sia da consolidate opinioni dottrinali, che si fondano, tra l’altro, su una semplice lettura del regolamento che disciplina il funzionamento di quest’Organo.

L’articolo 14 prevede la pubblicità della seduta e precisi termini per la citazione dell’interessato.

L’articolo 15 prevede la possibilità, con dei termini previsti a pena di decadenza, di presentare memorie e documenti fino al 5° giorno antecedente la seduta pubblica.

In particolare l’articolo 16 regolamenta lo svolgimento di tale seduta.

Ai sensi del comma 1) è previsto che vi debba essere una relazione nella quale vengano riassunti i fatti “senza esprimere giudizi”.

Già da questa prima osservazione si pone in rilievo come l’ordinamento si preoccupi che vi sia una oggettiva terzietà perfino nella fase iniziale del procedimento stesso.

Dopo l’esposizione, le parti hanno facoltà di prendere la parola e, in particolare, possono farsi rappresentare da un avvocato ammesso al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori.

Non solo le modalità ma anche la specifica presenza di un difensore – tra l’altro con specifica abilitazione – ben fa comprendere come si tratti pacificamente di una fase giurisdizionale.

E la necessità che tutte le parti abbiano il massimo della terzietà è esaltato dalla previsione del comma 3°, nella quale si statuisce che i senatori non possono rappresentare le parti davanti alla Giunta.

Ad ulteriore conforto della riconosciuta natura dell’organo giurisdizionale, si può osservare come il comma 5° consenta la possibilità per il senatore, la cui elezione sia stata dichiarata contestata, di poter prendere direttamente la parola per ultimo.

Anche l’articolo 17, ove statuisce che la Giunta si riunisce per la camera di consiglio per la decisione, fa ben comprendere come si tratti di un procedimento giurisdizionale.

A fronte di ciò, pur nella peculiarità di tale procedimento, che trae origine dal preciso disposto di cui all’articolo 66 della Costituzione, è ovvio che non è possibile derogare ai principi generali dell’attuazione della giurisdizione, anch’essi contenuti nella Carta Costituzionale.

Di talché l’articolo 111 della Costituzione non può non trovare applicazione nel caso di specie. I principi generali ivi contenuti, in particolare quelli di cui ai commi 1 e 2, si applicano, dunque, pacificamente.

Pur non trattandosi di un processo penale, e non trovando quindi applicazione i commi 3 e 4, si deve concludere per la necessità che anche di fronte a codesta Giunta la giurisdizione si attui mediante un giusto processo.

E per aversi giusto processo, il comma 2 stabilisce che l’interessato debba trovarsi davanti a giudice terzo e imparziale.

Tale previsione, del resto, è ampiamente cristallizzata nell’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che, come è noto, stabilisce come fondamentale di un giusto processo che questo si svolga davanti ad un giudice indipendente ed imparziale.

La stessa giurisprudenza costituzionale è amplissima anche in tema di procedimenti disciplinari, ove si controverte non già di diritti costituzionali, quali quelli previsti nel caso in oggetto, ma di sanzioni di natura amministrativa e disciplinare.

Emblematica è la sentenza n. 262/2003 della Corte Costituzionale con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 della Legge 24.03.1958 n. 195 (norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura) nella parte in cui non prevede l’elezione da parte del C.S.M. di ulteriori membri supplenti della sezione disciplinare.

Alla Corte era stato sottoposto il quesito se “la garanzia del principio generale della imparzialità – terzietà della giurisdizione dovrebbe operare, per la tutela del diritto di difesa anche nel procedimento avente natura giurisdizionale dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura”.

La Corte, nello statuire la incostituzionalità della norma, ha osservato che “è certo per altro che in tutti i tipi di processo quindi anche in quello disciplinare a carico di magistrati debbono essere previste regole sull’esercizio delle funzioni giudicanti valide a proteggere in ogni caso il valore fondamentale dell’imparzialità del Giudice in particolare impedendo che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda”.

La Corte osservava altresì che vi era la necessità di applicare tutti quegli strumenti per addivenire “ad un giudizio equo ed imparziale ferme naturalmente restando rindefettibilità e la continuità del potere disciplinare attribuito per dettato costituzionale al Consiglio Superiore della Magistratura”.

Appare ovvio osservare che tali principi se valgono per un giudizio disciplinare avanti al Consiglio Superiore della Magistratura non possono non trovare ingresso in una situazione ben più pregnante quale quella che ci occupa.

Sulla necessità che il giudice non solo sia imparziale, ma che addirittura appaia tale, con plurime decisioni sono intervenute la Corte Costituzionale e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

La Corte Costituzionale ha affermato in maniera netta ed incontrovertibile tali principi in numerosissime sentenze e ordinanze. Fra le molte è sufficiente ricordarne alcune.

Con la decisione n. 432 del 1995 la Corte ha statuito che la valutazione conclusiva non debba essere o “apparire condizionata dalla cosiddetta forza della prevenzione e cioè da quella naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso”.

Con la sentenza 131 del 1996 la Corte statuiva che il giusto processo “comprende l’esigenza di imparzialità del giudice: imparzialità che non è che un aspetto di quel carattere di terzietà che connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice”.

La Corte con decisione n. 155 del 1996 ribadiva che “tra i principi del giusto processo posto centrale occupa l’imparzialità del giudice in carenza della quale le regole e le garanzie processuali si svuoterebbero di significato. L’imparzialità è perciò connaturata all’essenza della giurisdizione…”.

Si osservi che tali decisioni sono tutte antecedenti alla riforma dell’articolo 111 delia Costituzione che ha ampiamente rafforzato i principi già enunciati dalla Corte e che promanavano dai principi generali e dall’articolo 6 della Convenzione Europea.

Successivamente vi sono state decine di sentenze che hanno ripreso e ribadito tali concetti (si veda da ultima C. cost. 9.07.2013 n. 183).

Analogamente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa per quanto attiene la violazione dell’articolo 6.

Si ricordino, fra le moltissime, la sentenza De Cubber n. 4 del 26.10.1984 ove si è statuito che “i’imparzialità del giudice ex art. 6 comma 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo va intesa sia in senso soggettivo che oggettivo. Nella prima accezione ci si riferisce al “foro interiore” del magistrato, ritenuto imparziale fino a prova contraria; nella seconda prospettiva vengono in considerazione quelle condizioni esteriori, anche semplici apparenze che debbono assicurare una giustizia imparziale.”

Ma la sentenza che maggiormente si attaglia al caso di specie è da individuarsi nella decisione del 5.02.2009 della prima sezione della Corte Europea nel caso Olujic.

In tale procedimento si evidenziava che tre membri del Consiglio Nazionale della Magistratura che avrebbero dovuto decidere su un procedimento disciplinare avevano affidato alla stampa notizie sfavorevoli rispetto alla posizione dell’interessato.

La Corte “ha riconosciuto dopo aver considerato il tenore e il contenuto delle interviste rilasciate dai tre membri del C.N.M. che il giudice non poteva essere ritenuto imparziale: !e dichiarazioni rese rivelavano o pregiudizio o conflitto con l’interessato”.

È evidente che il regolamento per il funzionamento della Giunta dovrebbe trovare idonea integrazione al fine di rispondere al dettato costituzionale del giusto processo, ove vi siano accadimenti che portino a ritenere conclamatamente violati i principi della terzietà e dell’imparzialità di componenti delle Giunte medesime.

Come è noto, nell’ambito di ogni procedimento penale, civile o amministrativo, vi è la possibilità di contestare con le forme previste dalle leggi o dai regolamenti la composizione dell’organo giudicante ove questi abbia già espresso direttamente o indirettamente il proprio giudizio.

L’obbligo del relatore di non esprimere giudizi, di cui all’articolo 16 Regolamento, dimostra vieppiù la volontà del legislatore che il procedimento tutto sia connotato dalla terzietà. Dei resto tutta la procedura prevista con la presenza dell’avvocato, l’intervento delle parti, la parola per ultimo alla parte interessata, la pubblicità dell’udienza e la previsione di una Camera di Consiglio, prelude ad un giudizio che non sia già precostituito. In realtà, come si può apprezzare dall’allegata rassegna stampa, che riporta solo alcune dichiarazioni a mero titolo esemplificativo, ma è fatto notorio, la quasi totalità dei componenti di codesta Giunta, e ciò che è ancor più grave in particolar modo proprio il relatore, hanno già ampiamente anticipato il proprio parere sull’esito del giudizio che andranno ad esprimere nella camera di consiglio.

Il senatore Casson non solo già anticipava che voterà per la decadenza, ma negava il ruolo di terzietà della Giunta affermando testualmente che trattasi di “organismo politico” con ciò vanificandone ogni ragion d’essere.

Addirittura il Movimento 5 Stelle ha prospettato più volte una posizione comune di tutto il gruppo a favore della immediata decadenza, sottolineando quindi trattarsi di una decisione politica. Anche la senatrice Pezzopane e il senatore Pagliaro più volte hanno espresso pubblicamente di aver già deciso di votare per la decadenza.

Si osservi che in linea astratta il principio della terzietà è vulnerato anche nel caso in cui il componente, al di fuori del procedimento, si esprima a favore dell’interessato.

Ma è evidente che l’interesse a dedurre tale situazione in tal caso è eventualmente di altri soggetti.

L’articolo 19 del regolamento del Senato non prevede possibilità di sostituzione di coloro che compongono la Giunta, salvo che il componente stesso non possa per gravissimi motivi non partecipare per un periodo prolungato alle sedute della Giunta stessa.

È quindi evidente che allo stato attuale non vi è una previsione regolamentare che possa consentire all’interessato di far valere le proprie ragioni per ottenere che la Giunta sia composta da membri imparziali, o che quantomeno non abbiano già pubblicamente appalesato il proprio giudizio.

Nessuna utilità vi potrebbe essere nel partecipare ad un giudizio del quale si sia già previamente conosciuta la sua conclusione.

La presenza delle parti, dell’interessato, e di un avvocato non sarebbe che una mera sceneggiata in un copione già ampiamente scritto.

A tale situazione si può ovviare soltanto o con le dimissioni dei componenti della Giunta che abbiamo già manifestato il proprio pensiero, o, ove ciò non dovesse accadere, con il ricorso alla Giunta per il Regolamento del Senato perché provveda a modificare le relative norme che non consentono oggettivamente un giusto processo. Vorranno quindi i componenti di codesta Giunta che hanno già espresso il proprio convincimento, in particolare i Senatori Stefano, Pezzopane, Buccarella, Casson, Crimi, Cucca, Fucksia, Giarrusso, Pagliari e Moscardelli, dimettersi per consentire la formazione di un collegio giudicante quantomeno apparentemente imparziale.

Vorrà codesta Giunta, in via subordinata, sospendere il giudizio e inviare gli atti alla Giunta per il regolamento perché si provveda a regolamentare la possibilità di astensione e ricusazione nonché di sostituzione ai fini di un giusto processo.

B) In ordine alla applicazione nel caso in oggetto del Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235.

Come è agevole osservare dal capo di imputazione su cui si è cristallizzata la decisione del Tribunale di Milano i fatti contestati sarebbero accaduti fra il 1995 e il 1998.

Gli effetti delle asserite maggiorazioni di costo dei diritti televisivi acquistati si sarebbero riverberati nel tempo in ragione di ammortamenti quinquennali protrattisi negii anni 2002 e 2003.

L’ultimo momento consumativo del reato si sarebbe, quindi, perfezionato il 26.10.2004, con il deposito della dichiarazione annuale 2003.

La sentenza del Tribunale di Milano che ha accertato i fatti in oggetto è stata emessa in data 26.10.2012, confermata in sede di appello in data 8.05.2013 e in Corte di Cassazione il 1.08.2013.

Il decreto legislativo da cui trae le mosse il presente giudizio è stato promulgato il 31,12.2012 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 3 del giorno 4.01.2013, divenendo così efficace il giorno 5.01.2013.

La legge delega da cui tale decreto trae origine è stata approvata il 6.11.2012, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 265 del 23.11.2012 divenendo vigente il 28.11.2012.

Trattasi di date tutte successive alla sentenza del Tribunale di Milano del 26.10.2012 che ha accertato, nel merito, i fatti contestati.

Di talché non solo la norma non era vigente al momento della asserita commissione del reato (26.10.2004) ma neppure durante il processo avanti il Tribunale di Milano. Anche nel prosieguo del processo nessuna menzione o nuova contestazione vi è mai stata sul punto, non consentendosi quindi neppure una difesa in quella sede, in violazione quindi anche dell’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo.

Ciò lo si può facilmente desumere dalla lettura delle sentenze della Corte di Appello di Milano, già agli atti di codesta Giunta e della Corte di Cassazione che proprio in tema di misure interdittive hanno lungamente disquisito senza mai citare la normativa de qua.

È quindi documentalmente comprovato che la normativa in discussione è successiva non solo ai fatti di causa ma anche al processo di merito e mai è stata neppure enunciata nel corso del giudizio.

Ove la norma fosse interpretata secondo il chiaro disposto dell’articolo 25 della Costituzione e dell’articolo 7 della Convenzione, il problema non si porrebbe.

Ma la Procura di Milano con il suo atto assume che l’esponente debba decadere dalla carica di senatore.

Tale tesi, che appare del tutto erronea rispetto ai principi generali dell’ordinamento italiano ed europeo, non può trarre alcun conforto dalla norma transitoria di cui all’art. 16 L. cit. che prevede una particolare disciplina in caso di sentenza di patteggiamento con riferimento non alla data del commesso reato, ma, sorprendentemente, alla data della sentenza di patteggiamento pronunciata in epoca successiva alla entrata in vigore del D.Lgs. in oggetto.

Ma se così fosse vi sarebbe una ragione ancor più evidente per ritenere la nonna in contrasto con l’articolo 25 della Costituzione e con l’articolo 7 della convenzione europea.

I pareri pro veritate già depositati ben descrivono la natura della norma, qualificandola espressamente come diretto effetto penale della sentenza di condanna. In particolare, nel parere reso dal Prof. Guzzetta, a cui ci si richiama integralmente, è perfettamente esplicitata tale situazione.

Appare quindi evidente che la decadenza, che deriva direttamente dalla sentenza di condanna, non può che qualificarsi come effetto penale della stessa e parte della sanzione che in tal modo è divenuta ancor più afflittiva rispetto al momento in cui sarebbe stato commesso l’illecito.

Si osservi che l’ordinamento già conosceva ai sensi degli articoli 28 e susseguenti del codice penale, e nella previsione di leggi speciali, situazioni in parte assimilabili.

Ed infatti vi era stata applicazione in tal senso dal Tribunale di Milano, ancorché non confermata dalla Corte di Cassazione, che ha annullato, con rinvio, la decisione sul punto.

Come è possibile verificare dalla motivazione, la Corte di Cassazione ha rilevato che erroneamente era stata applicata la norma generale del codice penale anziché quella speciale di cui all’art. 12 della legge n. 74 del 2000.

Comunque entrambe le prescrizioni normative regolamentano la interdizione dai pubblici uffici e quindi anche l’eventuale decadenza dall’ufficio pubblico di parlamentare e la impossibilità di accedere alla candidatura.

La norma applicabile al caso di specie ovvero l’articolo 12 L. cit. al comma 2 prevede testualmente che: “La condanna per taluno dei delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 8 importa altresì l’interdizione dei pubblici uffici per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano le circostanze previste dagli articoli 2, comma 3, e 8, comma 3”,

È quindi ovvio che all’epoca dei fatti e anche all’epoca in cui è stato celebrato il processo di primo grado la contestazione si basava sul combinato disposto di cui all’art. 2 L. cit. che prevede una pena detentiva da 1 anno e 6 mesi a 6 anni e dall’art. 12 . per quanto attiene le pene accessorie.

Di talché chi avesse commesso il delitto in oggetto, connotato dall’elemento psicologico del dolo, aveva la consapevolezza che quelle erano le pene a cui avrebbe potuto o dovuto soggiacere.

Conseguentemente la decadenza non può che eventualmente derivare da quella norma, la cui applicazione, allo stato, non è ancora definitiva ed è sub judice.

Si deve quindi concludere per la natura chiaramente penale della prescrizione di cui alla legge 235/12.

Comunque che si tratti non solo di un effetto penale bensì di una vera e propria pena accessoria è desumibile dallo stesso testo della legge delega 6.11.2012 n. 190.

Come è noto l’articolo 28 del codice penale distingue le pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici in perpetue e temporanee.

Come già detto, nel caso di specie, l’interdizione sarebbe da ritenersi temporanea sia che si applichi, erroneamente come fatto dal Tribunale di Milano l’art. 28 c.p., sia che si applichi l’art. 12 L. 74/00.

La legge delega, all’articolo 1 comma 64 lettera A, statuisce espressamente che “Ferme restando le disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua dai pubblici uffici, prevedere

È quindi evidente che si tratta di riforma che non tocca le pene accessorie perpetue, né sul meccanismo di cessazione delle stesse ma modifica espressamente quelle temporanee, rendendole maggiormente severe,

Del resto è sufficiente verificare le previsioni normative in discussione per comprenderne la sovrapponibilità e la impossibilità di applicarle entrambe.

Ovvero la nuova normativa contiene la precedente, con un aggravamento specifico del periodo di temporaneità dll’interdizione dai pubblici uffici ed un aggravamento delle modalità esecutive in generale.

Quando il secondo comma dell’articolo 15 del D.L.vo 235/2012 recita che “la incandidabilità disciplinata dal presente testo unico produce i suoi effetti indipendentemente dalla concomitanza con la limitazione de! diritto di elettorato attivo e passivo derivante dall’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici”, stabilisce principi non eludibili.

In primis che si tratta di una vera e propria pena accessoria, come tale integrativa, ma non cumulabile con la identica pena accessoria pronunciata in seguito a giudizio penale. Che sia pena accessoria, poi, è confermato dalla previsione del terzo comma del l’articolo 15 che esplicitamente riconosce l’operatività dell’articolo 178 c.p. concernente la riabilitazione,

È quindi consequenziale che il D. Lgs. 235/2012, attuazione di quella delega, altro non sia se non la riforma, nei casi indicati, delle sanzioni accessorie in tema di interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Vorrà dunque codesta Giunta ritenere non applicabile al caso di specie il Decreto Legislativo 31,12,2012 n, 235,

C) Illegittimità costituzionale del decreto legislativo 31 dicembre 2012 n. 235 e, in particolare, delle norme di cui agli artt. 1, 2, 3, 13, 15 e 16 del medesimo per violazione degli artt. 11, 25, comma 2, 48, 51, 65, 66, 76 e 117 Cost. anche con riferimento agli artt. 6 e 7 della CEDU, all’art. 3 del Protocollo addizionale alla stessa.

Nel riportarsi integralmente, in questa sede, alle precedenti memorie, suffragate dai pareri pro veritate versati in atti, e aderendo alle conclusioni della relazione presentata dal Sen. Augello, si intende qui ribadire che la disciplina del testo del D.Lgs. 31,12.2012 è da ritenersi viziata sotto numerosi profili.

Infatti tale normativa, se ritenuta applicabile a condanne per fatti precedenti la sua entrata in vigore, ha un evidente carattere retroattivo, in quanto da essa discende un limite all’elettorato passivo che non era previsto dall’ordinamento al momento in cui i fatti furono commessi.

Tale conclusione non può essere revocata in dubbio per nessuna ragione.

Non può infatti escludersi la retroattività con l’argomento che !a sentenza di condanna sia intervenuta successivamente all’entrata in vigore del testo unico, perché la pronunzia giurisdizionale non ha un valore autonomo rispetto alla commissione dei fatti sulla base dei quali essa viene emanata, ma costituisce semplicemente l’esito dell’accertamento processuale di essi, cui consegue la comminazione delle sanzioni e degli altri effetti previsti ex lege.

La retroattività non può nemmeno escludersi argomentando che il testo “Severino si applichi con solo riferimento ad uno status ”attuale”, in quanto la normativa sarebbe meramente tesa a disciplinare i requisiti di eleggibilità, il cui possesso deve riscontrarsi al momento in cui la legge trova applicazione (e non dunque al passato). Non vi è infatti dubbio che i requisiti di eleggibilità e dunque lo status attuale in cui si trova il soggetto che aspira alla “candidabilità” risultano modificati in forza di una “ri-qualificazione” e “ri-valutazione” di fatti del passato, che solo oggi (rectius: dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 235/2012) vengono dall’ordinamento ritenuti idonei a determinare una modifica di status assolutamente non prevista al momento in cui i essi furono commessi.

Del resto è evidente, da questo punto di vista, che anche la “pena” dell’interdizione dai pubblici uffici possa essere presa in considerazione nella prospettiva di (e determini effettivamente) una modifica dello status del cittadino ai fini della sussistenza dei requisiti per l’esercizio del diritto elettorale attivo e passivo, ma è altrettanto indubbio che, qualora una legge prevedesse l’irrogazione di una simile sanzione con riferimento a fatti commessi precedentemente alla propria entrata in vigore, essa non potrebbe non ritenersi retroattiva e pertanto viziata nella propria validità proprio perchè illegittimamente retroattiva.

Del resto, sempre in punto di retroattività, al di là della isolata pronunzia nel caso Miniscalco, lo stesso giudice amministrativo ha più volte ritenuto che la previsione legislativa della perdita di requisiti per il godimento di un diritto, se conseguente a sentenza di condanna, non potesse applicarsi a sentenze relative a fatti commessi precedentemente all’entrata in vigore della legge che tale previsione contenesse, proprio perché ciò avrebbe significato riconoscere a tale legge un illegittimo effetto “per il passato”.

Con riferimento in particolare alla revoca del permesso di soggiorno dello straniero colpito da condanna penale (e alla sua conseguente espulsione) il supremo giudice amministrativo ha più volte ritenuto (cfr. Cons, Stato, sez. VI, 7 aprile 2009 n. 1791, sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 859; sez. V 2 aprile 2010, n. 1894 e n. 1888, stessa data, e 16 febbraio 2010, n. 859, nonché da ultimo Tar Lazio, sez. II quater, 7 marzo 2012, n. 2299) che “considerate le gravi conseguenze che (…) comporta”, una disciplina legislativa che prevedesse l’espulsione a seguito della condanna penale “deve essere interpretata come applicabile, ratione temporis, solo ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore” e che “pertanto, in caso di condanna penale successiva all’entrata in vigore di tale disposizione, occorre avere riguardo alla data del commesso reato, potendosi applicare l’automatismo espulsivo solo nel caso in cui anche il reato, e non solo la condanna, siano successivi alla data di entrata in vigore suddetta . Considerando, in particolare, che “in favore di tale soluzione esegetica milita la considerazione che in caso di reati commessi prima dell’entrata in vigore di detta disposizione, l’autore del reato non era in grado di conoscere le gravi conseguenze derivanti dalla propria condotta (Consiglio di Stato, sez. VI, 859/2010).

Acclarato, dunque, che, se applicata a condanne per fatti precedenti l’entrata in vigore della legge che la prevede, una tale disciplina non può non considerarsi retroattiva, si tratta adesso di sgombrare il campo dalla obiezione che una tale applicazione retroattiva non sia di per sé illegittima,

Di una tale illegittimità non può, invece, dubitarsi.

Infatti, sulla base dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, che ha riconosciuto all’art. 25, comma 2, una portata espansiva che eccede le sanzioni penali in senso stretto (cfr. per tutte sentt. 202/1991 e 196/2010) e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (al rispetto della cui interpretazione sono assoggettate sia la Corte costituzionale che la Corte di Giustizia dell’Unione europea), non può dubitarsi che ogni normativa ordinaria, la quale imponga conseguenze particolarmente afflittive per la commissione di determinati fatti, ricada nell’ombrello applicativo delle norme superiori che ne vietano la retroattività. Ciò specialmente là dove tali conseguenze afflittive (e dunque sostanzialmente sanzionatone) siano conseguenza diretta (nel nostro caso addirittura ex lege) di un accertamento giurisdizionale operato in sede penale.

Non vi è dubbio, infine, che, nel caso della incandidabilità stabilita dal d.lgs. 235/2012, la cui durata è quantificata in una misura pari al doppio della pena interdittiva dai pubblici uffici e comunque non minore di sei anni, e la cui portata oggettiva abbraccia tutti i pubblici uffici a carattere elettivo di natura politica, ci troviamo di fronte a una previsione sanzionatoria particolarmente afflittiva (oltre che irragionevole e sproporzionata) e pertanto illegittima, alla stregua dei parametri suddetti, se applicata retroattivamente, come nel caso di specie.

Alla luce di quanto detto – e riportandosi agli ulteriori profili di illegittimità già contestati nei precedente atti difensivi * si deve pertanto concludere che la disciplina del testo unico sia radicalmente illegittima nell’applicazione alla fattispecie oggetto del presente giudizio per violazione della ricordata normativa costituzionale, internazionale ed europea.

L’acclarata ed evidente illegittimità costituzionale della disciplina alla cui applicazione la giunta per le elezioni e le immunità parlamentari è chiamata, impone, alla luce della disciplina di cui agli artt. 134 ss Cost., l. cost. 1/1948, l. cost. 1/1953 e l. 87/1953 (in particolare art. 23), che si consideri la sussistenza dei presupposti per sollevare la relativa questione di legittimità alla Corte costituzionale. Sotto questo profilo, asseverata l’evidente consistenza del dubbio di legittimità che rende la questione certamente “non manifestamente infondata” (art. 23 coma 1 lett. b) l. 87/1953), non può esservi altresì incertezza sulla sua rilevanza, atteso che – trattandosi di emettere una pronunzia sugli effetti del d, lgs. 235/2012 in ordine alla prosecuzione del mandato parlamentare – il relativo “giudizio non [può] essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale” (art. 23 coma 1 lett. b) l. 87/1953).

Quanto alla legittimazione dell’organo parlamentare a sollevare la questione di legittimità ai sensi dell’art. 23 della 1. 87/1953 non possono esservi dubbi sulla circostanza che la Giunta delle elezioni sia qualificabile, sotto questo profilo, come giudice a quo.

Induce ad una tale conclusione – oltre che il dato testuale dell’art. 66 Cost e la prassi parlamentare che si è venuta formando (cfr. Giunta per le elezioni del Senato, sedute del 21 gennaio e 7 ottobre 2008 e del 1° luglio 2009 e i precedenti ivi citati; – un’ormai costante giurisprudenza delle giurisdizioni supreme del nostro ordinamento, in particolare la Corte di Cassazione (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 31 luglio 1967, n. 2036; conformi, ex plurimis, sezioni unite civili, sentenze 9 giugno 1997, n. 5135; 22 marzo 1999, n. 172; 6 aprile 2006, n. 8118 e n. 8119; 8 aprile 2008, n. 9151, n. 9152 e n. 9153) e la Corte costituzionale, che hanno riconosciuto la natura giurisdizionale delle funzione esercitate dall’organo parlamentare in sede di verifica dei poteri. Senza necessità di dilungarsi sul punto, oggetto peraltro di uno specifico parere pro veritate versato in atti (cfr. parere pro veritate del Prof. Avv. Roberto Mania), sia sufficiente ricordare la recente sentenza 259/2009 nella quale la Corte costituzionale ha ricordato, richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione “natura giurisdizionale del controllo sui titoli di ammissione dei suoi componenti, attribuito in via esclusiva, con riferimento ai parlamentari, a ciascuna Camera ai sensi dell’art. 66 Cost.” (C. cost,, sent, 259/2009, punto 2.2. del considerato in diritto).

Vorrà dunque codesta Giunta, fatte proprie le conclusioni sul punto della relazione del sen. Augello, che debbono qui sul punto essere integralmente richiamate, inviare gli atti alla Corte Costituzionale.

D) In ordine alla violazione dell’art. 49, comma 1, della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Con riferimento a tale profilo ci si riporta integralmente all’accurata disamina compiuta e alle conclusioni raggiunte nella relazione del Sen. Augello, che si intende integralmente richiamata, Senza pertanto riprendere i vari passaggi argomentativi, in base ai quali si giunge alla conclusione dell’esistenza di una violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea là dove afferma il principio di irretroattività delle sanzioni afflittive, siccome previsto anche dal diritto della CEDU e dall’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, cui il diritto dell’unione europea si conforma integralmente per espressa previsione delle norme generali sull’applicazione della Carta dei diritti UE (art. 52,3: ‘‘Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione, La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”), preme in questa sede ribadire un unico profilo, suscettibile di essere considerato, ma solo all’apparenza, di non immediata evidenza.

Ci si riferisce alla circostanza – peraltro ampiamente e satisfattivamente – trattata nella relazione Augello, di un possibile dubbio sulla “pregiudizialità” di un rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione europea operato da codesta giunta.

Il profilo che si vuol considerare in questa sede non è né quello relativo ai requisiti soggettivi di proponibilità della questione pregiudiziale (la natura giurisdizionale dell’organo parlamentare ai fini della legittimazione al rinvio), né quello relativo ai profili oggettivi astrattamente considerati (l’attrazione della disciplina nazionale sull’incandidabilità, quanto all’elezione del Parlamento europeo, nell’ambito della sfera di applicazione della Carta). In tali prospettive, infatti, nulla si ritiene di dover aggiungere rispetto alla relazione Augello.

Il punto da rimarcare è, invece, quello relativo alla sussistenza in concreto del nesso di “pregiudizialità” tra l’interpretazione richiesta al giudice europeo ai sensi dell’art. 267 TFUE e il procedimento in corso. Malgrado, infatti, codesta Giunta non sia chiamata a pronunziarsi in via diretta sull’applicazione del Decreto Legislativo “Severino” all’ipotesi di candidatura al parlamento europeo, è evidente che il giudizio da essa formulato sia idoneo a ridondare sui presupposti applicativi della stessa nel caso di elezioni “sovranazionali” Non può dubitarsi, infatti, della circostanza che i presupposti normativi per l’applicazione dell’istituto dell’incandidabilità ad entrambe le cariche (parlamentare nazionale e parlamentare europeo) siano de jure gli stessi, atteso l’espresso rinvio operato dall’art, 4 del d lgs. 235/2012 (incandidabilità al parlamento europeo) all’art. 1 del medesimo che, appunto, disciplina i casi di incandidabilità alle cariche di deputato e senatore.

Alla luce di questa circostanza, si deve ritenere che le due fattispecie di incandidabilità (al parlamento nazionale e al parlamento europeo) intrattengano, sul piano dei presupposti applicativi, un formale nesso di identità. Se si considera, allora, che, quanto alla determinazione delle ipotesi ulteriori (rispetto alla disciplina “comune” prevista uniformemente in sede sovranazionale) di limitazione dell’elettorato passivo per la carica di parlamentare europeo, la relativa disciplina è, com’è noto, espressamente rimessa dal diritto dell’Unione alle normative positive di ciascuno Stato membro (art. 7, par, 3 della decisione 76/787/CECA, CEE, Euratom, concernente l’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti nell’Assemblea a suffragio universale diretto) è evidente che ogni accertamento giurisdizionale che determini la “portata” della disciplina nazionale sull’elettorato passivo avrà l’effetto – in forza di quel nesso di identità e del rinvio, in parte qua, del diritto europeo al diritto nazionale – di ridondare sul l’interpretazione degli organi chiamati ad applicare il d. lgs. 235/2012 ai candidati e agli eletti al parlamento europeo. Ciò vale, in particolare, per l’organo del Parlamento europeo chiamato a compiere la verifica dei poteri dei suoi membri (art. 3 del regolamento PE) e per gli uffici elettorali chiamati a verificare la legittimità delle candidature presentate per le elezioni europee, sub specie, del rispetto dei requisiti di candidabilità.

Quanto al primo organo è di tutta evidenza che, atteso il rinvio operato, per questa parte, dal diritto europeo a quello nazionale, la Commissione per la verifica dei poteri del PE non potrà non tenere conto dell’interpretazione nazionale di tale norma.

Quanto agli uffici elettorali, d’altronde, questi, in quanto organi amministrativi che operano nel procedimento elettorale preparatorio, potrebbero, in forza del principio di legalità, far proprie le interpretazioni fomite dall’unico organo giurisdizionale abilitato, in via esclusiva, all’interpretazione e applicazione delie norme sull’eleggibilità dei parlamentari nazionali; il Parlamento in sede di verifica dei poteri. Detto in altri termini, il nesso di identità tra requisiti di candidabilità al Parlamento nazionale e requisiti di candidabilità (in parte qua) al parlamento europeo determina de jure una vis attractiva da parte dell’interpretazione dei primi, così come definita dall’unico organo abilitata a compierla, con la conseguenza che persino l’eventuale contestazione delle determinazioni degli uffici elettorali davanti ad una giurisdizione nazionale (giudice amministrativo o giudice ordinario, non importa in questa sede approfondire) potrebbe indurre quest’ultima a conformarsi alla giurisprudenza parlamentare in materia di incandidabilità.

Detto in altri termini, anche nel caso di contenzioso elettorale, attesi i reciproci riflessi tra le due fattispecie, il giudice nazionale chiamato a giudicare sulla legittimità delle pronunzie degli uffici elettorali, potrebbe far proprie le conclusioni della giurisprudenza parlamentare, onde evitare che una propria interpretazione difforme giunga a trasformarsi – per il tramite del principio di coerenza e ragionevolezza tra le due ipotesi accomunate da medesimi presupposti – in una violazione della giurisdizione esclusiva degli organi parlamentari, la quale finisce necessariamente per avere nella materia de qua una funzione oggettivamente nomofilattica.

Alla luce di tali premesse, il giudizio che verrà operato sui titoli di ammissione dei parlamentari nazionali potrebbe necessariamente “cristallizzare” – per il predetto nesso di identità dei presupposti – l’interpretazione sui titoli di ammissione al parlamento europeo. L’eventuale verifica della portata del diritto europeo in materia (e segnatamente dell’art. 49 della Carta dei Diritti fondamentali UE), che spetta in via ultimativa alla Corte di Giustizia, presenta, per le ragioni anzidette, un evidente nesso di pregiudizialità rispetto alle determinazioni che l’organo giurisdizionale parlamentare si appresta ad assumere con riferimento ai presupposti – identici tra le due fattispecie nazionale ed europea – dell’applicazione della disciplina dell’incandidabilità.

Vorrà dunque codesta Giunta, fatte proprie le conclusioni sul punto della relazione del sen. Augello, che debbono qui sul punto essere integralmente richiamate, promuovere il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

E) In ordine al ricorso presentato alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Come è noto a codesta Giunta in data 7.09.2013 è stato depositato avanti la Corte Europea dei Diritti del’Uomo un ricorso avverso il decreto legislativo 31.12.2012 n. 235 per violazione dell’articolo 7 della Convenzione Europea.

Gli argomenti ivi contenuti e i precedenti specifici, fanno ritenere che la questione non solo sia ammissibile, ma che sia accoglibile nel merito.

Da fonti della Corte, recepite da numerose agenzie di stampa, si è appreso che la decisione, vista la delicatezza della questione, dovrebbe avvenire in tempi assai ravvicinati, ovvero nell’ordine di pochi mesi.

Appare necessario, quindi, tenendo conto anche degli effetti della declatoria di decadenza, che si sospenda il giudizio in attesa della decisione della Corte Europea. Vorrà quindi codesta Giunta, per le ragioni sovraesposte, sospendere il giudizio in corso.

Roma, 28 settembre 2013.

f.to Sen. Silvio Berlusconi

Redazione

Lo studio legale Giurdanella & Partners dedica, tutti i giorni, una piccola parte del proprio tempo all'aggiornamento del sito web della rivista. E' un'attività iniziata quasi per gioco agli albori di internet e che non cessa mai di entusiasmarci. E' anche l'occasione per restituire alla rete una parte di tutto quello che essa ci ha dato in questi anni. I giovani bravi sono sempre i benvenuti nel nostro studio legale. Per uno stage o per iniziare la pratica professionale presso lo studio, scriveteci o mandate il vostro cv a segreteria@giurdanella.it