L’accesso al concorso di magistratura dovrebbe essere, senza alcun dubbio, privo di qualsiasi tipo di discriminazione, soprattutto (ma non solo) in considerazione del ruolo che gli aspiranti giudici mirano a ricoprire nella società.
Paradossalmente a volte le normative deludono queste premesse.
Fino al 2010 infatti era in vigore una norma che escludeva gli avvocati se non iscritti al relativo albo professionale. Per le altre categorie ammesse invece era sufficiente il mero conseguimento di specifici titoli (diploma di specializzazione in professioni legali e dottorato di ricerca). Per i funzionari e i dirigenti pubblici, si richiedeva la semplice maturazione di una determinata anzianità di servizio).
La norma, come anticipato, non è più in vigore. A distanza di pochi anni dalla sua introduzione è stata oggetto di un giudizio di costituzionalità.
Su impugnazione proposta dall’avvocato Carmelo Giurdanella, la Consulta, con la sentenza 296/2010, dichiarava incostituzionale la norma dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’articolo 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario), nella parte in cui non prevedeva tra i soggetti ammessi al concorso per magistrato ordinario anche coloro che abbiano conseguito soltanto l’abilitazione all’esercizio della professione forense, anche se non siano iscritti al relativo albo degli avvocati.
Si è trattato di una sentenza che ha ricondotto a maggiore razionalità il sistema di accesso al concorso in magistratura, facendo venir meno un requisito – quello dell’iscrizione all’albo – di natura meramente formale, dal momento che, sosteneva il remittente, l’iscrizione non è subordinata all’effettivo esercizio della professione di avvocato e non postula, quindi, nemmeno l’attualità dell’esperienza derivante dalla stessa; inoltre, non consentire agli abilitati di accedere al concorso senza previa iscrizione all’albo degli avvocati avrebbe prodotto un’ingiustificata disparità di trattamento tra tali soggetti e gli altri ammessi al concorso (diplomati presso le scuole di specializzazione, funzionari e dirigenti amministrativi aventi l’anzianità prescritta, dottori di ricerca).
Nel dichiarare fondata la questione, la Corte costituzionale affermava che “la disposizione censurata attribuisce rilievo decisivo ad «un requisito di ordine meramente formale», l’iscrizione all’albo forense, del quale non si comprende l’idoneità a rivelare il possesso, in capo all’aspirante magistrato, di una maggiore attitudine all’esercizio della funzione giudiziaria rispetto a quanti risultino “solo” abilitati a svolgere la professione di avvocato”.