A seguito del decreto della sezione del Tribunale ordinario di Roma specializzata in immigrazione del 18 ottobre 2024 che ha negato la convalida del trasferimento di alcuni migranti dal territorio italiano al centro di detenzione amministrativa albanese si è posto al centro del dibattito pubblico il tema della qualificazione dei paesi extraeuropei come paesi sicuri.
Prima di addentrarci nel cuore della vicenda giudiziaria (ma anche politica) che ha visto protagonisti i giudici domestici e la Corte di Giustizia europea, cerchiamo di delinearne i contorni giuridici.
La Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiati del 1954 ha stabilito che “il termine “rifugiato” si applicherà a ogni persona che, (…) nel timore fondato di essere perseguitata per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto Stato”.
I soggetti che versano in queste condizioni possono richiedere di beneficiare della c.d. “protezione internazionale”, da cui discendono il diritto al mantenimento dell’unità familiare, l’ottenimento di un permesso di soggiorno, l’accesso all’occupazione, all’istruzione e all’assistenza socio-sanitaria alla stregua di un cittadino italiano.
Il d.lgs. 251/2007, recante norme sull’attribuzione dello status di rifugiato, prevede che il richiedente motivi adeguatamente la domanda di accesso alla protezione internazionale e indichi le ragioni a supporto della domanda stessa, la quale verrà poi analizzata da una Commissione territoriale.
Tanto l’ordinamento sovranazionale (direttiva 2013/32, considerando 20) quanto quello italiano (d.lgs. 25/2008, artt. 28 bis e 28 ter) prevedono un procedimento accelerato per l’esame di richieste di protezione internazionale quando, genericamente, esse siano manifestamente infondate o vi siano preminenti ragioni di tutela della sicurezza pubblica.
Una delle ipotesi di accesso alla predetta procedura è la provenienza del richiedente da un Paese terzo considerato sicuro.
Potremmo dire che il cuore della vicenda sorta a seguito del decreto del Tribunale di Roma risiede tutta nei presupposti per qualificare uno Stato come sicuro “sicuro” e nel ruolo che hanno i giudici nel valutare la sicurezza dello stato di provenienza di un soggetto che ha richiesto di essere riconosciuto come rifugiato.
In questo senso, è opportuno citare la recente pronuncia della Grande Sezione della Corte di Giustizia europea datata 4 ottobre 2024 (C-406/22), con cui i giudici europei hanno risposto a un rinvio pregiudiziale della Corte regionale di Brno, Repubblica Cieca.
Per quanto qui di interesse, ci si concentrerà solo su due dei tre quesiti posti dalla Corte regionale, ossia quello riguardante la possibilità di qualificare un paese “sicuro” se in alcune parti del suo territorio non è possibile escludere l’esistenza di condotte persecutorie o discriminatorie e quello con cui si chiede di chiarire l’estensione dei poteri dei giudici nell’ambito del ricorso presentato avverso un diniego di protezione internazionale.
In quell’occasione la CGUE ha stabilito che:
- “l’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro allorché talune parti del suo territorio non soddisfano le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva.”;
- “l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, deve essere interpretato nel senso che, quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paese di origine sicuro, conformemente all’articolo 37 di tale direttiva, tale giudice, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto articolo 46, paragrafo 3, deve rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso, una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso.”
In aderenza al dictum della Corte di Giustizia, dunque, il Tribunale di Roma ha ritenuto di non poter convalidare il trasferimento da parte dell’Italia di un gruppo di migranti presso l’apposita struttura creata in territorio albanese.
In particolare, il Tribunale ha rilevato che il paese di origine del ricorrente (Egitto) era considerato sicuro ma con eccezione per alcune categorie quali: dissidenti, oppositori politici, attivisti, tutte categorie suscettibili di essere vittime di pesanti discriminazioni.
La mancata convalida del trasferimento ha ingenerato un dibattito in cui si è parlato di incursione del potere giudiziario nell’ambito dell’attività squisitamente politica; eppure, la decisione poc’anzi analizzata non fa altro che ottemperare alle indicazioni di matrice euro unitaria.
Dal canto suo, il Governo italiano è intervenuto con il decreto legge n. 158/2024 (decreto Paesi sicuri) che sostituisce in toto i precedenti decreti ministeriali del MAECI con cui veniva individuato l’elenco dei “paesi sicuri”.
Il passaggio a un atto avente forza di legge non è una scelta trascurabile, perché ad essa soggiace la volontà del governo di “vincolare” le decisioni dei giudici alla propria valutazione politica circa la sicurezza dei paesi di origine dei migranti.
Se è vero che un giudice può disapplicare un provvedimento che ritenga per qualsiasi motivo illegittimo, lo stesso non potrà fare dinanzi a una disposizione di legge.
All’indomani dell’entrata in vigore del d.l. 158/2024, è stato sollevato un rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale di Bologna (sezione specializzata in immigrazione), adito nell’ambito di un reclamo avverso un provvedimento di diniego della protezione internazionale a seguito di una procedura accelerata ex artt. 28 bis e 28 ter d.lgs. 25/2008.
Il giudice bolognese si è interrogato circa la compatibilità con il diritto europeo del d.l. 158/2024 Paesi Sicuri, laddove inserisce tra i paesi sicuri il Bangladesh (paese d’origine del reclamante), sebbene al suo interno molte minoranze siano soggette a pesanti discriminazioni.
Il giudice rimettente ha ritenuto che le conclusioni cui era addivenuta la CGUE con sentenza del 4 ottobre “… In special modo valgono in identica misura sia per le esclusioni personali che per quelle territoriali ”.ì
Pertanto, il primo quesito riguarda la possibilità di considerare sicuro un paese in cui alcuni gruppi sociali siano soggetti a persecuzione o discriminazione in ragione del proprio orientamento sessuale, politico o religioso così come accade in Bangladesh.
Il secondo quesito, invece, chiama il giudice europeo a chiarire «se il principio del primato del diritto europeo ai sensi della consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea imponga di assumere che, in caso di contrasto fra le disposizioni della direttiva 2013/32/UE in materia di presupposti dell’atto di designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro e le disposizioni nazionali, sussista sempre l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare queste ultime, in particolare se tale dovere per il giudice di disapplicare l’atto di designazione permanga anche nel caso in cui detta designazione venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria».