Con la sentenza n. 7658 del 19 settembre 2024 il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità del diniego di accesso alla relazione di una psicologa che era stata chiamata a intervenire in una scuola dopo episodi di bullismo.
L’istanza è stata proposta dalla madre della studentessa vittima, è stata rigettata dalla scuola prima per tutelare la riservatezza degli studenti coinvolti poi per l’opposizione della psicologa a tutela del segreto professionale.
La sentenza è molto interessante perché afferma che il segreto professionale non è posto tanto a tutela degli assistiti dalla professionista quanto a tutela della liberà di scienza.
La giurisprudenza amministrativa si è occupata del rapporto tra diritto di accesso e segreto professionale soprattutto con riferimento ai pareri legali resi dagli avvocati delle amministrazioni nell’ambito di contenziosi o per prevenirli.
Ha sempre fatto rientrare il limite dell’accesso a tali atti nell’ambito del divieto, sancito dall’art. 24, comma 1, lettera a), l. n. 241/1990 con riferimento ad atti coperti da segreto.
Il motivo della segretezza dei pareri è intuitivo: “elementari considerazioni di salvaguardia della strategia processuale della parte, che non è tenuta a rivelare ad alcun soggetto e, tanto meno, al proprio contraddittore, attuale o potenziale, gli argomenti in base ai quali intende confutare le pretese avversarie” (così Cons. St., sez. VI, n. 7237).
Se tale è il fondamento della tutela del segreto, il divieto sarebbe rimovibile con il consenso della parte nell’interesse della quale è formulato il parere o altro atto professionale.
Nel caso trattato dal Consiglio di Stato il segreto professionale è stato opposto con riferimento alla riunione tenuta dalla psicologa con un gruppo di studenti della classe nella quale si erano verificati gli episodi di bullismo.
Il Consiglio di Stato ha escluso che il divieto sarebbe stato rimovibile con il consenso del singolo componente del gruppo e nemmeno il consenso di tutti i componenti del gruppo oggetto dell’intervento.
Secondo il Consiglio, infatti, la psicologa “interviene terapeuticamente, non solo con riferimento ad un singolo assistito, ma anche, di norma, ed anzi sempre più frequentemente, soprattutto in caso di terapie somministrate ad adolescenti, nei confronti di un gruppo ristretto di individui”. Ora – aggiunge – “Questa seconda tipologia di intervento serve a risolvere o a prevenire conflitti che si siano generati, o possano generarsi, all’interno della relativa comunità”.
Dalla premessa discende la conclusione che il consenso del gruppo destinatario dell’intervento non rileva “dal momento che l’oggetto della relazione terapeutica è il rapporto di quest’ultimo con l’intera comunità di riferimento, il che, in certo senso, rafforza – e dunque produce un effetto esattamente inverso – la necessità di assicurare riserbo e discrezione sugli incontri e sugli esiti degli stessi”.
Questa conclusione, secondo me, si muove ancora nell’ambito del rapporto tra professionista e persona (o persone) destinatarie della sua opera professionale.
Il segreto professionale, cioè, risulta ancora fondato a tutela degli interessi di individui, con la peculiarità che si tratta di appartenenti a una comunità, quindi gli interessi sono vasti ma ancora per così dire personalizzati.
La sentenza fa, però, un passo avanti: “Né è condivisibile quanto affermato dalla doglianza in esame, secondo la quale il segreto professionale è posto solo a tutela degli assistiti.
Al contrario, ritiene il Collegio che detto segreto sia previsto anche a tutela della libertà di scienza, che, nell’esercizio dell’attività professionale, deve essere garantita ai prestatori d’opera intellettuale nel nostro ordinamento, ai sensi di quanto previsto dall’art. 2239 del c.c. e, soprattutto, dal comma 1 dell’art.33 della Costituzione”.
Il segreto smette di essere un mezzo di tutela dei destinatari dell’opera professionale, per essere funzionale alla più ampia libertà di azione del professionista, la quale a propria volta risponde a interessi superiori dell’intero ordinamento in senso democratico.
Ci si trova nell’ambito della tutela di interessi che perfino superano la dimensione soggettiva per trascendere in quella dell’intera società, come viene verificato con riferimento alla libertà di stampa che legittima il giornalista a non rivelare le proprie fonti neanche durante un procedimento penale.
Invero “l’ordinamento assicura la garanzia del segreto professionale non quale privilegio personale, ma quale ineludibile presidio posto a tutela della libera ed incondizionata attività di informazione” (Cass. pen., VI, 15/4/2014, n. 31735).
Generalizzando tale considerazione si dovrebbe giungere alla conclusione che in qualsiasi ipotesi in cui l’attività professionale costituisca l’attuazione di un principio costituzionale di rilevanza generale, potrebbe essere opposto dal professionista il segreto a prescindere dal consenso dell’assistito.
Per esempio anche il diritto di difesa, sancito dall’art. 24 Cost., ha una portata che trascende la vicenda del singolo imputato o della singola parte, perché è posto a presidio più in generale delle libertà democratiche.
L’avvocato, allora, potrebbe sempre opporlo anche avendo il consenso dell’assistito.
L’art. 13 del codice deontologico afferma che: “L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali”.
La disposizione collega il segreto all’interesse del cliente quindi questi potrebbe disporne nel senso di autorizzare l’avvocato a diffondere le notizie ma appunto ciò non sarebbe sufficiente, ove l’avvocato ritenesse di invocare la tutela della sua libertà professionale appunto in funzione del principio costituzionale di difesa.
La tematica del diritto di accesso si conferma un crocevia di interessi divergenti ma parimenti rilevanti, che poi spetta al giudice di bilanciare delicatamente nel caso concreto.