A partire dal 30 novembre 2015 e fino all’11 dicembre 2015 si è tenuta a Parigi la ventunesima conferenza annuale, nota come COP21, dell’organo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change)[1]. Tale Convenzione è un trattato ambientale internazionale adottato durante la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, entrata in vigore il 21 marzo 1994 e ratificata da 196 Paesi.
La COP21 (la prima conferenza annuale dell’organo della citata Convenzione risale al 1995) ha avuto, da un lato, il precipuo obiettivo di tutte le COP tenutesi fino ad allora, cioè quello di discutere anno per anno le nuove strategie da adottare per contrastare il riscaldamento globale e per combattere i cambiamenti climatici, e, dall’altro lato, l’importante finalità di raggiungere un accordo mondiale, che mettesse d’accordo tutti i Paesi della comunità internazionale.
Ed ecco che l’Accordo di Parigi[2] è stato raggiunto il 12 dicembre 2015, prevedendosi che esso sarebbe entrato in vigore una volta intervenuta la ratifica da parte di almeno 55 Paesi che rappresentassero il 55% stimato delle emissioni globali.
La strategia climatica contenuta al suo interno si riferisce al periodo successivo al 2020.
Tale accordo, che è il primo trattato universale e giuridicamente vincolante in materia di cambiamenti climatici, altro non è che un piano d’azione comune, teso a limitare il riscaldamento globale, puntando a raggiungere la neutralità climatica entro la fine del secolo.
L’Unione Europea ha ufficialmente ratificato l’Accordo di Parigi il 5 ottobre 2016, che a sua volta è entrato in vigore il 4 novembre 2016[4].
Le tre parole chiave che delimitano perfettamente il quadro all’interno del quale gli Stati dovranno operare sono, a nostro modesto avviso: sostegno, mitigazione e trasparenza.
I Paesi maggiormente sviluppati si impegnano ad assumere un ruolo guida nei confronti di quelli in via di sviluppo, anche attraverso un supporto finanziario che li renda di volta in volta meno vulnerabili e sempre più efficienti in punto di lotta ai cambiamenti climatici. Fra le altre cose, grazie all’Accordo di Parigi, è stata ammessa la possibilità di ricevere contributi volontari di altre Parti, che vogliano rafforzare il processo di coesione.
La mitigazione di cui si è appena detto punta ad una riduzione delle emissioni globalmente intese. E infatti i vari Governi hanno accettato di impegnarsi a mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto dei 2°C (obiettivo di lungo termine) e a limitare sempre di più l’aumento a 1,5°C, perché così facendo si otterrebbero risultati notevoli in termini di riduzione dell’impatto climatico.
A questo proposito i Paesi, com’era previsto che facessero entro il 2020, hanno presentato i piani d’azione noti come NDC (nationally determined contributions), piani nazionali che includono strategie mirate per la riduzione di emissioni di gas e anidride carbonica in generale, per favorire l’abbassamento del surriscaldamento globale.
Gli Stati sono poi invitati a redigere i cosiddetti LT-LEDS (long-term low greenhouse gas emission development strategies), piani di sviluppo non obbligatori, ma utili a chiarire il quadro entro cui intendono muoversi per ridurre nel complesso le emissioni di gas a effetto serra.
Ed infine, gli Stati hanno concordato di riunirsi ogni cinque anni per verificare i progressi fatti da ognuno e, ove necessario, apportare modifiche ai piani nazionali di coloro che siano ancora un passo indietro: il tutto proprio al fine di rendere i rapporti quanto più trasparenti possibili.
A questo proposito, è previsto un apposito quadro per la trasparenza (ETF), che impegna gli Stati a riferire in modo limpido le azioni intraprese. Tutte le informazioni contenute in questo quadro confluiranno in una sorta di inventario, globale e comune a tutti, che darà atto dei progressi complessivi. Sulla scorta di quanto venga verificato ex post, agli Stati saranno indirizzate delle raccomandazioni ad hoc per suggerire azioni diverse a fronte di risultati poco soddisfacenti, ovvero azioni più ambiziose per via dei progressi registrati.
L’Accordo di Parigi è parte integrante della politica green dell’Unione Europea: quest’ultima si sta impegnando, sia perché fortemente convinta che occorra agire tempestivamente per fronteggiare la situazione climatica ormai troppo critica, sia perché vincolata giuridicamente da tale Accordo, a predisporre dei Programmi comunitari per il Nuovo Settennato 2021-2027 che tengano ampiamente in considerazione gli impegni presi con l’Accordo di Parigi.
Per tali motivi, i Programmi comunitari prediligeranno in larga parte le soluzioni a zero emissioni di carbonio in settori predominanti, quali l’energia, il trasporto, la gestione dei rifiuti. Più nel dettaglio, il Green Deal europeo è “figlio” dell’Accordo di Parigi e al contempo garante di quanto accettato in occasione della COP21.
[1]Si consulti, per maggiori informazioni, il sito: https://unfccc.int/process-and-meetings/the-convention/what-is-the-united-nations-framework-convention-on-climate-change.
[2] Per maggiori informazioni: https://unfccc.int/process-and-meetings/the-paris-agreement/the-paris-agreement.
[4] Si consulti il sito: https://ec.europa.eu/clima/policies/international/negotiations/paris_it.