La sentenza del T.A.R. Lazio n. 466/2000

T.A.R. Lazio – Roma, Sezione I

Sentenza n. 466 del 28 gennaio 2000

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1) Alcuni passi della sentenza

E’ del tutto logico che gli esercenti delle professioni intellettuali siano considerati imprese ai fini specifici della tutela della libera concorrenza in quanto la loro attività consiste nella offerta sul mercato di prestazioni suscettibili di valutazione economica e di acquisto delle stesse dietro corrispettivo.

L’obiezione che i Consigli nazionali degli ordini professionali non potrebbero farsi rientrare nella nozione di associazioni di imprese, in ragione della natura pubblicistica delle funzioni ad essi affidate dalla legge (tutela del decoro e dell’indipendenza della professione, poteri di vigilanza, poteri disciplinari), risulta inidonea ad escludere la competenza dell’Autorità a valutarne i comportamenti lesivi della libera concorrenza eventualmente posti in essere dai Consigli medesimi.

Assume significato decisivo la circostanza che gli ordini professionali sono comunque Enti pubblici associativi, espressione degli esercenti una determinata professione, nei cui confronti l’Ente svolge poteri autoritativi sia di vigilanza che di tutela delle ragioni economiche, cosicchè non può escludersi che attraverso le deliberazioni dei Consigli possano realizzarsi forme di coordinamento delle condotte dei singoli professionisti suscettibili di assumere valenza anticoncorrenziale nel mercato considerato.

Risulta dunque determinante che l’Ente, in ragione della posizione che riveste nei confronti degli iscritti, sia

nella condizione di orientarne i comportamenti per quanto attiene agli aspetti economici dell’attività professionale, anche eventualmente con effetti nocivi per la libera concorrenza (cfr., della stessa Sezione, la sentenza n. 476 del 1996)

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2) La sentenza

T.A.R. Lazio – Roma, Sezione I

Sentenza n. 466 del 28 gennaio 2000

Intervenuta tra le seguenti parti:

Consiglio nazionale dottori commercialisti C.N.D.C. (avv.ti Guarino, Irti, Alpa, Sanino e Merola) e Consiglio nazionale ragionieri e periti commercialisti C.N.R.P.C. (avv.ti Libertini e Pace) c. Autorità garante concorrenza e mercato (avv. St. Sclafani), con intervento ad opponendum di Codacons.

(…)

DIRITTO

I cinque ricorsi presentano evidenti elementi di connessione soggettiva ed oggettiva. Può pertanto disporsene la

riunione ai fini di un’unica decisione.

La controversia verte sul provvedimento con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (in seguito, Autorità) ha deliberato che:

a) l’elaborazione e la definizione dal parte del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti (in seguito, C.N.D.C.)

di un tariffario relativo alle prestazioni professionali degli iscritti al relativo albo costituisce infrazione all’art. 2 comma 2 lett. a) della legge n. 287 del 1990;

b) l’elaborazione e la definizione dal parte del Consiglio nazionale dei ragionieri e periti commerciali (in seguito, C.N.R.P.C.) di un tariffario relativo alle prestazioni professionali degli iscritti al relativo albo costituisce infrazione all’art. 2 comma 2 lett. a) della legge n. 287 del 1990;

c) la raccomandazione del C.N.R.P.C. di applicare le tariffe dallo stesso deliberate nelle more dell’approvazione ministeriale costituisce infrazione all’art. 2 comma 2 lett. a) della legge n. 287 del 1990;

d) il coordinamento concorrenziale posto in essere dai due Consigli nazionali volto all’uniformazione delle tariffe costituisce infrazione all’art. 2 comma 2 lett. a) della legge n. 287 del 1990. La deliberazione reca inoltre la diffida ai due Consigli dal porre in essere in futuro intese analoghe. Specifiche e separate impugnazioni sono state proposte avverso le note con le quali l’Autorità ha chiesto ai due Consigli di fornire informazioni utili all’istruttoria, con particolare riguardo al procedimento amministrativo che aveva condotto alla emanazione dei DD.P.R. 10 ottobre 1995 n. 645 e 6 marzo 1997 n. 100, recanti le nuove tariffe professionali per gli appartenenti all’Ordine, rispettivamente, dei commercialisti e dei ragionieri e periti

commerciali.

Il solo C.N.R.P.C. ha proposto ricorso anche avverso la deliberazione di avvio dell’istruttoria.

Le doglianze, ampiamente articolate ed argomentate, pongono due principali quesiti.

1) Il primo, in ordine logico, impone di stabilire se possa ritenersi legittimo un intervento dell’Autorità, nella sua funzione di garante della concorrenza e del mercato, ai sensi dell’art. 2 della L. 10 ottobre 1990 n. 287, nei confronti dei Consigli nazionali degli ordini professionali, nella specie dei commercialisti e dei ragionieri.

I ricorrenti sostengono la tesi negativa in ragione della natura pubblicistica dell’Ente e delle sue finalità di tutela del decoro e dell’indipendenza della professione, nonchè della asserita impossibilità di essere considerati imprese o associazioni di imprese.

2) Il secondo quesito, che assume rilievo concreto in caso di risposta affermativa al primo, riguarda la illiceità, affermata dal provvedimento impugnato, del complessivo comportamento tenuto dai ricorrenti in occasione dell’adozione delle nuove tariffe professionali, sia accordandosi per l’emanazione di una tariffa unica per le due categorie di professionisti, sia assumendo nel relativo procedimento amministrativo un ruolo attivo che ha avuto per effetto l’adozione della tariffa dagli stessi proposta.

1)

Sul primo problema le tesi dei ricorrenti non possono essere condivise.

Costituisce, infatti, orientamento generalmente condiviso che la nozione di impresa cui occorre fare riferimento per l’applicazione della legge n. 287 del 1990 è quella risultante dal diritto comunitario, riferita a tutti i soggetti che svolgono una attività economica e che, quindi, siano attivi su un determinato mercato (T.A.R. Lazio, I Sez., 27 marzo 1996 n. 476).

Tale orientamento non intende assimilare, ad ogni effetto, alle imprese commerciali altre attività che, come l’esercizio delle professioni intellettuali, siano caratterizzate da profili concettuali diversi, e che per tale ragione sono soggette a discipline privatistiche e pubblicistiche loro proprie.

Si tratta del riconoscimento che il diritto comunitario, a partire dall’art. 85 del Trattato (ora 81) della Comunità Europea, nelle applicazioni effettuate in sede amministrativa dalla Commissione e in sede giurisdizionale dalla Corte di giustizia e dal Tribunale di primo grado, diritto espressamente richiamato per la materia in esame

dall’art. 1 comma 4 della legge n. 287 del 1990, intende garantire il valore giuridico della libera concorrenza in tutti gli ambiti nei quali si realizzi la prestazione di beni o servizi dietro corresponsione di un corrispettivo in regime di libero mercato.

In siffatta prospettiva, di impianto eminentemente funzionale, è del tutto logico che gli esercenti delle professioni intellettuali siano considerati imprese ai fini specifici della tutela della libera concorrenza in quanto la loro attività consiste nella offerta sul mercato di prestazioni suscettibili di valutazione economica e di acquisto delle stesse dietro corrispettivo.

E’ fin troppo nota, in argomento, la vertenza svoltasi in sede comunitaria, sia di Commissione che di Corte di giustizia, che si è conclusa con l’affermazione della assoggettabilità degli spedizionieri doganali alle norme di tutela della concorrenza, perchè se ne debba riferire in termini più dettagliati (v. C.G.C.E. 18 giugno 1998 in causa C.

35/96).

Ciò posto, è anche pacifico che le associazioni di imprese sono direttamente contemplate dalla legge n. 287 del 1990 (art. 2 comma 1) come destinatarie dei divieti di accordi o pratiche restrittive della concorrenza.

L’obiezione che i Consigli nazionali degli ordini professionali non potrebbero farsi rientrare nella nozione di associazioni di imprese, in ragione della natura pubblicistica delle funzioni ad essi affidate dalla legge (tutela del decoro e dell’indipendenza della professione, poteri di vigilanza, poteri disciplinari), risulta inidonea ad escludere la competenza dell’Autorità a valutarne i comportamenti lesivi della libera concorrenza eventualmente posti in essere dai Consigli medesimi.

Il dato rilevante in proposito, infatti, non va individuato nella possibilità di qualificare come attività economiche tutte le funzioni esplicate dai Consigli nazionali, poichè a tale stregua, in presenza di compiti come la vigilanza sulla legalità dell’esercizio della professione, o il potere disciplinare, la tesi dei ricorrenti sarebbe da condividere.

Assume, invece, significato decisivo la circostanza che gli ordini professionali sono comunque Enti pubblici associativi, espressione degli esercenti una determinata professione, nei cui confronti l’Ente svolge poteri autoritativi sia di vigilanza che di tutela delle ragioni economiche, cosicchè non può escludersi che attraverso le deliberazioni dei Consigli possano realizzarsi forme di coordinamento delle condotte dei singoli professionisti suscettibili di assumere valenza anticoncorrenziale nel mercato considerato.

Perchè tale evenienza sia, almeno astrattamente, configurabile – e la circostanza è di per sè sufficiente a radicare il potere di istruttoria dell’Autorità – non è necessario che, come sostengono i ricorrenti, accanto al dato strutturale offerto dalla natura associativa, sia presente un dato funzionale, rappresentato dal fatto che l’Ente abbia quale unico scopo, la tutela degli interessi economici della categoria.

Risulta invece determinante che l’Ente, in ragione della posizione che riveste nei confronti degli iscritti, sia

nella condizione di orientarne i comportamenti per quanto attiene agli aspetti economici dell’attività professionale, anche eventualmente con effetti nocivi per la libera concorrenza.

In tal senso, del resto, la Sezione si è già pronunciata con la sentenza n. 476 del 1996, già citata, che può considerarsi valido precedente nel presente giudizio, anche se gli Enti allora ricorrenti erano sprovvisti di natura pubblicistica.

E’ agevole ribadire infatti, anche al di là dell’espressa previsione di applicabilità della normativa di tutela della concorrenza anche alle imprese pubbliche (art. 8 comma 1 legge n. 287 del 1990), che è la natura, privata o pubblica, di Ente esponenziale di imprese, e quindi la sua capacità di influenza sullo specifico mercato, che non consente di escludere in linea di principio l’ordine professionale dall’area affidata alla cura dell’Autorità garante.

Anche il richiamo all’esenzione di cui all’art. 8 comma 2 appare privo di pregio.

La norma fa evidente riferimento ad attività economiche in senso stretto, quali sono quelle di gestione di servizi di interesse economico generale.

Ma si è già visto come i Consigli nazionali degli ordini professionali possano legittimamente incidere sulla libera concorrenza in forza della loro posizione di Enti esponenziali di imprese, sicchè risulta ininfluente la

valutazione di interesse generale del servizio da essi gestito.

La soluzione nei sensi suindicati del primo, ed in certo senso pregiudiziale, dei problemi suscitati dalla vertenza in esame, conduce – ritenendo il Collegio di prescindere dall’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Autorità a causa della natura endoprocedimentale degli atti impugnati – ad un giudizio di infondatezza delle impugnazioni (ricc. n. 861 e n. 1135 del 1998) proposte avverso le note con le quali l’Autorità ha chiesto al C.N.D.C. ed al C.N.R.P.C. di fornire informazioni sull’istruttoria in corso.

Identiche conclusioni vanno formulate nei confronti del ricorso avverso la deliberazione di avvio dell’istruttoria proposto dal C.N.R.P.C. (ric. n. 3588 del 1998).

2)

Può dunque procedersi all’esame del secondo quesito che, come accennato, ha per oggetto la legittimità della censura mossa nei confronti dei comportamenti del C.N.D.C. e del C.N.R.P.C. in relazione all’adozione delle nuove tariffe professionali (DD.P.R. 10 ottobre 1995 n. 645 e 6 marzo 1997 n. 100, rispettivamente per i commercialisti e per i ragionieri).

L’addebito concerne innanzi tutto la circostanza che i due Consigli non sarebbero intervenuti nel procedimento emettendo un parere su una proposta governativa, come, secondo l’Autorità, vorrebbe la legge, ma avrebbero stabilito loro stessi le tariffe, essendosi il Governo limitato a ratificarle.

In secondo luogo i Consigli ricorrenti si sarebbero accordati per pervenire ad una tariffa unica per le due categorie, tanto nella descrizione delle prestazioni quanto nei compensi, realizzando un coordinamento lesivo della concorrenza.

Tra i complessi motivi in cui si articolano le doglianze dedotte, assume rilievo prioritario, in quanto incidente sull’esistenza stessa del potere esercitato, la censura con la quale si fa rilevare che il provvedimento impugnato non terrebbe conto della circostanza che i suddetti comportamenti ritenuti lesivi della concorrenza hanno concorso, in osservanza delle disposizioni di legge che regolano l’approvazione delle tariffe, all’adozione di

provvedimenti amministrativi formali e tipici di natura regolamentare, imputabili esclusivamente all’autorità di governo.

Da ciò conseguirebbe che, anche ammettendo, secondo l’assunto, che i detti regolamenti siano stati adottati in modo difforme dalla disciplina stabilita dalla legge, in relazione al ruolo esplicato dai ricorrenti, e presentassero un contenuto lesivo della concorrenza, la loro illegittimità o illiceità potrebbe essere fatta valere solo nelle sedi giurisdizionali competenti.

In altri termini l’Autorità, censurando comportamenti non più separabili dal provvedimento che li ha recepiti, avrebbe esorbitato dall’ambito dei suoi poteri, quali debbono desumersi da una interpretazione logico sistematica dell’ordinamento complessivamente considerato, e così come delimitati dall’art. 21 della legge n. 287 del 1990, che, rispetto agli atti normativi e generali che determinino distorsioni della concorrenza, le attribuisce un mero

potere di segnalazione.

Il provvedimento, nell’intento di contrastare il rilievo in esame, adduce il conforto della giurisprudenza della Corte di giustizia della Comunità Europea, citando la nota sentenza 30 gennaio 1985, in causa 123/83, Bnic/Clair, la cui massima recita che "l’adozione di un atto della Pubblica amministrazione, destinato a

rendere obbligatorio l’accordo per tutti gli operatori economici … non può avere l’effetto di sottrarlo all’applicazione dell’art. 85.1 del Trattato". Di qui la conclusione, tratta dall’Autorità, che la

definitiva formalizzazione della tariffa con Decreto Presidenziale non è idonea a sanare il comportamento in oggetto.

Negli scritti difensivi dell’Autorità si allega poi altra e più recente pronuncia della medesima Corte, (1 ottobre 1998, in causa C 38/97, Autotrasporti Librandi/Cuttica), che, invero, i ricorrenti avevano citato a sostegno delle doglianze, in quanto vi si legge che "gli artt. 3 lett. f) e g), 5, 85, 86 e 90 del Trattato non ostano a una normativa di uno Stato membro che preveda che le tariffe dei trasporti di merci su strada siano approvate e rese esecutive ad

opera di pubblici poteri sulla base di proposte di un comitato centrale, composto in maggioranza di rappresentanti degli operatori economici interessati, …. a condizione che le tariffe siano determinate nel rispetto dei criteri di interesse pubblico definiti dalla legge e che i pubblici poteri non rinuncino alle proprie prerogative a favore degli operatori economici privati, ma tengano conto, prima dell’approvazione delle proposte, delle osservazioni di altri organismi pubblici e privati, o addirittura fissino le tariffe d’ufficio".

L’Autorità, invece, valorizza a sostengo della sua tesi quella parte della massima della medesima decisione secondo cui "spetta tuttavia al giudice nazionale controllare, nell’ambito della sua competenza, se, nella pratica, le tariffe siano determinate nel rispetto dei criteri di interesse pubblico definiti dalla legge e se i pubblici poteri non rinuncino alle proprie prerogative a vantaggio di operatori economici privati".

Ritiene il Collegio che un attento esame della suddetta giurisprudenza consenta di coglierne l’autentica portata e il suo valore rilevante per l’esame della censura.

Va chiarito, in primo luogo, che entrambe le pronunce sono state adottate nell’esercizio della competenza attribuita alla C.G.C.E. dall’art. 177 del Trattato C.E., ossia a seguito di domande pregiudiziali sull’interpretazione del Trattato proposte con ordinanze da autorità giurisdizionali nazionali, chiamati a decidere controversie implicanti l’applicazione di provvedimenti amministrativi di approvazione di tariffe.

In entrambi i casi erano stati convenuti in giudizio soggetti che non intendevano praticare o osservare gli importi stabiliti dalle tariffe, allegando il principio di tutela della libera concorrenza.

La Corte di giustizia ha affermato che la approvazione della tariffa con atto del pubblico potere non impedisce al giudice di verificare la legittimità o la liceità della tariffa, e quindi di respingere la domanda della parte che ne pretende l’applicazione ove ravvisi che il procedimento, o il contenuto del provvedimento di approvazione, si ponga in contrasto con la tutela della libera concorrenza.

Si tratta di un principio del tutto condivisibile che scaturisce dal primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, in forza del quale il giudice del singolo Stato membro è tenuto a disapplicare norme nazionali, anche di rango legislativo, che contrastino con la normativa comunitaria.

E’ noto, infatti, che, a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, la Corte costituzionale italiana accoglie il principio fondamentale (ispirato alla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici) secondo cui i due ordinamenti, comunitario e statale, sono "distinti e al tempo stesso coordinati" e le norme del primo vengono, in forza dell’art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione in quest’ultimo, pur rimanendo estranee al sistema delle fonti statali.

L’effetto di tale diretta applicazione – ha puntualizzato la Corte – non è quindi la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie oggetto della sua cognizione, che, pertanto sotto tale aspetto è attratto nel plesso normativo comunitario.

Ciò premesso, è da rilevare che i ricorrenti non sostengono, con il motivo ora in esame e salve le diverse censure, che l’adozione del decreto presidenziale di approvazione abbia sanato gli eventuali vizi che fossero ravvisabili nel procedimento o nel contenuto di esso sotto il profilo della libera concorrenza.

Essi affermano che l’Autorità non aveva il potere di censurare il loro comportamento relativo alla formulazione della proposta di nuova tariffa e l’accordo per pervenire ad una tariffa unitaria per le due categorie coinvolte, in quanto il prodotto della loro attività era ormai confluito nella determinazione autoritativa finale, esclusivamente

imputabile all’autorità pubblica.

Nei termini suddetti la censura è fondata.

Appare sufficiente, al riguardo, richiamare il principio fondamentale del diritto pubblico, saldamente ancorato al testo costituzionale (artt. 103 e 113 Cost.), che gli atti della Pubblica amministrazione, nella loro espressione tipica data dal provvedimento amministrativo, godono di una particolare garanzia, che si articola nei ben noti attributi della obbligatorietà, della presunzione di legittimità, della esecutività, in virtù della quale essi debbono

essere osservati fino a quando non ne intervenga la caducazione (o la disapplicazione) da parte delle autorità a ciò abilitate dall’ordinamento.

Tale principio si applica, come è pacificamente ammesso, anche nei confronti di provvedimenti che si formino a seguito di una sequenza procedimentale nella quale intervengono altri soggetti o organi pubblici, i cui pronunciamenti perdono la loro autonoma rilevanza per fondersi nella determinazione finale, che rappresenta

il contemperamento coordinato delle diverse istanze chiamate dalla legge ad esprimersi in vista dell’interesse pubblico da soddisfare.

Ne consegue che l’eventuale invalidità dei diversi apporti endoprocedimentali non può essere fatta valere se non mediante la reazione avverso il provvedimento conclusivo.

La fattispecie del decreto presidenziale di approvazione delle tariffe dei commercialisti e dei ragionieri, a norma dell’art. 47 dei DD.P.R. n. 1067 e n. 1068 del 1953, (" … con decreto del Capo dello Stato, su proposta del Ministro di grazia e giustizia, di concerto con i Ministri per l’industria e il commercio e per il tesoro, sentito il Consiglio nazionale") si colloca all’interno di tale quadro generale di riferimento.

Le modalità concrete di intervento nel procedimento dei Consigli nazionali dei due Ordini (che, fra l’altro, può ben consistere nella formulazione di una proposta, anche alla stregua della giurisprudenza della C.G.C.E. sopra ricordata) non potevano dunque formare oggetto di una determinazione repressiva dell’Autorità, in quanto l’apporto da essi fornito è ormai incorporato ad ogni effetto nel decreto presidenziale di approvazione.

Tale conclusione, lungi dall’affermare che il provvedimento amministrativo di approvazione delle tariffe sia idoneo a sanare l’eventuale illegittimità dell’atto o l’illiceità del contenuto per contrasto con la libera concorrenza, sicchè le stesse risulterebbero in ogni caso vincolanti, sta a significare soltanto che la contestazione dei pretesi comportamenti distorsivi può essere realizzata solo nelle forme consentite dall’ordinamento, ossia

sollecitando l’esercizio dei poteri che possono legittimamente incidere sul provvedimento amministrativo, ossia la stessa Pubblica amministrazione e le diverse giurisdizioni competenti.

Ciò è quanto risulta dalla giurisprudenza comunitaria e quanto dispone la stessa legge n. 287 del 1990, che, all’art. 21 prevede in capo all’Autorità, come è stato osservato, un mero potere di segnalazione al Parlamento e al Governo delle situazioni distorsive della concorrenza e del mercato, derivanti da norme di legge, di regolamento o di provvedimento amministrativo di carattere generale.

La censura va dunque accolta, restando assorbita di ogni altra contestazione sul punto, con conseguente annullamento della deliberazione impugnata nella parte in cui dichiara l’illiceità, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990, degli atti o comportamenti posti in essere dai ricorrenti nel procedimento di

approvazione delle tariffe professionali delle rispettive categorie.

L’annullamento delle dette determinazioni priva di legittimo presupposto la diffida ad astenersi in futuro dai medesimi comportamenti, che, per conseguenza, deve essere del pari annullata.

Il C.N.R.P.C. ha anche impugnato quella parte del provvedimento con il quale si censura la deliberazione 27 settembre 1995 recante l’invito agli iscritti ad applicare la nuova tariffa non ancora approvata.

La censura dedotta dal ricorrente tende a mettere in evidenza, adducendo il contenuto della circolare esplicativa adotta dal Presidente dell’Ordine, che l’organo non ha inteso conferire efficacia anticipata al provvedimento ma ha indicato agli iscritti gli strumenti giuridici per pervenire lecitamente alla percezione dei nuovi importi.

La censura non può trovare accoglimento.

Le tariffe dei ragionieri possono essere imposte a seguito dell’adozione del provvedimento di approvazione, più volte ricordato.

La Autorità ha quindi rilevato, correttamente, che nell’iniziativa dell’Ordine in materia soggetta a precisa disciplina legislativa non può non individuarsi una forma di coordinamento della condotta economica delle "imprese" ¯ (poichè tali, come si è visto, i singoli studi professionali possono essere considerati ai fini che qui interessano) che si riconoscono nell’Ordine medesimo. In tal modo, al regime stabilito dalla legge, si è voluto sostituire un

regime nascente dall’intesa raggiunta in seno alla categoria.

Ne consegue che la compressione della libera concorrenza, intrinsecamente connessa al sistema della tariffa, è stata ottenuta con un mezzo diverso da quello legittimo.

La doglianza va dunque respinta.

(…)

(Pres. Schinaia, Cons. Est. Branca)

Redazione

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