Il Mito classico e la Psicoterapia moderna

Il Mito classico e la Psicoterapia moderna
Relazione al II Congresso Mondiale dell’ European Association of Psycoterapy – Vienna, 4-8 luglio 1999

Il tema che voglio trattare è frutto di una lunga riflessione fatta man mano che gli anni e l’esperienza di lavoro si sono accumulati sulle mie spalle. Attraverso questa ricerca mi è stato possibile scoprire un mondo nuovo e meraviglioso da cui attingere idee e dinamiche utili alle interpretazioni sia della crescita umana, presa singolarmente, sia di tutto quell’intreccio di vissuti che riguarda la vita di coppia.

La mia ricerca si limita ad analizzare parte degli scritti di Omero e, precisamente, parti dell’Iliade e dell’Odissea nei quali può leggersi il racconto di due grandi momenti di crescita dell’essere umano. L’Iliade ci racconta, attraverso Ulisse, il modo per superare la simbiosi con la madre; l’Odissea ci racconta come si entra nella dimensione adulta e come si realizza l’edipo positivo.

Ho scelto queste due opere per un fine ben preciso: esse si prestano benissimo ad unificare, dentro di me, la cultura espressa nel mito classico, da un lato, con la cultura vissuta da bambino, cresciuto in un paese della Magna Grecia, il cui nome era “ADRANÒS” (attualmente Adrano) e, dall’altro, con la cultura psicoterapeutica acquisita da adulto (tanto da potere affermare che il mito classico e la psicoterapia moderna hanno tantissimi punti in comune).
Le due opere sono in effetti l’espressione evidente e senza equivoci di una cultura, tutt’ora viva, che viene tramandata di padre in figlio, e la cui saggezza è fondamento del vivere umano, allora come ora.

Io conobbi l’esistenza delle due opere quando andavo alla scuola media, cioè all’età di dodici, tredici anni. Allora avevo perso entrambi i genitori e vivevo la condizione di “orfano” con molta sofferenza e con molti condizionamenti sociali, tra i quali il lutto, che non mi permetteva di giocare come tutti gli altri bambini.

Profondo era lo sconforto per il fatto che non avevo un papà che mi proteggesse dalle prepotenze degli altri.

Chiaramente il mio eroe omerico fu subito Ettore perché era bello, era forte, era valoroso (così come, immaginavo, era stato mio padre) e perché, a differenza di Achille, era figlio di esseri umani: non aveva l’invulnerabilità ed esprimeva solo doti naturali in parte innate in parte acquisite con le esercitazioni militari che lo avevano reso un condottiero valoroso. Un bel giorno, però, Ettore ebbe l’ardire e la temerarietà di sfidare Achille e fu da questi ucciso e trascinato nella polvere per tutto il campo troiano.

Dalle mura di Troia i soldati che assistono alla scena elevano potenti grida al cielo nel vedere morire Ettore e le grida si odono fin nel palazzo reale, dove la moglie di Ettore, Andromaca, intenta a tessere una bellissima stoffa sente, improvvisamente, caderle la spola dalle mani. Ella corre subito a vedere, con le ginocchia tremanti, cosa è successo: l’accaduto è evidente, il suo Ettore è stato ucciso e non c’è più!

Il primo pensiero di Andromaca è di dolore e di rammarico per il suo piccolo Astianatte costretto, ora, a crescere senza padre, senza maestro, senza colui che avrebbe potuto proteggerlo, senza colui che gli avrebbe insegnato a combattere e a difendersi.

Vede il suo bambino crescere socialmente emarginato, con le guance pallide, orfano, messo in disparte e cacciato via dalle case ove si fa festa. Astianatte, dopo la guerra, vinto e desolato, avrebbe vagato povero, e chiunque fosse stato mosso a pietà per lui, avrebbe solo potuto inumidire le sue labbra, non il suo palato.

Così si esprime Andromaca:

“Intanto del figlio, ohimè! Che fia?
Figlio infelice di miserandi genitor, bambino
Egli è del tutto ancor, né tu puoi, morto,
più farti suo sostegno, Ettore mio,
né egli il padre vendicar: che dove
pur sia che degli Achei la lagrimosa
guerra egli sfugga, non dimen dolenti
trarrà sempre i suoi giorni, e a lui l’avaro
vicin, mutando i termini del campo,
spoglierallo di questo. Abbandonato
da‘ suoi compagni è l’orfanello; ei porta
ognor dimesso il volto, e lagrimosa
la smunta guancia. Supplice indigente
va del padre agli amici, e all’uno il saio,
tocca all’altro la veste. Il più pietoso
gli accosta alquanto il nappo, e il labbro bagna,
non il palato. Ed altro tal, che lieto
va di padre e di madre, alteramente
dalla mensa il ributta, e lo percote,
e villano gli grida: – Sciagurato,
esci: il tuo padre qui non siede al desco -.” (Iliade, canto XXII, vv.600-615)

Io, che sono cresciuto da orfano, ho potuto constatare come erano veri quei presagi e, vi assicuro, li ho vissuti per intero.

Questa è la ragione per la quale sono rimasti impressi nella mia mente l’Iliade e l’Odissea. Dell’Odissea mi colpiva anche il fatto che Penelope aspettasse il marito così come mia madre a tratti immaginava che arrivasse mio padre (ricordo da bambino, prima di perderla) e le sembrava, a volte, di udire la sua voce, da lontano, come quando egli, ritornando dai campi, la chiamava lungo la strada, prima ancora di arrivare a casa.

Mio padre non tornò mai più, ma il desiderio intenso di vederlo tornare, il desiderio di averlo vicino, di essere difeso da lui non mi abbandonò per tutta l’infanzia e per tutta l’adolescenza.

Nei momenti critici mi veniva sempre di pensare e di credere che, se ci fosse stato mio padre, certe cose non mi sarebbero capitate.

Telemaco, figlio di Ulisse, fu uno dei miei più grandi “amici” per tutta l’adolescenza: era l’amico fortunato, valoroso, che va a cercare il padre non già per ucciderlo come aveva fatto Edipo con suo padre, ma per conoscerlo, per avere un posto accanto a lui ed amarlo; ed un giorno lo vede ritornare, lo riconosce, lo aiuta ad uccidere i Proci.

Egli era l’amico che mi teneva compagnia nei momenti di solitudine. Come avrei potuto dimenticare, mentre diventavo adulto, l’Iliade e l’Odissea e la ricchezza di pensiero e di cultura contenute in esse?

Così quando, più tardi, mi sono specializzato in psicoterapia e ho appreso il modo in cui si sviluppa l’essere umano, è stato conseguenziale ed illuminante analizzare i miti omerici e vederli come l’espressione di dinamiche eterne dell’essere umano, dinamiche che appartengono agli uomini di tutti i tempi, di tutte le razze, di tutte le culture.

Negli scritti omerici si nota, ovunque, un culto spiccato del senso della famiglia. All’esaltazione della forza, del coraggio, dell’arte, dell’odio, della vendetta, della gelosia e della bellezza, si aggiunge l’esaltazione della famiglia, della coppia, del rapporto genitori-figli. Esiste persino la descrizione di come affrontare certi conflitti, certi problemi, così come potremmo, oggi, leggere in un moderno trattato di psicoterapia analitica.

Nell’antica Grecia il mito, il teatro, nella sua massima espressione della tragedia e della commedia, e l’arte, che crea una bellezza eterna negli edifici e negli oggetti, diventano mezzi catartici per tutti. Anche la cultura impartita ai giovani dai maestri peripatetici è finalizzata alla conoscenza della “verità” per mezzo della quale realizzare una perfetta identità umana.

Nell’antica Grecia esisteva una cultura psicoterapeutica di tipo individuale e di gruppo espressa nel teatro che, mettendo in evidenza difetti e sofferenze dell’essere umano, mirava proprio a poterli trascendere e trasformare in virtù e benessere. Anche la filosofia non era da meno; finalizzata com’era a scoprire le verità ultime, cercava di placare l’ansia e l’angoscia che prende l’uomo quando pensa al futuro, alla morte, all’aldilà. La filosofia dava una risposta ai problemi esistenziali ed insegnava a risolverli oltre che con i ragionamenti logici dei maestri, soprattutto, con il loro esempio di vita.

Nel mondo antico, i grandi filosofi, i grandi maestri, i grandi artisti sono stati anche dei grandi psicoterapeuti che hanno da insegnare moltissimo a noi, esperti in materia. Essi non hanno preteso soltanto di curare i mali dell’uomo, ma col loro sapere hanno fatto sì che l’uomo potesse formarsi, potesse trovare una sua dimensione, potesse sviluppare una identità a sua misura. A me sembra sia proprio un nostro pressante problema, oggi, quello di considerare l’uomo nevrotico come un essere che soffre perché non riesce a trovare una sua dimensione di crescita, né lo spazio sociale per affermare la sua identità; non dobbiamo considerarlo soltanto come il paziente ammalato da aiutare a guarire.

Io considero il mito classico come la massima espressione della cultura di un popolo e non già come un racconto immaginario scritto o composto da una mente eccelsa che per buona sorte è arrivato fino a noi. Considero il mito classico come storia di popoli e di culture; come storia anche di metodi terapeutici finalizzati alla formazione ed alla crescita globale dell’uomo.

Il mito è storia perché esso contiene nomi e cognomi dei vari personaggi; contiene descrizioni di luoghi, nomi di città, di mari, di regioni e soprattutto contiene avvenimenti che, per mezzo dell’archeologia, possiamo affermare che sono avvenuti realmente. Il mito classico è metafora del processo di crescita dell’uomo nelle sue fasi di sviluppo (dal concepimento, alla nascita, alla crescita, al raggiungimento della vita adulta), processo di sviluppo che è uguale e costante per gli uomini di tutti i tempi. Si può, allora, utilizzare il mito per ritrovare in esso metodi di analisi e di intervento validi per la soluzione della sofferenza umana. Il mito classico è una miniera ricca di saggezza e di verità alla quale attinse anche Freud, sebbene egli si sia limitato a leggervi le ragioni dei conflitti senza tentarne una soluzione, forse a causa della sua concezione pessimistica dell’uomo.

Oggi, invece, uno psicoterapeuta oltre al riconoscimento delle ragioni del conflitto, tenta una opera di trasformazione dello stesso, consapevole com’è che l’uomo può trascendere la sua distruttività, se vuole, dopo averla riconosciuta, e può utilizzare l’energia positiva che ne scaturisce per crescere oltre il conflitto infantile al fine di approdare, così, alla propria Itaca, alla propria dimensione adulta.

Io, prendendo in esame le due grandi opere di Omero, l’Iliade e l’Odissea, noto come lo spirito che le pervade sia improntato non solo a sollevare l’uomo dai suoi patimenti, ma anche a formarlo al senso della famiglia e dell’amore di coppia.

L’amore di coppia, in Omero, è una realtà umana importante ed io desidero metterla in evidenza perché, in una società moderna come la nostra, nella quale dilaga il divorzio, con conseguenze negative per le attuali e future generazioni, gli uomini di cultura antropologica, come noi, devono porsi il problema e devono anche impegnarsi a trovare delle soluzioni positive, che aiutino le coppie a percorrere il loro cammino in modo meno cruento possibile.

Io noto oggi come, dopo aver privilegiato lo stadio di sviluppo simbiotico, a tutti i livelli, familiare, sociale, politico, l’uomo tenda fortemente ad uscirne per entrare in una dimensione edipica costruttiva da distinguersi dalla dimensione edipica sofoclea che è totalmente distruttiva. Dal punto di vista politico, per esempio, ci si trova spesso pressati a rimanere dentro un utero gestito da “poteri forti”, che assomiglia sempre più ad un labirinto ove regna un Minotauro vorace, nutrito da chi ama sopraffare e sfruttare il proprio simile.

Da questo tipo di utero distruttivo l’uomo cerca disperatamente di uscire. In economia, per esempio, dobbiamo fare i conti con la teoria della “globalizzazione” del sistema e con la teoria della “crescita illimitata” che mettono l’uomo, da una parte di fronte alla mancanza di punti di riferimento chiari (presenza genitoriale) e dall’altra nella condizione di rottamare il “vecchio” per consumare il “nuovo.” Questo tipo di economia crea la dimensione dell’ “usa e getta” nel cui ingranaggio viene trascinata anche la coppia: oggi abbiamo anche la coppia “usa e getta”, con le ovvie conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Luigi Zoja, filosofo e psicologo, in un suo libro intitolato “Crescita e Colpa”(1993), tratta del mito come una realtà storica inconfutabile dalla quale attingere insegnamenti e rimedi per il senso di colpa che attanaglia la civiltà occidentale, incapace di accettare il suo sviluppo e godere della sua crescita civile e culturale.

Il mito classico, allora, diventa la nostra radice alla quale ritornare per attingere rimedi ed insegnamenti validi per indirizzare il nostro sviluppo verso una dimensione edipica costruttiva. La dimensione edipica costruttiva si esprime sia nei rapporti sociali, nei quali tutti i componenti devono riconoscersi reciprocamente, sia, ed in particolare, all’interno della famiglia dove il rispetto ed il riconoscimento inizia dai genitori, tra di loro, e si estende poi, dai genitori ai figli.

Nella coppia “riconoscere” significa rispettare l’identità dell’altro e, superando le strumentalizzazioni infantili del possesso reciproco, potere accettare che i figli possano inserirsi nel rapporto di coppia, secondo il principio della vita da donare e non da rubare. Ma nessuno ammetterà mai di volere un figlio per rubargli la vita, per strumentalizzarlo fino al punto di “crescerselo” come padre e come madre, eppure la vita di coppia è cosparsa di simili dinamiche, e da sempre, nel mondo antico come in quello moderno.

Pensando ad Ulisse, fa riflettere il fatto che egli venga assunto, dai più, come immagine dell’uomo di oggi: l’uomo navigatore, l’uomo imprenditore, l’uomo inventore, l’uomo esploratore, l’uomo dinamico. Ulisse, per me, è grande soprattutto per il fatto che ritorna ad Itaca, per ricomporre il suo nucleo familiare. Senza questo ritorno, Ulisse, avrebbe patito invano. Tutto quello che fa, tutto quello che attraversa, tutte le avventure vissute sono finalizzate a ritornare alla sua famiglia ed hanno un senso in quanto egli riesce in questa impresa: ritorna salvo a quella Itaca dove ci sono la sua Penelope e suo figlio Telemaco.

Chi si interessa, oggi, del rapporto di coppia, chi ne studia la dinamica non può non osservare, con meraviglia, come Omero sembra aver scritto l’Iliade e l’Odissea anche per tramandare ai posteri le “eterne” dinamiche del processo di crescita umana, dinamiche che sono eterne e che comunque ogni uomo deve affrontare nel proprio processo di crescita, sia a livello individuale sia a livello di coppia.

I mille patimenti di Ulisse appartengono ad ogni uomo, antico e moderno e l’intelligenza e l’astuzia di Ulisse diventano mezzi efficaci per realizzare un buon processo di crescita, anche a livello di coppia. E se le dinamiche sono identiche, anche le soluzioni, allora come ora, possono essere efficaci anche per noi.

Allo scopo di chiarire quanto ho affermato sopra, mi fermerò a tratteggiare alcune tra le molte dinamiche descritte nei testi omerici.

1 – La dipendenza da una madre che si vorrebbe immortale per ottenere l’invulnerabilità (la dinamica di Achille).
2 – Come espugnare l’altro e poi distruggerlo (la dinamica del cavallo di Troia).
3 – Il fallimento dell’onnipotenza (la dinamica della tempesta).
4 – Lo scontro con il potere cieco che divora (la dinamica di Polifemo).
5 – La coppia si ritrova (la dinamica del ritorno ad Itaca).

Ogni coppia, nel momento in cui si forma, va incontro alla dinamica del “ritornare indietro prima di andare avanti”. Ritornare indietro serve a ciascuno per affrontare i vissuti e le frustrazioni infantili (della vita prenatale, della nascita, del pre-edipo, dell’edipo, dell’infanzia e dell’adolescenza) al fine di colmare i vuoti affettivi da essi derivati.

La natura non fa salti: questo significa che tutto ciò che non si è vissuto normalmente entro i primi sei anni, a cominciare dal concepimento, si ha l’esigenza, poi, di riviverlo nella coppia, per correggerlo. E d’altronde, cosa c’è di meglio del farsi aiutare da una persona che ci ama per colmare i vuoti affettivi creati nella nostra infanzia?

Il dramma tuttavia, sta nel fatto che questo percorso, obbligato per tutti, non si conosce e si vive alla cieca e, come tutte le cose vissute al buio, si ingigantisce, diventa insormontabile e crea fratture, a volte insanabili. Per esemplificare quanto su affermato spiegherò una ad una le dinamiche su elencate.

1 – La dinamica di Achille.

Achille era figlio della dea Teti e di Peleo; alla sua nascita la madre lo prese per un piede e lo immerse nel fiume Stige, per renderlo invulnerabile in tutto il corpo, ma nell’immersione un tallone rimase fuori dall’acqua, lasciandolo vulnerabile. Achille morì colpito da una freccia, proprio nel tallone vulnerabile (per mano di Paride).

La mia interpretazione è che Achille rappresenti l’immagine di quei figli che coltivano la dipendenza dalla madre la quale, immaginano, non debba morire mai perché, finché ella vive, essi si sentono invulnerabili: nessun dolore potrà essere mortale; nessuna malattia potrà essere mortale; nessun nemico li potrà sconfiggere.

Così avviene che tante ragazze e ragazzi non si sposano perché pensano che, lontani dalla protezione materna, possano morire. Chi mira a dipendere da una madre immortale, mira a ottenere l’invulnerabilità che, però, è una falsa invulnerabilità, perché la morte arriverà nel momento in cui meno è attesa, e verrà a colpire proprio nel punto debole.

2 – Il cavallo di Troia.

Omero ci racconta come i Greci, non riuscendo ad espugnare Troia con le armi, architettino per mezzo di Ulisse, intelligente ed astuto, di costruire un grande cavallo di legno, vuoto.

Il cavallo, abbandonato sulla spiaggia, doveva trarre in inganno i Troiani che, credendolo un mirabile dono degli dei, lo avrebbero tratto dentro le mura della città. Ed i Troiani abboccano, trascinano il cavallo fin dentro le mura; per tutta la notte, intorno ad esso, suonano, ballano, si ubriacano. Quando, poi, tutto tace, i soldati greci escono dal cavallo dove si erano nascosti e distruggono Troia ed i Troiani.

Questo episodio omerico può applicarsi benissimo al momento in cui un ragazzo od una ragazza desiderano conquistarsi per mettersi insieme. E’ il momento, quello, in cui non risparmiano mezzi per ottenere il risultato, profondendosi in gentilezze ed affettuosità tali da fare sciogliere qualunque cuore di pietra; ma, dopo la capitolazione, avviene la messa in opera della distruzione più completa.

E’ frequente il caso della donna che si sposa per avere due figli; la donna riesce a fare “cose da pazzi” per farsi sposare da un uomo al fine di fare i due figli, un maschio ed una femmina e, poi, non essere più “molestata”. Se per caso, però, il marito si farà una amante, ella, allora, sarà capace di rifare ancora “cose da pazzi”, ricorre alle minacce ed ai progetti vendicativi più neri, e pretendere che il marito non la debba toccare e che egli non debba guardare nessun’altra donna, pena la distruzione più completa. Ma già la distruzione del marito si compie nel momento in cui, ottenuti i figli, lei lo esclude dalla sua vita sessuale e sentimentale. Oggi la donna, più facilmente, ottenuta la coppia filiale, le studia tutte per lasciare il marito, complice il marito che si fa mettere la testa nel sacco.

3 – La tempesta.

Nell’Odissea troviamo il racconto della tempesta che viene scatenata dal dio Nettuno contro Ulisse per rappresaglia all’atto blasfemo di questi che, entrato a Troia, aveva distrutto la sua statua.

E’ inevitabile che avvengano le tempeste nella vita dell’uomo. L’uomo è un essere che si dibatte tra il desiderio di essere onnipotente e la realtà quotidiana, che lo pone di fronte alla sua impotenza, di fronte ai suoi limiti. Pur sapendo che dobbiamo convivere quotidianamente coi nostri limiti, coltiviamo il segreto desiderio di non averli, di esserne immuni e da qui, allora, lo scontro tra la pretesa di poter tutto e la realtà, che ci sbatte in faccia la nostra impotenza. Se le tempeste sono inevitabili, allora, Ulisse ci insegna ad affrontarle e ci dice che la prima cosa da fare è di non gettarsi in mare; ci dice di non morire prima che arrivi la morte.

Nella tempesta, Ulisse decide di restare sulla nave e, a differenza dei suoi compagni che si gettano in mare e muoiono, egli si salva. Durante la tempesta noi non dobbiamo mai decidere di morire, perché è l’unico modo che abbiamo per salvarci: Ulisse ce lo insegna.

4 – La dinamica di Polifemo.

Ulisse ed i suoi compagni approdano nella costa dei Ciclopi, ad Aci Trezza, in Sicilia. Ulisse desideroso di conoscere il popolo dei Ciclopi, si introduce con i suoi compagni nella grotta del Ciclope Polifemo per conoscerne le sembianze e provarne l’ospitalità. Giunto dentro la grotta, la trova piena di agnelli, di capretti, di formaggio e di latte. Così Ulisse ed i compagni dopo aver mangiato, attendono l’arrivo del Ciclope. Quando il Ciclope arriva, va su tutte le furie per il fatto di trovare degli estranei che, in sua assenza, hanno osato violare la sua dimora.

Polifemo, invece di rispettare la cultura dell’ospitalità sacra per i viandanti, in sfregio alle regole, decide di essere cannibale, mangia alcuni compagni di Ulisse e lo minaccia che mangerà anche lui, per ultimo. Polifemo diventa dunque l’immagine di un potere forte e brutale, fino all’inverosimile, che si esprime solo per divorare e distruggere tutto ciò che non può possedere. Dotato di un occhio com’è, vede solo, egoisticamente, ciò che gli interessa; il bene è in lui, il male è solo negli altri.

Polifemo, simbolicamente, rappresenta il nostro pensiero scisso attraverso il quale vediamo ora il bene, che siamo noi, ora il male, che sono gli altri. Polifemo siamo tutti noi quando, litigando con la moglie o col marito o coi nostri migliori amici, siamo immancabilmente portati a vederli tutti cattivi, anche se un momento prima li avevamo visti buoni: non può una persona essere un momento prima tutta buona, un momento dopo cattiva, tutta cattiva!

La grotta di Polifemo rappresenta il rifugio che noi spesso cerchiamo sotto le ali di un potere forte e cieco che ci protegge da un lato e ci annulla dall’altro. Polifemo rappresenta il potere della madre quando fa credere ai figli che solo essa può amarli veramente, solo essa può consigliarli saggiamente, solo essa può proteggerli dai guai della vita, solo essa saprà cucinare per loro le cose più buone, anche dopo che saranno sposati.

Polifemo siamo noi tutte le volte che ci ostiniamo a vedere un solo punto di vista: il nostro punto di vista. Polifemo lo siamo e lo saremo sempre, fin quando, esisteranno solo le nostre convinzioni immutabili, inconfutabili, uniche e che nessuno mai al mondo potrà contraddire.

5 – Il ritorno ad Itaca.

Dopo varie vicissitudini, Ulisse giunge alla sua reggia, ad Itaca. Egli è vestito da mendicante per non farsi scoprire dai Proci e da Penelope della quale deve ancora provare la fedeltà.

In questo racconto, per me, si completa il capolavoro di Omero. Questo racconto sembra essere un inno alla costruzione dell’edipo creativo. Ulisse ritorna, il suo viaggio si è compiuto, l’opera intrapresa è stata portata a termine con coraggio, con costanza, con molta riflessione.

Il ritorno ad Itaca può insegnare tante cose all’uomo di oggi; insegna, per esempio, a riconoscere i figli nella loro identità, nella loro intelligenza, nel loro bisogno di affetto, paterno e materno, disinteressato.

Telemaco riconosce il padre, ed Ulisse, ritrovatosi il figlio cresciuto, lo riconosce come valido, forte, capace di lottare con lui per la conquista di un posto tutto loro, accanto a Penelope.

L’incontro di Ulisse col figlio insegna all’uomo di oggi come superare il complesso di Laio.
Laio è il padre dell’edipo distruttivo perché, allontanando il figlio dalla madre, genera distruzione e morte.

Ulisse è il padre dell’edipo creativo perché, donando la madre al figlio, genera amore e vita. Ulisse, partendo per la guerra, affida il figlio alla madre e al suo ritorno lo valorizza, permettendogli un posto accanto a lui.

La forza dell’edipo creativo consiste nel riconoscere ad ognuno dei componenti la famiglia, uno spazio vitale corrispondente alle esigenze di ciascuno, spazio nel quale ciascuno può essere riconosciuto per quello che desidera e per quello di cui ha bisogno.

Insieme, padre e figlio, compiono una impresa formidabile, l’impresa di correggere i difetti della madre. Penelope era una bella donna ma anche una donna problematica: Ulisse la sposa, fa un figlio con lei e poi la lascia, giocoforza, per andare a combattere una guerra rischiosa, la guerra di trasformare se stesso (superare la simbiosi con la madre).

Ora il ritorno ad Itaca di Ulisse rappresenta per lui la possibilità indifferibile di costruire un rapporto di coppia positivo. Egli, dimentico delle passate sofferenze, comincia col provare la gioia di incontrare il figlio. Con lui si allea per indurre la moglie ad essere creativa ed affettuosa, ad avere finalmente fiducia di aprirsi alla vita e di concedersi all’amore.

Si ritrovano così insieme Ulisse, Penelope ed il figlio, Telemaco, per vivere l’esperienza di una reale vita familiare.

Quelle che ho descritto sono solo alcune delle dinamiche evidenziabili, le più forti, quelle che più frequentemente ci ritroviamo ad affrontare, ma tante altre ce ne sarebbero di significative, come quella delle Sirene che incantano i marinai col loro canto soave e poi li uccidono: simbolo delle donne che incantano gli uomini con la loro bellezza e la loro disponibilità sessuale e poi li trascinano, con una distruttività inesorabile, alla morte psichica.

O la dinamica di Scilla e Cariddi, simbolo delle difficoltà distruttive nelle quali si può incappare e che non lasciano scampo per la vita.

O la dinamica di Calipso, esempio di madre possessiva che non lascia spazio di libertà al figlio, anche quando egli si sposa, con la scusa che lei è sola. Certi figli di madre vedova, quando si sposano, di giorno stanno con la moglie e la sera vanno a dormire con la mamma che, “poveretta”, ha paura a dormire da sola.

O la dinamica di Nausicaa, figlia ben voluta e ben protetta dai suoi genitori, la quale non ha dentro di sé un progetto di matrimonio, anzi ella vuole restare nubile per godersi a lungo l’affetto genitoriale, ed allora si fidanza sempre con le persone sbagliate, proprio per non sposarsi.

E’ evidente dunque come dalla ricchezza di contenuti del mito classico, oggi più che mai, è facile ed utile attingere a piene mani punti di riferimento che aiutano la psicoterapia moderna a trovare soluzioni efficaci alla sofferenza dell’uomo moderno che oltre ad essere guarito dalla nevrosi ha bisogno di essere aiutato a trovare la via della crescita per realizzare un suo edipo creativo. Su questo spartito possiamo inventare ancora tanta bella musica per creare armonia nella vita incerta e sofferente dell’uomo di oggi, che si ritrova a doversi inventare, dopo averli distrutti, basilari e nuovi punti di riferimento.

Io credo che l’uomo di oggi tenti fortemente di uscire dalla simbiosi (Iliade) per entrare in una dimensione di crescita adulta attraverso la realizzazione di un edipo creativo (Odissea). L’opera di Omero diventa dunque un manuale di basilari principi psicoterapeutici e di antropologia esistenziale e di conseguenza un valido aiuto per percorrere adeguatamente il nostro cammino di trasformazione e di crescita.

Teresa Leuzzi
Alfio Milazzo

Istituto di Psicoterapia Analitica per la Coppia e la Famiglia
Catania, via S. Nullo 7 – Tel.: 095-7143802
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