Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4857 del 22 ottobre 2015 ha statuito che l’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità non può rilevare come titolo per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche.
In caso, quindi, di pubblicità effettuata su impianti installati su beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione, l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità non esclude infatti quella della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell’art. 9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l’imposta comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato, che individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione dell’area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità e, quindi, all’uso generalizzato (Cassazione civile, sez. trib., 27 luglio 2012, n. 13476).
Il Collegio ha infatti osservato che la regola della necessità del rilascio di una concessione – perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato dei luoghi – si applica pure quando si tratti della collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non è regolata soltanto alle disposizioni del codice della strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del 1993), per effettuare la quale non è sufficiente la presentazione della relativa domanda, dovendosi, al riguardo, pienamente esplicare da parte dell’Amministrazione un’attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
Il Collegio inoltre si è espresso anche in merito alla competenza del giudice amministrativo sui canoni comunali.
Al riguardo ha chiarito che le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario sono quelle con concernenti pretese di carattere meramente patrimoniale, che derivano dall’attuazione del rapporto instauratosi tra il privato e la pubblica amministrazione e rispetto alle quali non è stato esercitato un potere autoritativo a tutela di interessi generale.
Mentre sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando la controversia coinvolga l’esercizio di poteri discrezionali previsti da una norma giuridica e inerenti alla determinazione del canone, dell’indennità o di altro corrispettivo, ovvero investa l’esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone che incidono sull’economia dell’intero rapporto concessorio, e non semplicemente la verificazione dei presupposti fattuali dello stesso e la quantificazione delle somme.
Nel caso di specie la richiesta di restituzione dell’area occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa, risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del Comune, sicché va rilevata la sussistenza della giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente alla gestione del bene pubblico.
Si riporta di seguito il testo della sentenza.
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N. 04857/2015REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1901 del 2006, proposto dal Comune di Ponte San Pietro, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Daminelli e Stefano Santarelli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Stefano Santarelli, in Roma, via Asiago, n. 8;
contro
La s.p.a. IGPDECAUX Affissioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Maurizio Zoppolato, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via del Mascherino, n. 72;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Lombardia – Sezione Staccata di Brescia n. 823/2005, resa tra le parti;
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della IGPDECAUX Affissioni s.p.a.;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 luglio 2015 il Cons. Antonio Amicuzzi e uditi per le parti gli avvocati Stefano Santarelli e Maurizio Zoppolato;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1.- Il Responsabile dell’Ufficio Economico Finanziario del Comune di Ponte San Pietro, con nota prot. 8970 del 10 aprile 2002, ha comunicato alla s.p.a. IGPDECAUX Affissioni che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati da tre cartelli pubblicitari e da tre pannelli luminosi siti nel Comune, alla via Trento e Trieste, la cui installazione era stata autorizzata con atti prot. 5597 del 13 luglio 1982, prot. 6942 del 4 dicembre 1987 e prot. 3033 del 19 aprile 1991, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la restituzione dell’area con la contestuale rimozione degli impianti» (concedendo per l’incombente un termine di tre mesi), dal momento che non risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree, assegnate in comodato (come sarebbe stato comprovato dalla circostanza che non risultavano pagamenti a favore del Comune per l’utilizzo dello spazio in questione).
2.- La società ha proposto il ricorso di primo grado, chiedendo l’annullamento di tale provvedimento e per il risarcimento del danno al T.A.R. Lombardia, sezione di Brescia, che, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa del Comune ed ha accolto il ricorso, ritenendo che il Comune, non avendo chiesto alcun corrispettivo per l’uso del bene nel periodo dall’anno 1982 all’anno 2002, aveva dimostrato di avere costantemente interpretato le autorizzazioni all’affissione dei cartelli pubblicitari come comprensive della fruizione del muro di cinta del campo sportivo comunale.
Il T.A.R. ha inoltre respinto la domanda riconvenzionale, proposta dal Comune.
3.- Con il ricorso in appello in esame, il Comune di Ponte San Pietro ha chiesto la riforma della sentenza del T.A.R., deducendo i seguenti motivi:
a) Difetto di giurisdizione.
Erroneamente il T.A.R. avrebbe respinto la eccezione di difetto di giurisdizione formulata dalla difesa comunale, essendo stato il ricorso di primo grado proposto non avverso un provvedimento autoritativo, ma avverso un atto di diritto privato.
b) Violazione del principio della forma scritta ad substantiam dei contratti delle pubbliche amministrazioni.
Non sarebbe condivisibile la tesi del T.A.R. secondo cui le autorizzazioni in questione si sarebbero dovute interpretare come titolo abilitante all’uso temporaneo del muro di cinta.
c) Con domanda riconvenzionale, il Comune ha chiesto la condanna della società, ai sensi dell’art. 2041 del c.c., ad indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del canone per l’affitto degli spazi in questione, oltre ad interessi e rivalutazione dal saldo al dovuto.
4.- Con memoria depositata il 29 marzo 2006, si è costituita in giudizio la s.p.a. IGPDECAUX Affissioni, che ha chiesto che l’appello sia dichiarato inammissibile, o improcedibile, o infondato e che sia respinto.
5.- Con memoria depositata il 28 maggio 2015, il Comune appellante ha evidenziato che gli impianti pubblicitari in questione erano stati rimossi il giorno 13 dicembre 2011, sicché, ai fini della domanda riconvenzionale, l’importo dovuto dalla società ammonterebbe ad € 229.860,00, oltre a rivalutazione ed interessi a decorrere da ogni annualità.
6.- Con memoria depositata il 12 giugno 2015, la società ha eccepito che, se l’atto impugnato avesse disposto la richiesta di restituzione da parte del Comune nella veste di proprietario del bene, non si verterebbe in una ipotesi di difetto di giurisdizione, ma di inammissibilità del ricorso per assenza di un atto lesivo, in quanto il Comune avrebbe potuto agire innanzi al giudice civile a tutela della proprietà, invece di avvalersi di poteri pubblicistici o autoritativi; in realtà il Comune avrebbe esercitato prerogative pubbliche per ottenere la rimozione degli impianti in questione, con giurisdizione amministrativa in materia, anche perché, essendo stati gli impianti a suo tempo autorizzati dall’Ente, l’atto che ne ha intimato la rimozione avrebbe natura di atto di ritiro (anche se non rivestente la forma tipica della revoca, né dotato dei requisiti sostanziali propri di questa), sicché oggetto del contendere sarebbe la legittimità di un atto «di secondo grado», teso ad eliminare gli effetti di precedenti determinazioni.
Nel merito, la società ha dedotto l’infondatezza dell’appello ed ha eccepito l’inammissibilità della domanda riconvenzionale per carenza di giurisdizione e per assenza dei requisiti per la sua proposizione (poiché l’oggetto del ricorso principale riguarda il pagamento dell’imposta comunale sulla pubblicità, che sarebbe stata tuttavia sempre pagata), nonché la sua irricevibilità per tardività (poiché non sarebbe stato rispettato il termine previsto per il ricorso incidentale, né quello per la costituzione in giudizio, né la condizione del primo atto difensivo).
La società ha inoltre concluso per la reiezione dell’appello anche per quanto riguarda la domanda riconvenzionale, con il favore delle spese.
7.- Con memoria depositata il 19 giugno 2015, il Comune appellante ha replicato alle avverse deduzioni.
8.- Alla pubblica udienza del 16 luglio 2015, il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione.
9.- Con il primo motivo di gravame è stata dedotta l’erroneità dell’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dalla difesa comunale.
Il T.A.R. ha ritenuto che la definizione della domanda di recupero della disponibilità di un bene patrimoniale del Comune e della concorrente domanda riconvenzionale non poteva che «presupporre quella della persistenza e valenza delle rilasciate autorizzazioni amministrative» ed inoltre nell’assunto che il petitum atteneva «all’individuazione degli effetti discendenti dalle dette autorizzazioni, apparendo concretare l’ordine di rimozione una surrettizia revoca di queste ultime».
Il Comune appellante ha dedotto che il ricorso di primo grado sarebbe stato infatti proposto non avverso un provvedimento autoritativo, ma avverso un atto di diritto privato, con cui l’Amministrazione avrebbe manifestato l’intenzione di rientrare in possesso di un proprio bene patrimoniale disponibile, ritenuto occupato sine titulo dalla società suddetta; l’area a ridosso del muro di cinta del campo sportivo, sul quale i mezzi pubblicitari in questione erano stati apposti, anche se di proprietà pubblica, non sarebbe di uso pubblico generale e apparterrebbe quindi al patrimonio disponibile del Comune, sicché il suo utilizzo sarebbe regolato dalle norme di diritto privato.
Neppure potrebbe ritenersi che la materia del contendere rientri nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 34 del d. lgs. n. 80 del 1998 (a maggior ragione dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, che ha ridefinito la portata della giurisdizione amministrativa, eliminando dalla norma il riferimento ai «comportamenti» della pubblica amministrazione, non collegati all’esercizio di un potere autoritativo); dovrebbero pertanto ritenersi escluse dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le questioni di diritto privato attinenti alla proprietà pubblica o le controversie attinenti all’attività di gestione di beni pubblici, non venendo in rilievo una funzione istituzionale della P.A. ed a nulla valendo, che una delle parti sia pubblica, essendo la sua posizione definita dalle norme di diritto privato e non dalla disciplina amministrativa urbanistica o edilizia.
Erroneamente il T.A.R. avrebbe ritenuto che l’atto impugnato avesse carattere autoritativo, perché con esso il Comune avrebbe compiuto solo un atto di gestione della proprietà, intimando il rilascio di un bene patrimoniale disponibile occupato sine titulo o sulla base di un contratto di comodato, come comprovato dalla provenienza dell’atto da un settore preposto alla gestione dei beni di proprietà comunale, senza connessioni con il settore urbanistico.
La controversia riguarderebbe quindi l’accertamento di un idoneo titolo legittimante l’utilizzazione di un bene del patrimonio disponibile del Comune, rientrante alla giurisdizione del giudice ordinario, e non ad una revoca delle autorizzazioni, come affermato dal primo giudice.
L’autorizzazione all’installazione dei cartelli avrebbe avuto effetto solo ai fini della diffusione del messaggio pubblicitario, con valenza limitata all’imposta sulla pubblicità, o, al più, a fini edilizi, e sarebbe venuta meno con il venir meno dell’atto legittimante alla detenzione del bene, senza che l’atto con cui sarebbe stato esercitato il diritto dominicale di rientrare in possesso del bene si fosse trasformato, per la sua incidenza sulla fattispecie autorizzatoria, in un atto autoritativo.
9.1.- Osserva la Sezione che, al fine di accertare se con il provvedimento impugnato il Comune abbia inteso esercitare prerogative di natura privata o pubblica, va innanzi tutto rilevato che l’art. 133 comma 1, lett. b), del c.p.a., nell’elencare le materie oggetto giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sottrae alla sua cognizione esclusivamente le controversie concernenti «indennità, canoni ed altri corrispettivi» e quelle attribuite ai Tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche; di conseguenza (posto che appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie di natura meramente patrimoniale), ogni qualvolta venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, avente per oggetto un bene pubblico (demaniale o patrimoniale indisponibile) e contestato dal privato, la controversia è devoluta senza dubbio al giudice amministrativo.
Ciò posto, va osservato che la realizzazione o l’installazione di qualsiasi manufatto sul suolo pubblico è consentita solo se è preventivamente rilasciato un atto concessorio.
Infatti, da un lato occorre il consenso dell’Amministrazione titolare del bene, perché vi sia una tale realizzazione o installazione, dall’altro vi è una costante e plurisecolare tradizione giuridica (corroborata da un costante quadro normativo e giurisprudenziale), per il quale qualsiasi atto dell’Amministrazione – di gestione di un proprio bene pubblico, demaniale o patrimoniale indisponibile – ha natura pubblicistica e provvedimentale.
Sul punto, il Collegio osserva che:
– per una indiscussa giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 4 novembre 1994, n. 1257), il «campo sportivo» di cui è titolare il Comune – comunque sia denominato e qualsiasi consistenza abbia – ha natura di bene patrimoniale indisponibile (mirando al soddisfacimento di interessi della collettività locale);
– la regola della necessità del rilascio di una concessione – perché vi sia un qualsiasi manufatto incidente sullo stato dei luoghi – si applica pure quando si tratti della collocazione di cartelli pubblicitari (la cui disciplina non è regolata soltanto alle disposizioni del codice della strada, ma anche dagli artt. 3 e 12, del d.lgs. n. 507 del 1993), per effettuare la quale non è sufficiente la presentazione della relativa domanda, dovendosi, al riguardo, pienamente esplicare da parte dell’Amministrazione un’attività valutativa e discrezionale, che si manifesta con atti incidenti su posizioni di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo;
– specularmente, anche l’esercizio del potere di ritiro dell’atto di natura concessoria – e che dispone la rimozione di cartelloni pubblicitari – attiene a posizioni di interesse legittimo (Cons. Stato, sez. V, 17 giugno 2015, n. 3066).
Non rileva invece esaminare quale sia l’ambito di applicazione dell’art. 23, comma 11, del codice della strada, che riguarda lo specifico caso di opposizione alla sanzione amministrativa e alla conseguente misura della rimozione di un impianto abusivo (e che non è suscettibile di applicazione analogica, risultando una norma eccezionale, di deroga al principio attualmente sancito dall’art. 7 del codice del processo amministrativo, per il quale i provvedimenti espressione di un potere pubblicistico sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo).
Nel caso di specie con l’atto impugnato il Comune ha comunicato alla società appellata che intendeva ritornare in possesso degli spazi occupati dai cartelli pubblicitari e dai pannelli luminosi, la cui installazione era stata autorizzata con precedenti provvedimenti, ed ha richiesto, ai sensi degli artt. 1809 e 1810 del c.c., alla società «la restituzione dell’area con la contestuale rimozione degli impianti», entro un fissato termine, perché non risultava alcun titolo specifico per l’utilizzo delle aree.
Non è fondata, sotto tale aspetto, la tesi difensiva della società, per la quale a suo tempo vi era stato un contratto di «comodato»: un tale contratto non può essere giuridicamente posto in essere quando si tratti di un bene pubblico, rispetto al quale – al più – può esservi il rilascio di una concessione a titolo gratuito (la quale, peraltro, a sua volta è configurabile solo quando la concessione sia espressamente rilasciata a tale titolo e purché – beninteso – un tale rilascio sia consentito da una norma giuridica e sussistano i relativi presupposti, dovendosi comunque applicare altrimenti il principio per cui l’Amministrazione deve poter ottenere un corrispettivo per l’utilizzo di un proprio bene).
Nella specie, la richiesta di restituzione dell’area occupata dagli impianti dei quali è stata ordinata la rimozione con atto di natura autoritativa è da considerarsi la dovuta conseguenza dell’emanazione dell’ordine di rimozione e, in quanto con esso inscindibilmente connessa, risulta essa stessa espressione del potere autoritativo del Comune, sicché va rilevata la sussistenza della giurisdizione amministrativa (per di più esclusiva, ai sensi dell’art. 133 del c.p.a.), circa il provvedimento inerente alla gestione del bene pubblico.
Va respinto dunque il primo motivo d’appello.
10.- Con il secondo motivo di gravame, il Comune ha lamentato l’erroneità della sentenza appellata, nella parte in cui essa ha argomentato nel senso che le autorizzazioni a suo tempo rilasciate erano titoli idonei ad escludere la natura abusiva delle affissioni, come risulterebbe anche dal fatto che non è stato chiesto alcun corrispettivo per l’uso del muro di cinta del campo sportivo, per il periodo dall’anno 1982 all’anno 2002.
Ad avviso dell’appellante, il T.A.R. avrebbe sovrapposto due piani da tenere invece distinti (cioè il profilo delle autorizzazioni amministrativa all’esposizione e alla diffusione di messaggi pubblicitari e quello della fruizione di aree e di immobili di proprietà pubblica, ma non destinati all’utilizzazione pubblica generalizzata) e non avrebbe tenuto conto dei principi riguardanti la necessità della forma scritta ad substantiam, quando si tratti di contratti con le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, è dedotto che:
– l’area in questione, in quanto appartenente al patrimonio disponibile e quindi fruttifero, non sarebbe stata soggetta a concessione di suolo pubblico, dovendosi invece ritenere necessaria la stipula di un contratto, la cui mancanza evidenzierebbe la natura abusiva delle installazioni effettuate;
– contrariamente a quanto affermato dal T.A.R., il Comune non ha mai ‘autorizzato’ per facta concludentia la installazione;.
– l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità (ai sensi del d.lg. n. 507 del 1993) non rileva quale titolo per l’occupazione degli spazi in questione, risultando anche dovuta la tassa per l’occupazione di spazi e di aree pubbliche ovvero dei canoni di locazione o di concessione (ex art. 13, u.c., del medesimo d.lgs.), come previsto anche dall’art. 18 del Regolamento comunale per la pubblicità;.
– il Comune fondatamente ha preteso il pagamento del corrispettivo per l’uso di fatto del bene.
10.1.- Ritiene la Sezione che il motivo è fondato, per la parte in cui ha dedotto l’infondatezza delle censure formulate in primo grado, avverso il provvedimento di autotutela.
Vanno previamente respinte le deduzioni con cui il Comune ha dedotto che per l’utilizzo del bene in questione sarebbe stata necessaria la stipula di un contratto: come si è sopra rilevato in sede di reiezione della deduzione per cui non sussisterebbe la giurisdizione amministrativa, il provvedimento a suo tempo emesso va qualificato come concessione (di utilizzo) di un bene pubblico.
Quanto alla deduzione sulla spettanza di un corrispettivo per l’uso del bene, il collegio ritiene che, alle considerazioni sopra riportate, vadano aggiunte quelle dopo esposte in occasione dell’esame della domanda riconvenzionale, formulata dal Comune innanzi al T.A.R.
Risulta invece fondata la deduzione del Comune, secondo cui l’avvenuto pagamento della imposta sulla pubblicità dovrebbe far considerare insussistente il presupposto (l’occupazione senza titolo) che ha condotto all’emanazione dell’atto impugnato in primo grado.
L’art. 3, comma 149, lettera g), della legge n. 662 del 1996 ha attribuito ai Comuni la «facoltà, con regolamento, di escludere l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità», di cui al d. lgs n. 507 del 1993, e «di individuare le iniziative pubblicitarie che incidono sull’arredo urbano o sull’ambiente prevedendo per le stesse un regime autorizzatorio e l’assoggettamento al pagamento di una tariffa», nonché la «possibilità di prevedere, con lo stesso regolamento, divieti, limitazioni e agevolazioni e di determinare la tariffa secondo criteri di ragionevolezza e di gradualità, tenendo conto della popolazione residente, della rilevanza dei flussi turistici presenti nel comune e delle caratteristiche urbanistiche delle diverse zone del territorio comunale».
L’art. 52 del d. lgs. n. 446 del 1997 disciplina l’attività regolamentare dei Comuni in materia di entrate proprie; il seguente art. 54 abilita il Comune a fissare le tariffe e i prezzi pubblici ai fini dell’approvazione del bilancio di previsione e il successivo art. 62 (riproducendo in sostanza la disposizione della l. n. 662 del 1996 sopra richiamata) affida ai Comuni il compito di disciplinare con proprio regolamento il nuovo regime autorizzatorio in materia di pubblicità con il pagamento di un canone in base a tariffa, facendo riferimento – per quel che riguarda la «individuazione della tipologia dei mezzi di effettuazione della pubblicità esterna che incidono sull’arredo urbano o sull’ambiente» – alle disposizioni del codice della strada n. 285 del 1992 e del suo regolamento di attuazione (d.P.R. n. 495 del 1992); nella stessa disposizione è previsto che il regolamento debba disciplinare le «procedure per il rilascio e per il rinnovo dell’autorizzazione», indicare le «modalità di impiego dei mezzi pubblicitari», determinare la tariffa con criteri di ragionevolezza e gradualità in relazione agli indicati parametri, nonché che possa fissare «con carattere di generalità divieti, limitazioni e agevolazioni» (al comma 3); prevede infine (al comma 4) che il Comune procede alla rimozione dei mezzi pubblicitari privi di autorizzazione o installati in difformità da essa.
Parallelamente al canone dovuto ex art. 62 del d.lgs. n. 446 del 1997 per l’installazione di cartelloni e di insegne pubblicitarie, l’art. 7 del d.lgs. n. 507 del 1993 ha previsto la debenza di una imposta, determinata in base alla superficie della minima figura piana geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario, per la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile, al cui pagamento, ai sensi del precedente art. 6, è tenuto il soggetto che dispone a qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso.
L’avvenuto pagamento dell’imposta sulla pubblicità da parte della società appellata non può quindi rilevare come titolo per l’occupazione del muro di cinta dello stadio su cui erano situati gli impianti pubblicitari, che ha reso la società adempiente dei soli obblighi previsti dal d. lgs. n. 507 del 1993 per l’esposizione dei cartelli pubblicitari, ma ha fatto salva la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche ed il pagamento di canoni di locazione o di concessione.
In caso di pubblicità effettuata su impianti installati su beni appartenenti al Comune o da questo dati in detenzione, l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità non esclude infatti quella della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, nonché il pagamento di canoni di locazione o di concessione, atteso il chiaro tenore letterale dell’art. 9, comma 7, del d.lgs. n. 507 del 1993, in quanto l’imposta comunale sulla pubblicità ha presupposti diversi dalla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, come emerge dal confronto fra gli art. 5 e 38 del d.lgs. citato, che individuano il presupposto impositivo, rispettivamente, nel mezzo pubblicitario disponibile e nella sottrazione dell’area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità e, quindi, all’uso generalizzato (Cassazione civile, sez. trib., 27 luglio 2012, n. 13476).
Deve consequenzialmente rilevarsi l’infondatezza della tesi posta a base dell’impugnata sentenza, secondo cui le autorizzazioni alla affissione degli impianti in questione potessero interpretarsi come titoli abilitanti anche all’uso anche del muro di cinta.
E comunque il fatto che il Comune non abbia richiesto preventivamente alcun corrispettivo per l’uso del muro suddetto non dimostra che esso abbia interpretato le anzidette autorizzazioni come comprensive della fruizione del muro stesso (né il Comune avrebbe potuto dare una tale interpretazione, non potendo l’Amministrazione rinunciare a percepire quanto spettante).
Deve in conclusione ritenersi la legittimità dell’ordine di restituzione dell’area con contestuale rimozione degli impianti.
10.2. Né, comunque, un titolo concessorio si sarebbe potuto ritenere sussistente anche nel caso di effettivo pagamento delle somme di cui il Comune lamenta la mancata corresponsione, poiché il pagamento di tali importi non sarebbe stato comunque equipollente al rilascio del necessario provvedimento espresso, abilitativo dell’uso dell’impianto.
10.3. Considerato che non sono state ritualmente riproposti nel giudizio di appello, entro il termine per la costituzione in giudizio, da parte della IGPDECAUX Affissioni s.p.a., i motivi di ricorso di primo grado dichiarati assorbiti dal primo giudice, nei limiti sopra esposti l’appello va accolto e va conseguentemente respinto il ricorso di primo grado introduttivo del giudizio, perché infondato.
11.- Con il terzo motivo d’appello, il Comune ha riproposto la domanda riconvenzionale respinta dal T.A.R., chiedendo, ai sensi dell’art. 2041 del codice civile, la condanna della società ad indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del canone per l’affitto degli spazi in questione ed ammontante, come risulta da una certificazione del responsabile del Settore finanziario del Comune del 3 aprile 2003, a circa € 1.277 per l’occupazione dello spazio con un cartello pubblicitario di dimensioni pari a mt. 6×3.
Tenuto conto che l’area in questione è stata occupata con sei cartelli pubblicitari di tali dimensioni, ad avviso del Comune il canone annuo da corrispondere all’Amministrazione ammonterebbe ad € 7.662, da moltiplicare per il numero di anni di occupazione abusiva, “allo stato” pari a 20, per una somma complessiva di € 153.240,00, oltre i relativi accessori.
Con una memoria depositata il 28 maggio 2015, il Comune ha quantificato l’importo dovuto dalla società in € 229.860,00, oltre a rivalutazione ed interessi a decorrere da ogni annualità.
11.1.- Al riguardo la società appellata ha eccepito l’inammissibilità della domanda formulata in primo grado, tra l’altro, per difetto di giurisdizione, poiché le controversie relative al pagamento dei canoni di concessione di beni pubblici, come quelle inerenti alle pretese creditorie dell’Amministrazione per occupazioni, anche senza titolo, di beni pubblici, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario; ciò a nulla valendo la valenza riconvenzionale della richiesta, sia perché, ex art. 36 del c.p.c., essa non comporterebbe deroga alla giurisdizione del giudice adito e sia perché sarebbe precluso dal criterio di riparto l’ottenimento in via riconvenzionale di una pronuncia del giudice amministrativo preclusa in caso di azione principale (a nulla valendo la pretesa del Comune di qualificare il dedotto mancato pagamento in termini di indebito arricchimento).
11.2.- Osserva in proposito il collegio che, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c), del c.p.a., sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti «indennità, canoni ed altri corrispettivi» (sull’ambito di applicazione della medesima lettera c), cfr. Cons. di Stato, sez. V, 22 gennaio 2015, n. 247).
In generale le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario sono quelle con concernenti pretese di carattere meramente patrimoniale, che derivano dall’attuazione del rapporto instauratosi tra il privato e la pubblica amministrazione e rispetto alle quali non è stato esercitato un potere autoritativo a tutela di interessi generali; va, invece, riconosciuta la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo quando la controversia coinvolga l’esercizio di poteri discrezionali previsti da una norma giuridica e inerenti alla determinazione del canone, dell’indennità o di altro corrispettivo, ovvero investa l’esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone che incidono sull’economia dell’intero rapporto concessorio, e non semplicemente la verificazione dei presupposti fattuali dello stesso e la quantificazione delle somme.
Con particolare riguardo ai canoni comunali sulla pubblicità, la Corte Costituzionale, con sentenza 21 gennaio 2010 n. 18, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall’art. 3 bis, comma 1, lett. b), del d.l. n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, nella l. n. 248 del 2005 (censurato, in riferimento all’art. 102, comma 2, ed alla VI disposizione transitoria della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie attinenti il canone comunale sulla pubblicità).
In tema di riparto di giurisdizione (a seguito della sentenza n. 64 del 2008, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, per contrasto con gli art. 103 Cost. e VI disp. att. Cost., dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall’art. 3 bis, comma 1, lett. b, d.l. n. 203 del 2005, convertito nella l. n. 248 del 2005) spettano alla giurisdizione del giudice ordinario non solo le controversie relative al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) ma anche quelle relative a qualsivoglia altra tipologia di canone che l’Ente locale potrebbe pretendere per la concessione di spazi ed aree per l’installazione di impianti pubblicitari (Cassazione civile sez. un. 16 aprile 2009 n. 8994).
In particolare è stato ritenuto dalla giurisprudenza formatasi in materia in tema di giurisdizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie aventi ad oggetto la debenza del canone previsto per l’installazione di mezzi pubblicitari, dall’art. 62 d.lgs. n. 446 del 1997, che – come ritenuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 2009 – costituisce una mera variante dell’imposta comunale sulla pubblicità di cui al d.lgs. n. 507 del 1993 e conserva, quindi, la qualifica di tributo propria di quest’ultima, mentre spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative al canone per la concessione di spazi ed aree per l’installazione di impianti pubblicitari (Cassazione civile, sez. un., 7 maggio 2010, n. 11090).
Posto quindi che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo al riguardo solo in materia di impugnazione di delibere comunali di determinazione delle tariffe relative agli impianti pubblicitari, va ritenuto che sulla domanda riconvenzionale dedotta in giudizio, volta ad ottenere la condanna della società di cui trattasi ad indennizzare il Comune della diminuzione patrimoniale subita, consistente nel mancato introito del canone per l’uso degli spazi in questione, deve dichiarasi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, essendo competente riguardo alla pretesa in esame il giudice ordinario.
Resta conseguentemente assorbita l’eccezione formulata dalla costituita società di irricevibilità della domanda in questione.
12.- L’appello deve essere conclusivamente accolto in parte e per l’effetto, in riforma della decisione sentenza del T.A.R., va respinto il ricorso introduttivo del giudizio.
La domanda riconvenzionale riproposta in questa sede dal Comune appellante deve essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione.
13.- Tenuto conto delle complessive statuizioni del collegio, le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza riguardante l’infondatezza del ricorso di primo grado e vanno liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente decidendo, accoglie in parte l’appello in esame e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, respinge il ricorso originario proposto dinanzi al T.A.R.
Dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione la domanda riconvenzionale proposta dal Comune appellante
Come statuito in motivazione, pone a carico dell’appellata IGPDECAUX Affissioni s.p.a. le spese del doppio grado, liquidate a favore del Comune di Ponte San Pietro nella complessiva misura di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre ai dovuti accessori (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 luglio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere
Antonio Amicuzzi, Consigliere, Estensore
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Carlo Schilardi, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il 22/10/2015.