I principi fondamentali e l’evoluzione storica della legislazione sociale e del diritto della previdenza sociale
Il presente testo è un estratto del libro “Lo Stato Sociale e le sue tutele. Guida pratica alla previdenza e assistenza per patronati, PA e cittadini” dell’avv. Mario di Mulo, in materia di diritto previdenziale e legislazione sociale.
In un momento in cui la riforma del sistema del diritto di previdenza sociale è diventato di attualità pressante, diventa fondamentale comprendere come il Welfare in Italia sia stato pensato..
La legislazione sociale, infatti, è una materia fittissima e specialistica, non priva di particolarità che la rendono di difficile comprensione.
Nello specifico, il Volume si propone l’arduo compito di dare risposte immediate e concrete agli operatori del settore, e non solo, che sempre più necessitano di una visione organica del fenomeno.
Ragion per cui, l’Autore ha cercato di predisporre uno strumento chiaro e “smart”, tale da consentire una facile consultazione a tutti coloro che ne abbiano interesse.
Al riguardo, sono state prospettati una serie di casi pratici ai quali si è cercato di fornire suggerimenti utili ricavati dall’esperienza pratica e quotidiana.
1. L’oggetto della legislazione sociale e le sue caratteristiche principali
Al fine di comprendere ed inquadrare correttamente la materia della legislazione sociale, è doveroso riportare integralmente quanto disciplinato dall’art. 38 della Costituzione repubblicana: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo stato. L’assistenza privata è libera”.
Muovendo da tale norma fondamentale, la dottrina ha identificato la legislazione sociale come una branca del più ampio diritto del lavoro, che mira alla realizzazione di un sistema di welfare (protezione sociale), rivolto a tutti i cittadini, lavoratori e non, teso a garantire la salute degli individui per il benessere individuale e collettivo. Scopo principale della materia è quello di assicurare a tutti la libertà dallo stato di bisogno, per la cui soddisfazione è necessario che vengano poste in essere una serie di “iniziative specifiche preordinate a prevenire e rimuovere lo stato di bisogno” (CINELLI).
Ben diversa, invece, è la legislazione sociale del lavoro che riguarda istituti quali: il collocamento della manodopera e dei lavoratori disabili; la tutela contro i licenziamenti illegittimi; la durata della prestazione lavorativa e i riposi; l’igiene del lavoro e della prevenzione degli infortuni sul luogo di lavoro; la tutela contro i rischi connessi allo svolgimento del rapporto di lavoro.
In un primo momento, il diritto del lavoro e la legislazione sociale erano un tutt’uno: invero, entrambe erano collegate alla rivoluzione industriale e le prime disposizioni normative miravano a proteggere determinate categorie di lavoratori considerate “deboli” (donne e bambini).
Nel corso dell’evoluzione storica, tuttavia, la legislazione sociale assunse una propria sfera di autonomia, tanto da divenire una branca autonoma del vigente ordinamento giuridico.
Inoltre, si distinguono convenzionalmente due modelli di legislazione sociale:
il Modello “Beveridgiano” (di sicurezza sociale), caratterizzato dal finanziamento a carico dello Stato. È un modello nel quale lo Stato interviene assicurando prestazioni economiche e sociali che consentano a tutti gli individui la liberazione dallo stato di bisogno. Realizza una solidarietà generale secondo un principio di eguaglianza (o forse egualitarismo);
il Modello “Bismarckiano” (o previdenziale), caratterizzato dal finanziamento attraverso i singoli contributi delle imprese. Lo Stato, infatti, interviene a tutela del reddito, a garanzia del livello di vita raggiunto. Per il resto, tenendo ferma la distinzione tra assistenza e previdenza, realizza una solidarietà occupazionale secondo un principio di corrispettività.
La previdenza sociale è rimasta fortemente ancorata al secondo modello, mentre il primo più che diritti previdenziali esprime diritti sociali. La distinzione è centrale: mentre i diritti previdenziali guardano al cittadino in relazione alla sua capacità di produrre reddito da lavoro, i diritti sociali guardano al cittadino in relazione al suo essere persona umana.
Pilastri fondamentali della materia sono: tutela di tutti i cittadini (lavoratori e non); erogazione dei servizi, unitamente o in alternativa al soggetto pubblico, da parte dei privati; differenziazione delle prestazione dei servizi in base al possesso o meno di determinati requisiti (categorie di individui, aree geografiche, livello reddituale).
Il cuore del sistema è rappresentato dagli istituti di carattere pensionistico, gestiti dall’INPS. Si tratta di un settore che sta vivendo forti scosse a causa dei maggiori oneri finanziari legati alla drastica ristrettezza economica che attanaglia il nostro Paese nonché in forza dell’aumento dell’età media della popolazione beneficiaria delle prestazioni. Ragion per cui, si cerca di dare spazio alla previdenza complementare, gestita da Fondi privati. Inoltre, altro organo basilare che fornisce tutela al lavoratore è l’INAIL, il quale gestisce l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Gli interventi legislativi correttivi in materia previdenziale ed assistenziale dell’ultimo decennio si sono caratterizzati, da un lato, per il contenimento della spesa, con l’elevazione dei requisiti di età e di contribuzione per l’accesso alle prestazioni e con il riproporzionamento delle rendite rispetto alla contribuzione effettivamente versata nel corso dell’intera vita lavorativa, dall’altro per l’inasprimento del prelievo contributivo.
Profili questi che avremo modo di analizzare analiticamente nel corso del volume, per la cui trattazione si rinvia.
2. Distinzione tra previdenza sociale ed assistenza sociale.
La legislazione sociale, a sua volta, si suddivide in previdenza sociale ed assistenza sociale. Orbene, l’orientamento dottrinale preminente ha definito la previdenza sociale come “quella parte dell’ordinamento giuridico avente come fine la tutela del lavoratore (e dei familiari a suo carico) dai rischi della menomazione o della perdita della sua capacità lavorativa in conseguenza di eventi predeterminati (naturali o connessi al lavoro prestato)”. L’assistenza sociale, invece, mira a garantire a tutti i cittadini inabili al lavoro e/o a coloro che risultano sprovvisti di mezzo di sostentamento un livello minimo di prestazioni che possa liberarli dallo stato di bisogno. Queste forme di assistenza sono varie: si pensi, ad esempio, all’assistenza sanitaria, alla concessione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, alle agevolazioni previste per il portatore di handicap, alle esenzioni o riduzioni fiscali per l’accesso al sistema scolastico.
Nello specifico, giova evidenziare, per ragioni di chiarezza espositiva, ciò che distingue previdenza ed assistenza.
In primo luogo, in ossequio al dettato costituzionale fornito dall’art. 38, co. 1, l’assistenza è tesa a fornire protezione a coloro che sono affetti da inabilità al lavoro, intesa come incapacità psico-fisica e culturale al lavoro, e da mancanza dei mezzi di sostentamento, in ragione del basso livello reddituale oltre una certa soglia predeterminata per legge.
La previdenza, invece, è finalizzata a proteggere una categoria di persone più ristretta, ovvero i lavoratori che, al verificarsi di determinati eventi, che riducono o elimino del tutto la loro capacità lavorativa, necessitano di adeguati mezzi di sostentamento. Tali eventi, che ledono le capacità del lavoratore, sono elencate dall’art. 38, co. 2, della Costituzione (infortunio, malattia, vecchiaia etc.). Tuttavia, giurisprudenza e dottrina rilevanti hanno ritenuto che tale elencazione non debba considerarsi tassativa. Esempio di quanto affermato è l’estensione della tutela previdenziale anche all’evento morte del lavoratore, il quale non è contemplato dall’art. 38 Cost.
In secondo luogo, mentre l’assistenza sociale rientra nella competenza legislativa oltre che dello Stato, con rifermento all’individuazione dei principi fondamentali, anche delle Regioni (si vedano, a tal proposito, l’art. 117 Cost., il D. Lgs. 112/1998 e L. n. 328 del 2000), la regolamentazione della previdenza sociale rimane di competenza esclusiva dello Stato (come sarà meglio specificato al Capitolo 2).
Inoltre, al contrario di quelle assistenziali, le prestazioni previdenziali sono parametrate alla retribuzione.
Infine, mentre il finanziamento dell’assistenza sociale ricade su tutta la collettività attraverso il sistema del prelievo fiscale, quello della previdenza ricade in capo ai lavoratori e datori di lavoro mediante il pagamento dei contributi.
Come già accennato in precedenza, per entrambe le discipline è consentito l’intervento dei privati. In materia di assistenza, giova segnalare ulteriormente come il Costituente abbia ribadito che l’assistenza privata è libera, giacché le opere dei privati sono ritenute assolutamente indispensabili per eliminare le situazioni di drastica indigenza che colpisce la nostra società.
In definitiva, è pacifico asserire che la previdenza e l’assistenza, pur essendo “due rette parallele non destinate ad incontrarsi” (MAZZONI), hanno l’obiettivo comune di impedire che l’individuo versi in stato di bisogno.
Posto ciò, è evidente la sussistenza delle differenziazioni sopra elencate in ragione delle poche risorse pubbliche e in risposta alla necessità di livellare il grado di tutele tra quelli che hanno contribuito e contribuiscono con il proprio lavoro al benessere collettivo e i soggetti in genere.
3. Evoluzione storica della legislazione sociale: dai primi interventi normativi alla Costituzione.
La legislazione sociale – come già detto nel Cap. 1 – è strettamente connessa alla rivoluzione industriale. Invero, tra la fine del XVIII e il XIX sec., moltissime persone abbandonarono le tradizionali attività storiche rurali per trasferirsi in città, in virtù dei maggiori guadagni che prospettava l’industria. Tuttavia, si determinarono nuove forme di emarginazione e di povertà, atteso che l’attività lavorativa che si svolgeva all’interno della fabbrica si realizzava senza fornire alcun tipo di tutela verso i lavoratori, nel più totale sfruttamento ad opera della parte datoriale, soprattutto nei confronti di donne e bambini sempre più stridenti; il lavoro nelle fabbriche, organizzato all’insegna dello sfruttamento indiscriminato.
In un primo momento, lo Stato liberale (1800) non intervenne, ritenendo che tali problematiche sarebbero venute meno attraverso le iniziative benefiche e spontanee che sarebbero dovute provenire dai privati. Infatti, a causa della passività dello Stato, il quale riservava la propria condotta benefica alla soddisfazione delle esigenze basilari dei più bisognosi, i lavoratori si organizzarono in società di Mutuo soccorso, le quali prestavano aiuto a coloro che si trovavano in un impellente stato di bisogno, purché appartenenti alla medesima categoria professionale ed incapaci di lavorare temporaneamente (malattia o infortunio) o permanentemente (vecchia e invalidità). Si realizza così un sistema di “autoprotezione” (CINELLI).
Tali società altro non furono che le prime forme primordiali di centri di aggregazione sindacale. Pertanto, lo Stato, ben presto, assunse un atteggiamento ostile, che lo spinse ad abbandonare il proprio status di neutralità. Introdusse diversi istituti che per la prima volta regolavano, con finalità protettive, diversi aspetti dell’attività lavorativa (dalla durata della giornata lavorativa all’impiego di donne e fanciulli, sino all’obbligo di prevenzione degli infortuni), apprestando, altresì, le prime forme di assicurazione sociale. A questo periodo, di conseguenza, si fa risalire la nascita della legislazione sociale, che, come più volte ribadito, coincide con le origini del diritto del lavoro.
Nel nostro Paese, il primo importante atto legislativo in campo previdenziale è la L. 17/3/1898, n. 80, istitutiva dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro degli operai dell’industria. Tale legge introduceva il concetto di responsabilità oggettiva del datore di lavoro limitata alla “riparazione del danno”. Nello stesso anno, venne promulgata la L. 17/7/1898, n. 350, che istituì la Cassa nazionale per l’assicurazione contro la vecchiaia e l’invalidità degli operai, regolamentata sulla base di un sistema volontario di contribuzione con partecipazione anche dello Stato.
Inoltre, per esigenze di completezza, vanno ricordate le leggi a tutela delle categorie più deboli o che intervengono nelle situazioni lavorative più gravose, come ad esempio la L. 489/1907, relativa al riposo settimanale e festivo, ed ancora le leggi nn. 3657/1986, 242/1902 e 818/1907, a tutela delle donne e dei fanciulli. Tali interventi legislativi ebbero il lapalissiano intento di proteggere le cd. “mezze forze”, assumendo, sempre più, una propria sfera di autonomia rispetto al complesso di norme che disciplinavano privatisticamente il rapporto di lavoro.
Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, venne introdotta, in un primo momento, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni in agricoltura e, successivamente, l’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia per i lavoratori addetti agli stabilimenti ausiliari. Tali sistemi protettivi facevano ricadere i conseguenti oneri previdenziali in capo ai lavoratori e ai datori di lavoro in virtù della cd. “teoria del rischio professionale”, per il quale i datori di lavoro, conseguendo utilità e vantaggi dall’attività lavorativa altrui, dovevano assumersi il rischio di risarcire il lavoratore subordinato per gli eventuali danni che lo stesso pativa in ragione del rapporto lavorativo. Il modello che venne creato in questa prima fase della legislazione sociale era comunque rispondente al modello assicurativo, e le varie forme obbligatorie di assicurazione sociale conservavano un carattere strettamente privatistico. Tuttavia proprio l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro assumeva, per la prima volta, una significativa dimensione sociale in quanto il lavoratore infortunato poteva essere indennizzato del danno patito non solo in caso di evento imputabile ad omissioni o inadempimenti del datore di lavoro, ma anche quando l’infortunio fosse addebitabile al caso fortuito o a negligenza, imperizia o imprudenza dello stesso lavoratore (PERSIANI).
Notevoli innovazioni e cambiamenti furono introdotti durante il periodo fascista. Invero, la nascita del sistema corporativo determinò, per la prima volta in assoluto nel panorama nazionale, l’estensione del rapporto assicurativo a rischi che non erano strettamente collegati all’attività lavorativa, quali l’invalidità, le malattie, la morte, realizzando un sistema previdenziale più ampio (PERSIANI). Emblematica fu la Carta del lavoro (1927), che aveva l’intento di coordinare e di unificare il sistema e gli istituti di previdenza. Ebbero, ad esempio, un notevole sviluppo in questo periodo le Casse di previdenza per singole categorie e quelle per l’assistenza in caso di malattia, operanti spesso addirittura a livello aziendale; vennero, poi, istituite l’assicurazione contro la tubercolosi e quella contro le malattie professionali, mentre alcuni istituti già esistenti (assicurazione invalidità e vecchiaia) furono sottoposti ad una completa revisione. Ulteriori innovazioni legislative apportate nel ventennio fascista furono: l’istituzione degli assegni familiari (1934) e dell’assicurazione malattia (1943), con gestione di un unico ente (INAM) per i lavoratori dell’industria, del commercio e dell’agricoltura.
Le funzioni di tutela assistenziali e previdenziali furono affidate alle stesse categorie interessate. Incombenza principale dello Stato fu quella di coordinare ed unificare tutta la disciplina in nome dell’interesse pubblico alla tutela assistenziale ed previdenziale. In tale periodo storico, di conseguenza, si realizzò una tutela o solidarietà corporativa che estese le summenzionate tutele anche a rischi non connessi con lo svolgimento dell’attività lavorativa (come la vecchiaia). Ciononostante, rimaneva a carico delle categorie interessate il finanziamento dell’assicurazione contro gli eventi di cui sopra.
L’avvento, nel 1948, della nostra Costituzione, ha fornito una copertura costituzionale e solenne alla legislazione sociale. Orbene, il nostro sistema costituzionale prevede, da un lato, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale, il quale trova la propria espressione normativa all’articolo 2, e, dall’altro, il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale di chi sia inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari, disciplinato dall’art. 38. Quest’ultima norma consente che gli interventi di sostegno nei confronti delle categorie interessate vengano compiute, in un rapporto di integrazione reciproca, sia dallo Stato sia dai privati.
Inoltre, non per minore importanza, giova rammentare le norme di apertura della Costituzione che affermano solennemente il valore del lavoro (artt.1, 4).
Tali norme altro non sono che espressione di uno Stato sociale che interviene per conferire protezione e tutela in modo che tutti, indigenti e non, possano esercitare liberamente i diritti che vengono conferiti dal nostro ordinamento giuridico liberi da qualsiasi vincolo (art. 3).
Nei successivi artt. 35-47 della Costituzione (Parte I, Titolo III, «Rapporti economici»), sono definiti i principi basilari che disciplinano l’assetto economico della società, prestando tutela al lavoratore e realizzando la finalità dello Stato di emancipare le classi storicamente sottomesse alle classi più abbienti. Segnatamente: l’art. 35 prevede la tutela del lavoro, la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori; l’art. 36, disposizione programmatica giacché rinvia alla legge ordinaria per le sua concreta attuazione, individua i criteri di determinazione della retribuzione, la durata massima della giornata lavorativa, stabilendo, altresì, l’inderogabilità del riposo settimanale e delle ferie annuali; in virtù dell’art. 37, alla donna lavoratrice sono garantiti gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano all’uomo. Il principio della «parità» è poi riproposto, anche per il lavoro dei minori (L. 17-10-1967, n. 977). La massima espressione del principio solidaristico è contenuto all’articolo 38, il quale, come già riportato sopra al capitolo 1, stabilisce: — il diritto di «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere» al mantenimento e all’assistenza sociale (co. 1). In particolare, gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale (co. 3); — il diritto dei lavoratori a «che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria» (co. 2); — la realizzazione di tali compiti mediante «organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato» (co. 4), fermo restando che «l’assistenza privata è libera» (co. 5). Tale disposizione costituisce il fulcro principale attorno al quale ruota l’azione della nostra Repubblica.
Infine, le ultime norme della Carta costituzionale che riguardano l’ambito sociale sono gli artt. 39-42, concernenti l’attività sindacale ed in particolare: il principio della libertà dell’organizzazione sindacale (art. 39, co. 1); il principio della capacità, dei sindacati registrati, di stipulare contratti collettivi di lavoro, vincolanti per tutti i lavoratori appartenenti alle categorie che essi rappresentano, anche se non iscritti (art. 39, co. 3); il riconoscimento del diritto di sciopero nell’ambito delle leggi che lo regolano (art. 40); — gli artt. 41 e 42, che, nel riconoscere piena libertà all’iniziativa economica privata e legittimazione alla proprietà privata, ne stabiliscono però i limiti dell’utilità sociale e della dignità e sicurezza umana.
4. Recenti interventi legislativi.
Fondamentale fu la riforma che nel nostro Paese, in ossequio al dettato di cui all’articolo 32 della Costituzione, fu data dalla Legge n. 833 del 1978, diede vita al Servizio Sanitario Nazionale. Invero, divenne scopo principale della nostra Repubblica quello di garantire ed erogare prestazioni minime indispensabili per la tutela della salute dell’individuo, ancorché nel rispetto della dignità e della libertà umana.
Espressamente, l’art. 1, co. 3, del D. Lgs. n. 502/1992 prevede che il Servizio Sanitario Nazionale eroghi a tutti i cittadini prestazione sanitarie comprese nei livelli minimi di assistenza sanitaria (LEA), gratuitamente o in partecipazione, grazie alle risorse reperite mediante il sistema fiscale.
Successivamente, il legislatore diede vita ad una serie di importanti interventi volti a circoscrivere a casi di effettivo bisogno le prestazioni di natura assistenziale, ed a rendere, invece, più efficiente il regime pensionistico.
Con riguardo all’ambito assistenziale, la L. n. 328 del 2000 ha attuato una riforma dell’intera materia, dando vita ad un sistema integrato di interventi e servizi sociali, mediante il quale lo stato e gli enti locali eliminano situazioni di povertà, migliorano la qualità della vita e garantiscono la piena attuazione del celeberrimo principio di non discriminazione e di pari opportunità.
Sul piano previdenziale, con il D. Lgs. n. 503 del 1992, (la c.d. “Riforma Amato”) fu riordinato il sistema previdenziale, con le seguenti determinazioni: l’innalzamento dell’età pensionabile (da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini); l’innalzamento dell’anzianità contributiva necessaria per l’acquisizione del diritto alla pensione (da 15 a 20 anni di contributi).
Fondamentale rilevanza, inoltre, bisogna attribuire alla legge n. 335 dell’8.8.1995 (Riforma Dini), la quale diede vita ad una sostanziale e radicale riforma della previdenza complementare e obbligatoria. Orbene, tale intervento legislativo introdusse, dal 1° gennaio 1996, il metodo contributivo, il quale altro non è che un sistema di calcolo della pensione determinato esclusivamente in funzione dei contributi versati nell’arco della vita lavorativa. A differenza del precedente metodo retributivo che, invece, eroga la prestazione sulla base delle ultime retribuzioni percepite, nel contributivo il lavoratore accumula, su una sorta di conto corrente virtuale, una percentuale della retribuzione annua pensionabile percepita. Inoltre, furono introdotte delle forme pensionistiche complementari con la L. n. 124 del 21/4/1993.
Inoltre, il requisito anagrafico diventa flessibile in quanto l’età di pensionamento varia in base all’anzianità contributiva posseduta e le pensioni di anzianità permangono fino alla completa soppressione e sostituzione con quella di vecchiaia contributiva.
Ed ancora, altri interventi normativi delinearono l’ambito previdenziale sancendone un radicale mutamento: la L. n. 243 del 2004 (cd. “riforma Maroni”) ha ridefinito i requisiti di accesso ai trattamenti di vecchiaia e di anzianità ed ha incentivato il finanziamento dei fondi pensione mediante devoluzione del trattamento di fine rapporto (TFR) (D.Lgs. n. 252 del 2005) ed ha innalzato, inoltre, l’età ordinaria per la pensione, poiché viene portata dai 57 anni (L. 335/1995) a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini; la legge n. 247 del 2007, in attuazione del cd. “Protocollo Welfare”, fissò nuovi requisiti di accesso per la prestazioni di vecchiaia e pensioni; il D.L. 112/2008, conv. con L. 133/2008, introdusse l’eliminazione del divieto di cumulo reddito-pensione; le manovre economiche del 2011 (D.L. 98/2011 conv. in L. 15.7.2011, n. 11 e il D.L. 138/2011 conv. in L. 14.9.2011 n. 148) e la legge di stabilità 2012 (L. n. 183 del 2011), le quali irrigidirono i requisiti di accesso alla pensione, con lo scopo di contenere la spesa pubblica; la riforma del sistema pensionistico attuata con il cd. “Salva Italia” ( D.L. 201/2011 conv. In L. 214/2011), adottato nell’ambito di una serie di misure urgenti per assicurare la stabilità finanziaria la crescita e l’equità. Quest’ultima riforma determinò elevati sacrifici sociali, poiché recò nocumento ai soggetti prossimi alla pensione con il mutamento dei requisiti di accesso alle prestazione pensionistiche, nonché alla future generazioni, in quanto dovranno lavorare di più per garantirsi delle prestazioni comunque basse.
5. Riforma degli ammortizzatori sociali e attuale quadro normativo.
Rilevanti furono, altresì, gli interventi nell’ambito degli ammortizzatori sociali, strumenti volti a prestare aiuto al lavoratore che perde o subisce una riduzione della propria attività lavorativa. A tal proposito, giova rammentare la cd. “Legge Fornero” (L. n. 92/2012), la quale rispose alla istanze europee di tutela il lavoratore in sede di mercato del lavoro, consentendo alle imprese una maggiore flessibilità circa le strategie occupazionali interne. In ossequio a tale linea guida, venne attuata una riforma radicale ed organica delle forme di sostegno del lavoratore, dando luogo, da un lato, ad un nuovo ed unico strumento contro il rischio della disoccupazione, l’ASPI (assicurazione sociale per l’impiego), e dall’altro procedendo alla revisione degli strumenti a sostegno del reddito sia in costanza di rapporto (le integrazioni salariali), sia legati alla disoccupazione (l’indennità di mobilità).
Tuttavia, tale riforma non risolse la grave crisi occupazionale del nostro Paese. Pertanto, con l’obiettivo di aumentare sensibilmente l’occupazione, soprattutto quella giovanile, in ottemperanza alle richieste europee, il Governo Renzi varò il cd. “Jobs Act” (L. n. 183 del 2014), mediante il quale vennero conferite una serie di deleghe al Governo per l’emanazione di decreti legislativi in materia di diritto del lavoro e previdenziale. Segnatamente, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali, sono stati introdotti dei rilevanti cambiamenti riguardanti gli interventi in caso di disoccupazione (D. Lgs. 4.3.2015, n. 22) e gli interventi in costanza di rapporto di lavoro (D. Lgs. n. 148 del 2015). Con il primo intervento venne introdotta la NASPI (nuova assicurazione sociale per l’impiego), la quale dal 1° maggio 2015, sostituisce l’indennità di disoccupazione denominata Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASPI) ed è una prestazione a domanda, erogata a favore dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l’occupazione, per gli eventi di disoccupazione che si verificano dal 1° maggio 2015. Con riferimento al secondo intervento, vengono delineati gli strumenti di sostegno in costanza di rapporto (quando il rapporto di lavoro è sospeso) introducendo rilevanti cambiamenti in materia di integrazioni salariali, contratti di solidarietà e fondi di solidarietà settoriali.
6. Considerazioni conclusive.
Tutti gli interventi prospettati delineano una chiara propensione dello Stato, nel corso dell’evoluzione storica, ad affidarsi ai privati per innalzare il livello di protezione sociale. Prospettiva che lascia intendere la crisi, data dalle difficoltà finanziarie, dei sistemi pubblici di welfare, che lasciano preconizzare, per il futuro, modalità più intense di collaborazione fra soggetti pubblici e privati. Tale tendenza è giustificata anche dalla grave crisi economica che ha determinato un impoverimento delle risorse statali. Inoltre, in ottemperanza alle richieste proveniente dall’Unione Europea, il modello di welfare italiano è sempre più in linea con il concetto di flessibilità di matrice europea. Nello specifico, mediante un’ attenuazione delle tutele del nostro ordinamento nella regolazione e disciplina dei rapporti di lavoro, si intende rafforzare il sistema delle protezioni sul mercato del lavoro in modo da favorire l’aumento dell’occupazione. Dunque, nuova esigenza statale è quella di selezionare, con criteri sempre più stridenti, i beneficiari delle prestazioni assistenziali e previdenziali, tenendo debitamente conto delle proprie possibilità di spesa.
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