Il referendum chiesto dal Centro-destra per rendere totalmente maggioritario il sistema elettorale è inammissibile, poiché avrebbe avuto ad oggetto lo stravolgimento della legge delega che era stata approvata in materia di riduzione del numero dei parlamentari: in sostanza l’effetto del referendum era di attribuire una nuova delega al governo al fine di rendere applicabile l’eventuale legge elettorale maggiorataria
Con la sentenza n. 10 del 31 gennaio 2020, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum che aveva ad oggetto l’“Abolizione del metodo proporzionale nell’attribuzione dei seggi in collegi
plurinominali nel sistema elettorale della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”, presentata dai Consigli regionali di Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Liguria.
L’obiettivo perseguito dai Consigli regionali promotori era quello di estendere alla totalità dei seggi del Parlamento il criterio maggioratario, che attualmente è previsto per i tre ottavi dei posti.
La Corte ha ricordato che il referendum, nell’ordinamento costituzionale italiano, ha una finalità meramente
abrogativa: ciò vuol dire che, in ogni caso, dal referendum non può risultare un testo radicalmente diverso, estraneo e di portata normativa più ampia rispetto a quello originario.
In particolare il referendum richiesto, per rendere possibile la rideterminazione dei collegi elettorali a seguito dell’abrogazione della legge elettorale, aveva ad oggetto anche l’abrogazione parziale della legge delega n. 51/2019.
L’intenzione dei promotori era quello di mutare, in modo contrario ai principi costituzionali, il senso e la portata della legge delega di cui sopra, che era stata approvata al diverso scopo di dare attuazione legislativa alla riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari.
Lo stravolgimento della delega originaria (oggetto, tempo, principi e criteri direttivi) avrebbe in sostanza dato vita ad una nuova delega, potenzialmente destinata a un duplice esercizio (l’attuazione della riforma costituzionale sulla riduzione dei parlamentari e l’attuazione della legge elettorale risultante dal referendum).
Inoltre, secondo la Corte, la nuova delega avrebbe portata eccessivamente ampia e quindi incompatibile con la Costituzione.
Si sarebbe realizzata, per questo verso, un’eccessiva, e perciò inammissibile, manipolazione del testo originario della norma di delega, e da ciò l’inammissibilità del referendum.
Nel nostro sistema costituzionale, il referendum ha natura abrogativa, ed è incompatibile con quesiti che introducono nuovi principi: un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento».
Il tipo di controllo che la Consulta realizza sulla proposta di referendum e i limiti della libertà dei promotori nella formulazione del quesito referendario
In sede di verifica dell’ammissibilità di un referendum, la Consulta è chiamata a giudicare sull’ammissibilità di quest’ultimo alla luce dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost. e del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.» (sentenza n. 16 del 1978).
Di qui la necessità, non solo che la richiesta referendaria non investa una delle leggi indicate nell’art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma anche che il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale consenta una scelta libera e consapevole, richiedendosi pertanto i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità del medesimo quesito, oltre che l’esistenza di una sua matrice razionalmente unitaria.
La natura abrogativa del referendum come limite ai quesiti manipolativi
E’ stato anche detto che il referendum abrogativo non può essere «trasformato in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978).
In generale, pertanto, anche se la Corte ha ammesso in alcuni casi le operazioni di ritaglio di frammenti normativi e di singole parole, occorre sempre che l’abrogazione parziale chiesta con il quesito referendario non si risolva sostanzialmente «in una proposta all’elettore, attraverso l’operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione» (sentenza n. 36 del 1997). In questi casi, infatti, il referendum, perdendo la propria natura abrogativa, tradirebbe la ragione ispiratrice dell’istituto, diventando approvativo di nuovi principi e «surrettiziamente propositivo»: un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997).
I limiti dei referendum in materia di legge elettorale
Con riferimento precipuo alle leggi elettorali, va premesso che la Consulta in questo contesto ha affermato che sono sottratte all’abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, quali in particolare le leggi elettorali di organi costituzionali o di rango costituzionale, la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell’assetto costituzionale dei poteri dello Stato.
Allo stesso modo, anche l’eventuale abrogazione parziale di leggi costituzionalmente necessarie, e in primis delle leggi elettorali, deve comunque garantire l’«indefettibilità della dotazione di norme elettorali» (sentenza n. 29 del 1987), dovendosi evitare che l’organo delle cui regole elettorali si discute possa essere esposto «alla eventualità, anche solo teorica, di paralisi di funzionamento» (sentenza n. 47 del 1991).
Pertanto, prosegue la Corte, è condizione di ammissibilità del quesito che all’esito dell’eventuale abrogazione referendaria risulti «una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell’eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell’organo» (sentenza n. 32 del 1993; nello stesso senso, sentenze n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995), dovendosi intendere in particolare la cosiddetta auto-applicatività della normativa di risulta alla stregua di «una disciplina in grado di far svolgere correttamente una consultazione elettorale in tutte le sue fasi, dalla presentazione delle candidature all’assegnazione dei seggi» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008).
Il caso del referendum sulla legge elettorale maggioritaria
Secondo la Consulta l’intervento richiesto sull’art. 3 della legge n. 51 del 2019, oggetto del referendum proposto, è solo apparentemente abrogativo e si traduce con tutta evidenza in una manipolazione della disposizione di delega diretta a dare vita a una “nuova” norma di delega, diversa, nei suoi tratti caratterizzanti, da quella originaria.
Quanto alla radicale alterazione della delega originaria, sia sufficiente osservare che tutti i “caratteri somatici” della legge di delegazione – individuati dall’art. 76 Cost. come condizioni per la delega dell’esercizio della funzione legislativa da parte del Parlamento – si presenterebbero completamente modificati nella delega di risulta.
Questa avrebbe, tra l’altro, già sulla base della rubrica dell’art. 3 che lo individua, un oggetto diverso (non più «Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali», ma «Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali»).
Ma soprattutto i principi e criteri direttivi della delega originaria sarebbero calati nel contesto di un sistema elettorale radicalmente diverso da quello per il quale essi erano stati predisposti (quest’ultimo, introdotto con la legge n. 165 del 2017, a forte prevalenza proporzionale; quello risultante all’esito del referendum, esclusivamente maggioritario).
Sicché, conclude la Corte, modificandosi il contesto del sistema elettorale in cui la nuova delega opererebbe, i principi e criteri direttivi finirebbero per essere solo formalmente gli stessi e per acquistare invece, alla luce del nuovo e diverso meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, portata a sua volta inevitabilmente nuova e diversa.
Radicalmente diverso sarebbe, ancora, il dies a quo del termine per l’esercizio della delega. Infine, il quesito referendario mira a sopprimere la condizione sospensiva della delega di cui all’art. 3 della legge n. 51 del 2019, eliminando per questo verso il suo legame “genetico” con la riforma costituzionale del numero dei parlamentari e finendo con il produrre in questo modo una delega “stabile” e, in quanto non più condizionata a una particolare evenienza, sicuramente operativa. Vi sarebbe, in tal modo, un inammissibile effetto ampliativo della delega originaria che, conferita dal Parlamento sub condicione, diventerebbe incondizionata con il risultato di una manipolazione incompatibile, già solo per questo, con i limiti e le connotazioni peculiari della delega legislativa.
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Di seguito si riporta un estratto della sentenza della Corte Costituzionale 10/2020
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5.− Così delineati il contesto normativo di riferimento e l’insieme delle disposizioni oggetto del quesito referendario, questa Corte è chiamata a giudicare sull’ammissibilità di quest’ultimo alla luce dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost. e del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.» (sentenza n. 16 del 1978).
Di qui la necessità, non solo che la richiesta referendaria non investa una delle leggi indicate nell’art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma anche che il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale consenta una scelta libera e consapevole, richiedendosi pertanto i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità del medesimo quesito, oltre che l’esistenza di una sua matrice razionalmente unitaria. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare che «libertà dei promotori delle richieste di referendum e libertà degli elettori chiamati a valutare le richieste stesse non vanno confuse fra loro: in quanto è ben vero che la presentazione delle richieste rappresenta l’avvio necessario del procedimento destinato a concludersi con la consultazione popolare; ma non è meno vero che la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e che il popolo stesso dev’esser garantito, in questa sede, nell’esercizio del suo potere sovrano» (sentenza n. 16 del 1978). Ne consegue l’ulteriore affermazione che il referendum abrogativo non può essere «trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978).
In generale, questa Corte ha ammesso anche le operazioni di ritaglio di frammenti normativi e di singole parole, a condizione però che l’abrogazione parziale chiesta con il quesito referendario non si risolva sostanzialmente «in una proposta all’elettore, attraverso l’operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione» (sentenza n. 36 del 1997). In questi casi, infatti, il referendum, perdendo la propria natura abrogativa, tradirebbe la ragione ispiratrice dell’istituto, diventando approvativo di nuovi principi e «surrettiziamente propositivo» (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 28 del 2011, n. 33 e n. 23 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997).
Agli indicati requisiti questa Corte ne ha aggiunto altri in ragione della specificità dell’oggetto della richiesta referendaria, sempre nella prospettiva della piena realizzazione dei richiamati «valori di ordine costituzionale». E in questo contesto ha affermato che sono sottratte all’abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, quali in particolare le leggi elettorali di organi costituzionali o di rango costituzionale, la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell’assetto costituzionale dei poteri dello Stato.
Allo stesso modo, anche l’eventuale abrogazione parziale di leggi costituzionalmente necessarie, e in primis delle leggi elettorali, deve comunque garantire l’«indefettibilità della dotazione di norme elettorali» (sentenza n. 29 del 1987), dovendosi evitare che l’organo delle cui regole elettorali si discute possa essere esposto «alla eventualità, anche solo teorica, di paralisi di funzionamento» (sentenza n. 47 del 1991). Sicché è condizione di ammissibilità del quesito che all’esito dell’eventuale abrogazione referendaria risulti «una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell’eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell’organo» (sentenza n. 32 del 1993; nello stesso senso, sentenze n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995), dovendosi intendere in particolare la cosiddetta auto-applicatività della normativa di risulta alla stregua di «una disciplina in grado di far svolgere correttamente una consultazione elettorale in tutte le sue fasi, dalla presentazione delle candidature all’assegnazione dei seggi» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008). La medesima esigenza si è posta anche nel caso di parziale illegittimità costituzionale delle leggi elettorali della Camera e del Senato (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014).
è appena il caso di aggiungere che non spetta invece a questa Corte, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, «favorire un potenziamento del ruolo dell’elettore nella scelta degli eletti» al fine di «consentire che il [Parlamento] rifiorisca», come chiedono i promotori del referendum, giacché in tale giudizio essa è chiamata solamente a verificare il rispetto delle condizioni e dei limiti costituzionali all’esercizio del referendum.
6.− Nel caso in esame, il quesito referendario sottoposto al giudizio di questa Corte è sicuramente univoco nell’obiettivo che intende perseguire e risulta dotato di una matrice razionalmente unitaria. è evidente, infatti, che l’obiettivo dei Consigli regionali promotori è di estendere alla totalità dei seggi di Camera e Senato il sistema elettorale attualmente previsto per l’assegnazione dei tre ottavi di essi. Ciò emerge a chiare lettere dall’esame dei frammenti normativi che il quesito chiede di rimuovere nel d.P.R. n. 361 del 1957 e nel d.lgs. n. 533 del 1993. Si può osservare fin d’ora, inoltre, che alla stessa matrice unitaria non è estraneo l’intervento proposto sulla norma di delega del 2019 e, in quanto oggetto di rinvio da parte di quest’ultima, su quella del 2017, giacché l’inclusione nel quesito anche di queste normative si pone come strumentale, nelle intenzioni dei promotori, al raggiungimento del medesimo risultato, come si vedrà meglio infra.
Con specifico riguardo alla parte del quesito che investe i due testi normativi elettorali, ossia il d.P.R. n. 361 del 1957 e il d.lgs. n. 533 del 1993, si deve osservare che la proposta referendaria presenta alcune incongruenze legate per un verso al permanere, nel tessuto normativo dei due testi, di numerosi richiami alla «lista» e alle «liste», per altro verso alla richiesta abrogazione delle Tabelle allegate a entrambi i decreti, recanti i modelli di scheda elettorale. Si tratta nondimeno di inconvenienti superabili mediante l’impiego degli ordinari criteri d’interpretazione, o comunque risolvibili «anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi» (in questi termini, per un analogo intervento sulla scheda elettorale, sentenza n. 1 del 2014). In presenza di inconvenienti di questo tipo in quesiti referendari riguardanti leggi elettorali, questa Corte ha ritenuto infatti di poterli considerare irrilevanti a condizione che non incidessero sull’operatività del sistema elettorale e non paralizzassero la funzionalità dell’organo (sentenza n. 32 del 1993). Ciò che non avviene nel caso in esame, nel quale le incongruenze derivanti dai sopravvissuti riferimenti normativi possono essere agevolmente superate attraverso gli ordinari strumenti di interpretazione, e all’assenza della previsione legislativa del modello di scheda può essere posto rimedio in modo pressoché automatico disponendo – anche con un atto di normazione secondaria – il mero mantenimento dei nomi dei candidati nei collegi uninominali e dei gruppi politici che li sostengono.
7.− Quanto alla normativa di risulta, i Consigli regionali promotori, consapevoli della richiamata giurisprudenza di questa Corte, si fanno carico dell’esigenza di assicurarne l’immediata applicabilità attraverso un duplice percorso. Per un verso, chiedono l’eliminazione di qualsiasi riferimento ai collegi plurinominali, in modo da consentire l’«espansione» a tutti i seggi del sistema elettorale, attualmente previsto solo per quelli assegnati nei collegi uninominali, dando vita in questo modo a un sistema elettorale in sé compiuto e astrattamente funzionante. Per altro verso, implicando il sistema elettorale così risultante la necessità di rideterminare i collegi elettorali, chiedono la parziale abrogazione della norma di delega recata dall’art. 3 della legge n. 51 del 2019 onde consentire la necessaria ridefinizione dei nuovi collegi uninominali.
L’operazione abrogativa richiesta, che non manca, come visto, di intrinseca coerenza, si presenta però inammissibile per l’assorbente ragione del carattere eccessivamente manipolativo dell’intervento sulla norma di delega.
7.1.− Al riguardo, occorre premettere che questa Corte, già in altre occasioni, ha avuto modo di affrontare la questione della necessità di una nuova determinazione dei collegi elettorali a seguito dell’eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 5 del 1995, n. 26 del 1997 e n. 13 del 1999) o della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una parte della normativa elettorale (sentenza n. 1 del 2014).
In particolare, nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 5 del 1995, ha rilevato che «[a] seguito della espansione del sistema maggioritario per l’attribuzione del totale dei seggi […], occorrerebbe procedere ad una nuova determinazione dei collegi uninominali in ciascuna circoscrizione, ridisegnandoli in modo da ottenerne un numero, sul territorio nazionale, pari al totale dei deputati da eleggere e non più al solo settantacinque per cento del totale medesimo».
Con la medesima pronuncia, preso atto del fatto che l’opera di revisione dei collegi «è pur sempre destinata a concludersi, dopo un complesso procedimento, con l’approvazione di una legge, ovvero con un decreto legislativo emanato dal Governo sulla base di una nuova legge di delegazione, così come avvenuto nel 1993», questa Corte ha ritenuto «decisivo rilevare che di fronte all’inerzia del legislatore, pur sempre possibile, l’ordinamento non offre comunque alcun efficace rimedio», con il rischio che si determini «la crisi del sistema di democrazia rappresentativa, senza che sia possibile ovviarvi». Di conseguenza, ha dichiarato inammissibile la richiesta referendaria.
Parimenti, nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 26 del 1997, la necessità di «procedere a una nuova definizione dei collegi uninominali in ciascuna circoscrizione, ridisegnandola in modo da ottenere un numero, sul territorio nazionale, pari al totale dei deputati da eleggere e non più […] al 75 per cento», ha indotto questa Corte a rilevare che «il sistema elettorale non consentirebbe la rinnovazione dell’organo», non potendo «dirsi sufficiente, allo stato, l’attività istruttoria svolta dalla speciale commissione tecnica, di cui all’art. 7 della legge n. 276 del 1993, dal momento che occorrerebbe pur sempre un intervento del legislatore, volto a conferire una nuova delega o imperniato su una diversa scansione procedurale, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e con la garanzia dei pareri delle Camere». Da cui, anche in quel caso, l’inammissibilità del relativo quesito referendario.
A esiti opposti, ma sempre utilizzando lo stesso schema argomentativo, questa Corte è giunta nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 13 del 1999, là dove ha riscontrato «una piena garanzia di immediata applicabilità del sistema di risulta, in quanto i collegi elettorali uninominali rimarrebbero immutati, senza nessuna necessità di ridefinizione in ciascuna circoscrizione, sia nel numero sia nel conseguente ambito territoriale».
Infine, nel giudizio di legittimità costituzionale definito con la sentenza n. 1 del 2014, questa Corte ha incidentalmente affermato che «la normativa che rimane in vigore stabilisce un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che consente l’attribuzione di tutti i seggi, in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate, sia per la Camera che per il Senato».
7.2.− Nell’odierno giudizio di ammissibilità il problema della determinazione dei collegi elettorali si presenta in termini parzialmente diversi dai giudizi di cui si è dato conto nel paragrafo precedente, per l’inclusione nel quesito referendario di una previsione di delega per la revisione dei collegi elettorali. Anche in questo caso, tuttavia, non si può non osservare che l’ineludibile necessità che siano ridisegnati i collegi elettorali e che sia quindi adottato un decreto legislativo a ciò diretto, ulteriore rispetto all’esito del referendum, finirebbe ugualmente per vanificare le prospettive di ammissibilità dell’iniziativa referendaria.
Pur consapevole dei limiti che il requisito della immediata applicabilità pone all’ammissibilità di referendum su leggi elettorali, questa Corte non ritiene tuttavia praticabile il percorso demolitorio-ricostruttivo individuato dai promotori per superare l’ostacolo della non auto-applicatività. Infatti, i Consigli regionali promotori, al fine di evitare che la richiesta referendaria avente ad oggetto i testi delle leggi elettorali di Camera e Senato potesse incorrere nei medesimi profili di inammissibilità per difetto del carattere di auto-applicatività della normativa di risulta, già rilevati in casi simili dalla giurisprudenza costituzionale, individuano la soluzione nella richiesta di parziale abrogazione anche della norma di delega recata dall’art. 3 della legge n. 51 del 2019, con l’obiettivo di renderne possibile l’esercizio anche a seguito dell’eventuale esito positivo del referendum abrogativo.
In altre parole, cogliendo l’occasione dell’esistenza di una delega resa dal Parlamento al Governo al fine di consentire l’applicabilità della riforma costituzionale in itinere che modifica il numero dei parlamentari – e impone per questo, pur a sistema elettorale invariato, una modifica dei collegi elettorali, uninominali e plurinominali, esistenti – i Consigli regionali promotori propongono un intervento su di essa diretto a conferirle il contenuto di delega a rideterminare i collegi uninominali in attuazione del nuovo sistema elettorale in ipotesi prodotto dal referendum.
L’intervento sulla disposizione di delega si realizza essenzialmente con: a) la parziale modifica del suo oggetto, che viene circoscritto, sia nella rubrica sia nel comma 1 del citato art. 3, alla «determinazione dei collegi uninominali» e non più di quelli plurinominali; b) l’eliminazione della condizione sospensiva della delega, che ne consentirebbe l’esercizio anche in caso di mancata promulgazione di una legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari entro ventiquattro mesi dalla entrata in vigore della legge n. 51 del 2019; c) l’abrogazione del dies a quo del termine di sessanta giorni per l’esercizio della delega; d) l’eliminazione dei riferimenti ai collegi plurinominali nei principi e criteri direttivi della delega (sia nella legge n. 51 del 2019, sia nella legge n. 165 del 2017).
è evidente, quindi, che l’obiettivo che i promotori si prefiggono di raggiungere presuppone una modifica della disposizione di delega che ne investe l’oggetto, la decorrenza del termine per il suo esercizio, i principi e criteri direttivi e la stessa condizione di operatività.
L’intervento richiesto sull’art. 3 della legge n. 51 del 2019 è dunque solo apparentemente abrogativo e si traduce con tutta evidenza in una manipolazione della disposizione di delega diretta a dare vita a una “nuova” norma di delega, diversa, nei suoi tratti caratterizzanti, da quella originaria.
Quanto alla radicale alterazione della delega originaria, sia sufficiente osservare che tutti i “caratteri somatici” della legge di delegazione – individuati dall’art. 76 Cost. come condizioni per la delega dell’esercizio della funzione legislativa da parte del Parlamento – si presenterebbero completamente modificati nella delega di risulta.
Questa avrebbe, tra l’altro, già sulla base della rubrica dell’art. 3 che lo individua, un oggetto diverso (non più «Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali», ma «Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali»).
I principi e criteri direttivi della delega originaria permarrebbero, sia pure sfrondati dei riferimenti ai collegi plurinominali, con la conseguenza, però, di rendere ancora più manifesta la manipolazione referendaria. Si finirebbe, infatti, con il prevedere gli stessi principi e criteri direttivi per la determinazione dei collegi elettorali nel contesto di un sistema elettorale radicalmente diverso da quello per il quale essi erano stati predisposti (quest’ultimo, introdotto con la legge n. 165 del 2017, a forte prevalenza proporzionale; quello risultante all’esito del referendum, esclusivamente maggioritario). Sicché, in altre parole, modificandosi il contesto del sistema elettorale in cui la nuova delega opererebbe, i principi e criteri direttivi finirebbero per essere solo formalmente gli stessi e per acquistare invece, alla luce del nuovo e diverso meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, portata a sua volta inevitabilmente nuova e diversa.
Radicalmente diverso sarebbe, ancora, il dies a quo del termine per l’esercizio della delega, attualmente previsto nel momento di entrata in vigore della legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari, ma oggetto di abrogazione totale da parte del quesito referendario. In questo caso, quand’anche si ritenesse che la sua abrogazione in esito al referendum consenta di rinvenire, in via interpretativa, un nuovo dies a quo nel momento in cui si produrrà l’effetto abrogativo del referendum stesso, si tratterebbe comunque, all’evidenza, di un termine del tutto nuovo.
Infine, il quesito referendario mira a sopprimere la condizione sospensiva della delega di cui all’art. 3 della legge n. 51 del 2019, eliminando per questo verso il suo legame “genetico” con la riforma costituzionale del numero dei parlamentari e finendo con il produrre in questo modo una delega “stabile” e, in quanto non più condizionata a una particolare evenienza, sicuramente operativa. Vi sarebbe, in tal modo, un inammissibile effetto ampliativo della delega originaria che, conferita dal Parlamento sub condicione, diventerebbe incondizionata con il risultato di una manipolazione incompatibile, già solo per questo, con i limiti e le connotazioni peculiari della delega legislativa.
A ulteriore conferma dell’inammissibile grado di manipolazione che connota il quesito referendario sul punto vi è, poi, la considerazione che la delega, ancorché parzialmente abrogata, dovrebbe rimanere utilizzabile – come affermato dalla difesa degli stessi promotori – anche a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, alla quale era destinata a dare attuazione, ed essere così oggetto di un duplice e contestuale esercizio, dopo lo svolgimento del referendum costituzionale e di quello abrogativo qui all’esame. Al che si aggiunge la possibilità che i due referendum si svolgano in tempi diversi, come potrebbe avvenire, ad esempio, nel caso in cui il referendum abrogativo dovesse essere rinviato per intervenuto scioglimento anticipato delle Camere in applicazione di quanto previsto all’art. 34, secondo comma, della legge n. 352 del 1970. Nel qual caso la delega stessa risulterebbe esaurita, e non più utilizzabile, all’atto dello svolgimento del referendum abrogativo.
L’unicità del quesito referendario e la sua stessa matrice razionalmente unitaria impediscono a questa Corte di scindere la valutazione di ammissibilità della parte del quesito relativa alla norma di delega da quella relativa alle altre parti, con la conseguenza che sul quesito stesso deve essere formulato un giudizio unitario.
7.3.− Per le ragioni anzidette deve ritenersi dunque che l’eccessiva manipolatività del quesito referendario, nella parte in cui investe la delega di cui all’art. 3 della legge n. 51 del 2019, è incompatibile con la natura abrogativa dell’istituto del referendum previsto all’art. 75 Cost., ciò che ne determina l’inammissibilità.