Adunanza plenaria: no all’automatica applicazione della CEDU

Con ordinanza del 4 marzo 2015, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla possibilità che venga revocata una sentenza contrastante con norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
I giudici di Palazzo Spada, nel valutare tale possibilità, hanno preso posizione sull’annosa questione della disapplicazione automatica, da parte dei giudici nazionali, delle norme interne in contrasto con la CEDU.
Infatti, è ormai pacifico che i giudici italiani possano disapplicare le norme interne in contrasto con il diritto dell’Unione europea, senza che sia necessario, per fare ciò, che la Corte costituzionale venga investita della questione di legittimità della norma incriminata; in tal senso si sono pronunciate sia la Corte di giustizia dell’Unione nella sentenza resa, nel 1978, in relazione al caso Simmenthal, sia la Corte costituzionale nella sentenza n. 170 del 1984.
Non, invece, altrettanto si può dire in relazione alle norme interne in contrasto con le disposizioni della CEDU: infatti, sebbene siano emersi orientamenti giurisprudenziali di segno contrario, la Corte costituzionale ha sempre affermato la sua competenza a risolvere, attraverso il sindacato di legittimità costituzionale, il contrasto tra norme interne e norme pattizie internazionali. In particolare, essa ha costantemente statuito che “l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali. Così interpretato, esso ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. Al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo. Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU (a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità”.
Né la Corte costituzionale ha ritenuto di dover mutare il proprio convincimento a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che, all’art. 6, sancisce l’adesione dell’Unione europea alla CEDU, affermando che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Ora, al fine di valutare la ragionevolezza della posizione assunta dalla Corte costituzionale, è necessario comprendere se, nelle intenzioni del legislatore comunitario, attraverso il Trattato di Lisbona alle disposizioni della CEDU sia stata riconosciuta diretta applicabilità all’interno degli Stati membri.
A tal fine, è utile mettere a confronto il paragrafo dell’art. 6 del Trattato, sopra richiamato, con il par. 1 dello stesso articolo, il quale, in relazione alla Carta di Nizza, afferma che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”.
Ora, confrontando le due disposizioni, è evidente il diverso valore giuridico che vengono ad assumere la Carta di Nizza e la CEDU.
La prima acquisisce “lo stesso valore giuridico dei trattati”. In tal modo diviene diritto comunitario e comporta tutte le conseguenze del diritto comunitario in termini di prevalenza sugli ordinamenti nazionali, con conseguente disapplicazione della norma interna con essa in contrasto.
La seconda, invece, non viene equiparata al diritto comunitario, ma viene riconosciuta, ai principi in essa contenuti, la qualità di “principi generali” del diritto dell’Unione, al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
Dunque, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la non diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU, che resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale.
Pertanto, deve ritenersi corretta l’ordinanza dell’Adunanza Plenaria del 4 marzo 2015, che, nel ritenere che non sia possibile una diretta disapplicazione delle norme interne in contrasto con disposizioni della CEDU, ha rimesso la questione di legittimità alla Corte costituzionale, affinché essa valuti se sia conforme a Costituzione il disposto dell’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c. nella parte in cui non prevedano un caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

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Redazione

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