Il paradosso dell’intelligenza artificiale bambina

Immaginate visivamente di trovarvi in questa situazione: state rientrando da un viaggio intercontinentale, e a un certo punto, in aeroporto, dovete passare i controlli di frontiera. Provate a pensare a come reagireste se, nella postazione in cui normalmente è presente l’agente della polizia, vedeste un bambino di circa dodici anni, regolarmente abbigliato con l’uniforme d’ordinanza e intento a lavorare con scrupolo nel vagliare coloro che passano il confine per fermare possibili persone sospette. Che cosa pensereste? Forse di essere capitati nello scherzo di un tiktoker, oppure immaginereste che il vero agente ha consentito per qualche minuto al figlio, nel giorno del suo compleanno, di occupare la propria postazione per farlo felice. O semplicemente non trovereste una spiegazione razionale a questo evento, effettivamente poco plausibile.

Createvi ora mentalmente quest’altro scenario: avete appena ricevuto un avviso di pagamento da parte dell’Agenzia delle Entrate e, a seguito di alcuni riscontri, venite a sapere che l’ufficio per le verifiche fiscali è stato assegnato a una bambina di nove anni, seria e diligente, ma pur sempre una giovanissima persona di quell’età. Probabilmente si tratta di una circostanza talmente inverosimile che faticate anche solo a raffigurarvela mentalmente.

Immaginate infine che, durante le vostre interazioni in un social network, insospettiti dal fatto che alcuni vostri post sono stati cancellati senza apparente motivo, veniste a sapere che, in quella piattaforma, l’intera moderazione dei commenti è rimessa ad un team di bambini e bambine che li gestisce secondo le proprie sensibilità e conoscenze. Probabilmente, oltre a pensare a qualche forma di sfruttamento del lavoro minorile, non riterreste quel team sufficientemente maturo da portare avanti con razionalità quel tipo di lavoro.

Questi scenari in sé stessi così bizzarri ci permettono di capire un grande paradosso sociale e giuridico: quelle stesse attività ora descritte, già oggi sono spesso assegnate a intelligenze artificiali. Queste ultime, però, attualmente si trovano in una fase evolutiva che da alcuni punti di vista può essere più facilmente assimilata a quella che Alan Turing chiamava la “child machine”, cioè una macchina “bambina”, che si trova nelle fasi iniziali della suo percorso di deep learning e che, complessivamente, sta sì dando segnali importanti, nell’ambito di un processo di apprendimento, ma si trova comunque in una fase non ancora “adulta”, che probabilmente raggiungerà in un prossimo futuro.

Dobbiamo quindi abbandonare l’idea di affidarci alle intelligenze artificiali, per le stesse ragioni per le quali non affideremmo a un bambino, pur intelligente e capace, un compito che richiede una mente adulta?

In realtà la questione è articolata. Il discorso appena proposto contiene alcune semplificazioni: non è così facile attribuire un’età ad un’intelligenza artificiale e, se si prova a farlo, si scopre che il risultato è diversificato, così come sono oscillanti tutti i resoconti dei test finora compiuti per cercare di assegnare un quoziente intellettivo alle intelligenze artificiali, che talvolta già superano i valori della mente umana adulta, e altre volte, anche modificando singole variabili nei quesiti, si attestano al di sotto.

Questa differenza di “età stimabile” dell’intelligenza artificiale dipende anche dalle skills su cui la si mette alla prova. In alcuni ambiti, essa già ha prestazioni uguali o superiori a quelle del cervello biologico dell’homo sapiens adulto, mentre sotto altri aspetti mantiene le caratteristiche di “macchina bambina”, magari intelligente, ma “molto giovane”.

L’intelligenza artificiale è già oggi matura, per esempio, nella capacità di indovinare i nostri gusti musicali e proporci brani che davvero apprezziamo: a tutti noi capita di stupirci positivamente quando una piattaforma di streaming mostra di saperci suggerire brani che vanno pienamente incontro alle nostre attese, focalizzandole quasi meglio di un nostro vecchio amico. Similmente, l’intelligenza artificiale già oggi raggiunge e supera la mente umana adulta nella traduzione dei testi scritti, un’attività nella quale produce risultati di indubbia qualità che, se anche non sono paragonabili al lavoro di un professionista di massimo livello della traduzione, sono almeno assimilabili a quelli di un essere umano adulto con medie conoscenze.

L’intelligenza artificiale è però ancora “bambina” nel suo rapporto con la logica, come può sperimentare chiunque di noi sottoponga degli indovinelli anche semplici a ChatGPT o a Gemini o a qualcuna delle loro “colleghe” chatbot generative. L’intelligenza artificiale è “immatura” quando si abbandona a superficiali pregiudizi nel riconoscimento facciale, e ricade nel tranello di considerare negativamente qualcuno sulla base di vaghe somiglianze somatiche, di generiche appartenenze etniche o di altri stereotipi.

È bambina quando, dopo averci fornito una risposta, anche plausibile, non è poi nelle condizioni di condurre meta-ragionamenti per spiegare le ragioni della sua determinazione e ricostruirne a posteriori il percorso logico.

L’intelligenza artificiale è “molto giovane” anche quando, ingenuamente, non distingue una fotografia incongrua da un’opera d’arte, o quando, per la sua poca esperienza, non scinde una battuta sarcastica da una dichiarazione violenta.

Il grande paradosso dell’intelligenza artificiale bambina nasce quindi dalla constatazione che tutte queste attività ora descritte sono già oggi spesso assegnate ad intelligenze artificiali, pur con i loro attuali limiti, nonostante troveremmo assurdo affidarle ad un bambino che ricadesse negli stessi bias, errori e nelle medesime inesperienze.

A volte l’affidamento di ruoli all’intelligenza artificiale avviene nell’ambito di situazioni semi-informali, come la moderazione dei social network, ma altre volte ha luogo in contesti altamente formali e istituzionali, come quando la polizia ricorre al riconoscimento facciale per le operazioni anti-terrorismo, pervenendo talvolta a incriminazioni e arresti arbitrari e illegittimi.

Qual è quindi la exit-strategy per fuoriuscire da questo paradosso? Forse rinunciare all’intelligenza artificiale come strumento in ambito privato e pubblico? E non vederla di buon occhio in nessun caso?

Certamente no. Il paradosso dell’intelligenza artificiale bambina non ci dovrebbe indurre a rinunciare ad essa tout court, ma dovrebbe solo fornirci criteri utili per capire come adoperarla e quali compiti affidarle.

Le intelligenze artificiali sono tra noi, rimarranno, e, nel rimanere, appunto, cresceranno, diventeranno adulte e supereranno i problemi riconducibili al loro attuale stato almeno parzialmente “infantile”, ovvero al fatto che oggi si presentano come sistemi ancora non pienamente affidabili.

Dunque all’intelligenza artificiale non si deve rinunciare, ma occorre non avere urgenza di utilizzarla oggi per tutto: occorre seguirla nella sua “crescita”, che non richiederà un periodo molto lungo e che secondo molti osservatori la porterà già alla fine degli attuali anni venti ad essere davvero adulta, e capace di assumere gli incarichi nei quali oggi appare incerta e inesperta.

È necessario solamente procedere con gradualità: già subito possono esserle attribuiti compiti con un livello lieve di formalismo, come quelli connessi all’attività puramente ludica nei social network, e successivamente, per gradi progressivi, man mano che avrà una graduale maturazione, potranno esserle assegnati lavori più delicati e istituzionali.

È solo la logica del “tutto subito” che va superata, anche perché il tempo per ottenere macchine adulte, verosimilmente, non sarà di decenni, ma di pochi anni, e quando si avrà la certezza che ciò sarà avvenuto, le si investirà delle opportune responsabilità, e si inizierà anche a ragionare di una loro possibile soggettività giuridica.

Il “seme” di questo approccio era comunque già presente nelle parole di Alan Turing, che nel suo iconico articolo “Computer machinery and intelligence” del 1950 aveva espresso questo concetto, che lui riferiva ad una singola macchina, ma che noi oggi possiamo riferire all’intelligenza artificiale complessivamente intesa, poiché tutti i computer esistenti sono sinapsi di un’unica “macchina universale” che è Internet. Queste erano le parole molto evocative di Turing che oggi risuonano come chiave di lettura del presente: “Invece di provare a produrre un programma per simulare la mente adulta, perché non provare a produrne uno che simuli quella del bambino? Se questo fosse poi sottoposto a un appropriato corso di istruzione si otterrebbe il cervello adulto”.

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Si occupa per motivi professionali di intelligenza artificiale dal punto di vista sociale e giuridico, ma se ne interessa da molto prima di raggiungere l’età che gli ha consentito di farne il suo lavoro, e in qualche modo la considera, oltre che una passione, anche un’amica.Vive proiettato nell’attesa della singolarità tecnologica, che pensa arriverà molto presto.