La Corte di Cassazione dichiara inammissibile un ricorso troppo lungo, pari a più di cento pagine, “ottenuto attraverso una sovrabbondante riproduzione degli atti processuali, mentre alla esposizione dei motivi di ricorso sono dedicate le ultime dodici pagine, che da sole sarebbero state del tutto proporzionate al tipo di censure proposte”.
Questi i principi, richiamati dalla Cassazione, che si assumono violati nel caso di specie:
a) il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione comporta l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti,;
b) il rispetto del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (per violazione dei principi del giusto processo e per evitare di gravare sia lo Stato sia le parti di oneri processuali superflui),
c) la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso; costituisce invece onere del ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, al fine di evitare di delegare alla Corte un’attività, consistente nella lettura integrale degli atti assemblati finalizzata alla selezione di ciò che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore.
Di seguito, la sentenza della Cassazione (lo stralcio sulla declaratoria di inammissibilità per violazione del dovere di sinteticità degli atti).
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Corte di Cassazione, Sezione Lavoro
Sentenza 27 maggio – 30 settembre 2014 n. 20589
(presidente Antonio Lamorgese, relatore Lucia Tria)
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5.1.- Come impostazione generale, il ricorso – nella sua lunghezza pari a più di cento pagine, ottenuta attraverso una sovrabbondante riproduzione degli atti processuali, mentre alla esposizione dei motivi di ricorso sono dedicate le ultime dodici pagine, che da sole sarebbero state del tutto proporzionate al tipo di censure proposte – risulta ictu oculi redatto senza il rispetto dei seguenti principi, affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e condivisi dal Collegio:
a) il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. 29 agosto 2011, n. 17739; Cass. 30 marzo 2007, n. 7891; Cass. 5 aprile 2006, n. 7882; Cass. 18 marzo 2002, n. 3941; Cass. 7 novembre 2013, n. 25044);
b) d’altra parte, il rispetto del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. 22 giugno 2006, n. 19100), principalmente in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma 2, e in coerenza con l’art. 6 CEDU, nonchè di evitare di gravare sia lo Stato sia le parti di oneri processuali superflui (arg. ex Cass. 4 luglio 2012, n. 11199; Cass. 30 aprile 2014, n. 9488);
c) ne deriva che in tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso (Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698);
d) in particolare, in materia di ricorso per cassazione, la pedissequa riproduzione di atti processuali e documenti, ove si assuma che la sentenza impugnata non ne abbia tenuto conto o li abbia mal interpretati, non soddisfa il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto costituisce onere del ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, al fine di evitare di delegare alla Corte un’attività, consistente nella lettura integrale degli atti assemblati finalizzata alla selezione di ciò che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore (Cass. 2 maggio 2013, n. 10244; Cass. 9 luglio 2013, n. 17002); Cass. 21 novembre 2013, n. 26277).
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