Corte di Giustizia del 29 XI 2001

Corte di Giustizia

sentenza del 29 novembre 2001

Nel procedimento C-366/99,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, a norma dell’art. 234 CE, dal Conseil d’État (Francia), nella causa dinanzi ad esso pendente tra

Joseph Griesmar e

Ministre de l’Économie, des Finances et de l’Industrie, Ministre de la Fonction publique, de la Réforme de l’État et de la Décentralisation,

domanda vertente sull’interpretazione degli artt. 119 del Trattato CE (gli artt. 117-120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE-143 CE) e 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale (GU 1992, C 191, pag. 91), nonché della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24),

[…]

1.

Con ordinanza 28 luglio 1999, pervenuta alla Corte il 4 ottobre seguente, il Conseil d’État ha sottoposto a questa Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, due questioni pregiudiziali relative all’interpretazione degli artt. 119 del Trattato CE (gli artt. 117-120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE-143 CE) e 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale (GU 1992, C 191, pag. 91), nonché della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24).

2.

Tali questioni sono state sollevate nell’ambito di una controversia tra il sig. Griesmar e, da un lato, il Ministre de l’Economie, des Finances et de l’Industrie nonché il Ministre de la Fonction publique, de la Réforme de l’État e de la Décentralisation, dall’altro, in merito alla legittimità del decreto con cui è stata concessa al sig. Griesmar una pensione di vecchiaia.

Il contesto normativo

Il diritto comunitario

3. L’art. 119, primo e secondo comma, del Trattato recita:

«Ciascuno Stato membro assicura durante la prima tappa, e in seguito mantiene, l’applicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro.

Per retribuzione deve essere inteso, ai sensi del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo».

4. L’accordo sulla politica sociale è entrato in vigore alla stessa data del Trattato CE, vale a dire il 1° novembre 1993.

5. L’art. 6, nn. 1 e 2, dell’accordo sulla politica sociale richiama le norme stabilite dall’art. 119 del Trattato. L’art. 6, n. 3, del detto accordo, così recita:

«3. Il presente articolo non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici intesi a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte delle donne ovvero a evitare o compensare svantaggi nella loro carriera professionale».

6. A partire dal 1° maggio 1999, l’art. 141 CE così dispone:

«1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

(…)

4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali».

7. La direttiva 79/7, all’art. 3, n. 1, lett. a), prevede quanto segue:

«La presente direttiva si applica:

a) ai regimi legali che assicurano una protezione contro i rischi seguenti:

– (…)

– (…)

– vecchiaia,

(…)».

8. L’art. 4 dispone:

«1. Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, specificamente per quanto riguarda:

– il campo di applicazione dei regimi e le condizioni di ammissione ad essi,

– l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi,

– il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni.

2. Il principio della parità di trattamento non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna a motivo della maternità».

9. Ai sensi dell’art. 7 della direttiva medesima:

«1. La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione:

a) la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni;

b) i vantaggi accordati in materia di assicurazione vecchiaia alle persone che hanno provveduto all’educazione dei figli; l’acquisto di diritti alle prestazioni a seguito di periodi di interruzione del lavoro dovuti all’educazione dei figli;

(…)

2. Gli Stati membri esaminano periodicamente le materie escluse ai sensi del paragrafo 1 al fine di valutare se, tenuto conto dell’evoluzione sociale in materia, sia giustificato mantenere le esclusioni in questione».

Il diritto nazionale

[…]

I fatti della causa principale e le questioni pregiudiziali

16. Al sig. Griesmar, magistrato, padre di tre figli, veniva concessa, con decreto 1° luglio 1991, ai sensi del codice, una pensione di vecchiaia.

17. Ai fini del calcolo di tale pensione venivano presi in considerazione gli anni di servizio effettivi compiuti dal sig. Griesmar, senza però tener conto della maggiorazione prevista dall’art. L.12, lett. b), del codice, di cui i dipendenti pubblici di sesso femminile beneficiano per ciascuno dei propri figli.

18. Con ricorso iscritto a ruolo il 7 settembre 1992, integrato con memoria del 25 novembre 1992, il sig. Griesmar impugnava dinanzi al Conseil d’État il decreto 1. luglio 1991 chiedendone l’annullamento nei limiti in cui il decreto aveva preso in considerazione unicamente le quote annue corrispondenti agli anni di servizio effettivi, senza aggiungervi la maggiorazione prevista dall’art. L.12, lett. b), del codice a favore dei dipendenti pubblici di sesso femminile per ciascun loro figlio.

19. A sostegno del ricorso, il sig. Griesmar faceva valere, segnatamente, che l’art. L.12, lett. b), del codice era in contrasto con l’art. 119 del Trattato, con gli obiettivi della direttiva del Consiglio 24 luglio 1986, 86/368/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale (GU L 225, pag. 40), nonché con gli obiettivi della direttiva 79/7.

20. Ciò premesso, il Conseil d’État decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

1) Se le pensioni erogate dal regime pensionistico francese dei dipendenti pubblici rientrino nel novero delle retribuzioni di cui all’art. 119 del Trattato di Roma (art. 141 del Trattato che istituisce la Comunità europea). In caso affermativo, tenuto conto di quanto stabilito dall’art. 6, n. 3, dell’accordo allegato al protocollo n. 14 sulla politica sociale, se il principio della parità delle retribuzioni sia violato dall’art. L. 12, lett b), del code des pensions civiles et militaires de retraite.

2) Se, nell’ipotesi in cui non dovesse trovare applicazione l’art. 119 del Trattato di Roma, le disposizioni della direttiva 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, ostino a che la Francia mantenga in vigore disposizioni come quelle dell’art. L. 12, lett. b), del code des pensions civiles et militaires de retraite.

Sulla prima questione

Quanto all’applicazione ratione temporis delle disposizioni comunitarie di cui alla prima questione

21. Dato che, da un lato, l’accordo sulla politica sociale è entrato in vigore il 1. novembre 1993 e che, dall’altro, a decorrere dal 1. maggio 1999, data di entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, l’art. 119 del Trattato è divenuto l’art. 141 CE, il quale ha aggiunto al testo del detto art. 119 un quarto comma che riproduce quasi esattamente l’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale, il governo francese si chiede quale redazione debba essere presa in considerazione ai fini della soluzione della prima questione.

22. A tal riguardo il governo francese fa presente che, ove ci si ponga alla data del decreto di concessione della pensione di vecchiaia al sig. Griesmar, vale a dire il 1. luglio 1991, la redazione applicabile risulterebbe quella dell’art. 119 del Trattato, senza necessità di far riferimento all’accordo sulla politica sociale, concluso successivamente. Per contro, ove ci si ponga alla data della decisione di rinvio pregiudiziale, vale a dire il 28 luglio 1999, la redazione applicabile sarebbe quella dell’art. 141 CE. A quest’ultima data potrebbe essere parimenti invocato, ad ogni buon fine, l’accordo sulla politica sociale, atteso che il Trattato di Amsterdam non ha abrogato il protocollo cui tale accordo è allegato, vale a dire il protocollo n. 14 sulla politica sociale allegato al Trattato CE (in prosieguo: il «protocollo sulla politica sociale»). A parere del governo francese, non vi sarebbe motivo per porsi ad una data successiva all’entrata in vigore del Trattato CE e anteriore all’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam.

23. Risulta tuttavia chiaramente dalla lettura della decisione di rinvio pregiudiziale nel suo complesso che, con la prima questione, il Conseil d’État ha inteso interpellare la Corte in ordine all’interpretazione degli artt. 119 del Trattato e 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale. L’art. 141 CE è sì menzionato nella prima questione accanto all’art. 119 del Trattato, ma in via incidentale e al fine di indicare la numerazione attribuita, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, alla norma che ha sostituito l’art. 119 del Trattato. Infatti, non vi sono elementi, nella decisione dirinvio, che consentano di ritenere che il Conseil d’État abbia intesto proporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione dell’art. 141 CE e, in particolare, del n. 4 del medesimo.

24. Ciò premesso, per risolvere la prima questione occorre prendere in considerazione gli artt. 119 del Trattato e 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale.

[…]

Sull’esistenza di una disparità di trattamento in base al sesso

39. Si deve rilevare, in via preliminare, che il principio di uguaglianza delle retribuzioni, sancito dall’art. 119 del Trattato, così come il divieto generale di discriminazione di cui esso è espressione particolare, presuppone che i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile che ne beneficiano si trovino in situazioni paragonabili (v. sentenza 16 settembre 1999, causa C-218/98, Abdoulaye e a., Racc. pag. I-5723, punto 16).

40. Pertanto, ai fini della soluzione della seconda parte della prima questione, occorre accertare se, con riguardo alla concessione della maggiorazione d’anzianità controversa nella causa principale, le situazioni di un dipendente pubblico di sesso maschile e di un dipendente pubblico di sesso femminile, rispettivamente padre e madre di figli, siano paragonabili.

41. Al riguardo, risulta dalla giurisprudenza della Corte che, ai fini dell’applicazione del principio della parità delle retribuzioni, la situazione di un lavoratore di sesso maschilenon è paragonabile a quella di un lavoratore di sesso femminile qualora il vantaggio concesso al solo lavoratore di sesso femminile sia destinato a compensare svantaggi professionali derivanti ad un tale lavoratore in seguito all’allontanamento dal posto di lavoro che il congedo di maternità comporta (v. la menzionata sentenza Abdoulaye, punti 18, 20 e 22).

42. La Corte ha precisato la portata della tutela che il diritto comunitario garantisce alla donna in considerazione della maternità nella propria giurisprudenza relativa all’art. 2, n. 3, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), ai sensi del quale «la presente direttiva non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità».

43. Ai sensi di tale giurisprudenza, l’art. 2, n. 3, della direttiva 76/207 mira a garantire, da una parte, la protezione della condizione biologica della donna e, dall’altra, le relazioni particolari tra la donna e il figlio durante il periodo successivo alla gravidanza ed al parto, evitando che queste relazioni siano turbate dal cumulo degli oneri derivanti dal fatto di dover contemporaneamente svolgere un’attività lavorativa (v. sentenze 12 luglio 1984, causa 184/83, Hofmann, Racc. pag. 3047, punto 25; 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, Racc. pag. 1651, punto 44; 25 ottobre 1988, causa 312/86, Commissione/Francia, Racc. pag. 6315, punto 13, e 11 gennaio 2000, causa C-285/98, Kreil, Racc. pag. I-69, punto 30).

44. Se la Corte ha affermato che il permesso di maternità, concesso alla donna dopo la scadenza del periodo legale di tutela, rientra nella sfera di applicazione dell’art. 2, n. 3, della direttiva n. 76/207 (sentenza Hofmann, citata, punto 26), essa ha parimenti precisato che provvedimenti intesi alla protezione della donna in qualità di genitore, qualità che può essere propria dei lavoratori di sesso maschile come di quelli di sesso femminile, non possono trovare giustificazione nella detta disposizione della direttiva (v. citata sentenza Commissione/Francia, punto 14).

45. Le considerazioni svolte ai punti 43 e 44 della presente sentenza sono valide anche per valutare se le situazioni di un lavoratore di sesso maschile e di un lavoratore di sesso femminile siano paragonabili, ai fini dell’applicazione del principio della parità delle retribuzioni, con riguardo ad un provvedimento che riservi ai lavoratori di sesso femminile che abbiano avuto figli una maggiorazione di anzianità ai fini del calcolo della pensione di vecchiaia.

46. Occorre quindi accertare se tale maggiorazione sia diretta a compensare svantaggi professionali derivanti ai dipendenti pubblici di sesso femminile dalla loro lontananza dal posto di lavoro durante il periodo successivo al parto, nel qual caso la situazione di un lavoratore di sesso maschile non è paragonabile a quella di un lavoratore di sesso femminile, ovvero se tale maggiorazione sia essenzialmente intesa a compensare svantaggi professionali derivanti ai dipendenti pubblici di sesso femminile dal fatto diaver allevato figli, ipotesi in cui occorrerà esaminare se le situazioni di un dipendente pubblico di sesso maschile e di un dipendente pubblico di sesso femminile siano paragonabili.

47. Si deve rilevare al riguardo che, per quanto attiene ai requisiti di concessione della maggiorazione controversa nella causa principale, l’art. L.12, lett. b), del codice opera una distinzione tra i figli legittimi, i figli naturali riconosciuti ed i figli adottivi del titolare della pensione, da un lato, e, dall’altro, gli altri figli indicati all’art. L.18, n. II del codice.

48. Mentre, per quanto attiene alla prima categoria di figli, la maggiorazione è concessa al dipendente pubblico di sesso femminile senza ulteriori condizioni, la concessione della maggiorazione al dipendente pubblico di sesso femminile per la seconda categoria di figli è subordinata alla condizione di averli allevati per almeno nove anni prima del compimento del loro ventunesimo anno di età.

49. Il sig. Griesmar fa valere che la sua qualità di padre deriva dalla presenza di figli della prima categoria e che, a tal riguardo, la sua situazione è paragonabile a quella di un dipendente di sesso femminile avente figli del genere. Egli ha rilevato in particolare che, a differenza della maggiorazione stabilita mediante rinvio all’art. 18, n. II, del codice, quella per i figli della prima categoria è concessa al dipendente pubblico di sesso femminile unicamente in ragione della sua qualità di madre, senza che esso debba provare di aver allevato i detti figli.

50. Il sig. Griesmar aggiunge che, per quanto riguarda tali figli, la maggiorazione non è diretta a compensare svantaggi professionali connessi alla condizione di madre, in quanto la sua concessione non è legata all’assenza dal servizio conseguente al congedo di maternità. Da una parte, la maggiorazione verrebbe concessa addirittura per figli nati quando la madre non aveva ancora o aveva già perduto la qualità di dipendente pubblico. D’altra parte, la maggiorazione si applicherebbe anche per figli adottivi, mentre il congedo di adozione viene concesso indifferentemente al padre o alla madre. Inoltre, la maggiorazione sarebbe di un anno, mentre né il congedo di maternità né quello di adozione raggiungono tale durata.

51. Il governo francese precisa, dal canto suo, che la maggiorazione controversa nella causa principale è stata riservata ai dipendenti pubblici di sesso femminile che abbiano avuto figli al fine di tener conto di una realtà sociale, vale a dire gli svantaggi che tali dipendenti subiscono nello sviluppo della propria carriera lavorativa a seguito del ruolo preponderante loro assegnato nell’allevare i figli. Tale maggiorazione avrebbe dunque ad oggetto la compensazione degli svantaggi incontrati nella loro vita lavorativa dai dipendenti pubblici di sesso femminile che abbiano avuto figli, quand’anche essi non abbiano cessato di lavorare per allevarli.

52. A tal riguardo si deve rilevare, in primo luogo, che, sebbene la maggiorazione controversa nella causa principale venga concessa, in particolare, ai dipendenti di sessofemminile per i loro figli legittimi e naturali, quindi per i loro figli biologici, la sua concessione non è connessa al congedo di maternità o agli svantaggi che deriverebbero, ai fini della carriera ad un dipendente pubblico di sesso femminile in conseguenza della sua lontananza dal servizio per il periodo successivo al parto. Infatti, da un lato, l’art. L.12, lett. b), del codice non contiene alcun elemento che stabilisca un nesso tra la maggiorazione prevista ed eventuali svantaggi di carriera risultanti da un congedo di maternità. Tale disposizione non esige nemmeno che i figli che danno diritto alla maggiorazione siano nati in un momento in cui la madre avesse la qualità di pubblico dipendente. D’altro lato, la maggiorazione di cui trattasi viene riconosciuta anche per figli adottivi, senza essere connessa alla previa concessione alla madre di un congedo di adozione.

53. I chiarimenti forniti dal governo francese in ordine alla finalità dell’art. L.12, lett. b), del codice non solo confermano l’assenza di un nesso tra la maggiorazione oggetto della causa principale ed il periodo successivo al parto durante il quale la madre beneficia di un congedo di maternità ed è assente dal servizio, bensì sottolineano, al contrario, come tale maggiorazione sia connessa ad un altro periodo, vale a dire a quello dedicato ad allevare i figli.

54. Tale analisi non è infirmata dalla circostanza che, per i figli legittimi, naturali o adottivi del titolare della pensione, l’art. L.12, lett. b), del codice non subordina la concessione della maggiorazione alla condizione di averli allevati, condizione invece da esso imposta per gli altri figli elencati all’art. L.18, n. II, del codice.

55. E’ chiaro, infatti, che il legislatore nazionale ha utilizzato un unico criterio per la concessione della maggiorazione controversa nella causa principale, vale a dire quello relativo all’allevamento dei figli e che, per i figli legittimi, naturali o adottivi, ha semplicemente presunto che essi siano stati allevati nel nucleo familiare della madre. Si deve d’altronde rilevare in proposito che, come ha sottolineato, senza essere contraddetto, il difensore del sig. Griesmar all’udienza dibattimentale, l’origine di tale maggiorazione risale al 1924 ed il suo obiettivo, come illustrato nei lavori preparatori, era quello di agevolare il ritorno del dipendente pubblico di sesso femminile alla propria casa, perché fosse meglio in grado di provvedere ad allevare i propri figli.

56. In secondo luogo, si deve rilevare che le situazioni di un dipendente pubblico di sesso maschile e di un dipendente pubblico di sesso femminile possono essere paragonabili per quanto attiene all’allevamento dei figli. In particolare, la circostanza che i dipendenti pubblici di sesso femminile sono più colpiti dagli svantaggi professionali risultanti dall’allevamento dei figli, in quanto sono in generale le donne che prendono a loro carico tale onere, non è tale da escludere la comparabilità della loro situazione con quella di un dipendente pubblico di sesso maschile che abbia preso a carico l’allevamento dei propri figli e sia stato, in tal modo, esposto agli stessi svantaggi di carriera.

57. Orbene, l’art. L.12, lett. b), del codice non consente ad un dipendente pubblico di sesso maschile che si trovi in tale situazione di reclamare la maggiorazione controversanella causa principale, anche ove sia in grado di provare di aver effettivamente preso a carico l’allevamento dei propri figli.

58. Pertanto, indipendentemente dalla questione se tale prova debba essere pretesa anche dai dipendenti pubblici di sesso femminile con figli, si deve constatare che l’art. L.12, lett. b), del codice introduce una disparità di trattamento in base al sesso nei confronti dei dipendenti pubblici di sesso maschile che abbiano effettivamente preso a carico l’allevamento dei propri figli.

59. Resta da verificare se l’art. L.12, lett. b), del codice possa essere giustificato in base all’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale.

Sull’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale

60. Il sig. Griesmar sostiene che il protocollo sulla politica sociale, avendo introdotto, attraverso l’accordo al medesimo allegato, una norma completamente nuova, vale a dire la possibilità di una discriminazione non più in materia di parità di trattamento, bensì di parità di retribuzioni, non potrebbe essere applicato retroattivamente alle pensioni liquidate prima della sua entrata in vigore. In subordine, egli sostiene che, poiché la maggiorazione controversa nella causa principale non è connessa ad alcuno svantaggio relativo alla condizione di madre, in quanto viene concessa indipendentemente da qualsiasi congedo o da qualsiasi pregiudizio quanto alla carriera, il principio della parità delle retribuzioni di cui all’art. 119 del Trattato sarebbe violato dall’art. L.12, lett. b), del codice, anche qualora si dovesse ritenere applicabile l’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale.

61. Richiamandosi a dati statistici, il governo francese pone l’accento sul fatto che sono le donne ad avvalersi più frequentemente del congedo parentale, con conseguenti ripercussioni sui loro diritti a pensione, nonché sulla durata delle carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile che risulterebbe, in media, più breve di due anni rispetto a quella dei dipendenti pubblici di sesso maschile. Secondo il governo francese, anche se le statistiche non provano un nesso diretto tra il beneficio del congedo parentale e la durata delle carriere, è indubbio che l’allevamento dei figli costituisca un elemento importante e, forse, l’elemento principale per spiegare la minore durata delle carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile al momento dell’andata in quiescenza. La maggiorazione istituita dall’art. L.12, lett. b), del codice sarebbe quindi intesa a compensare, a favore della donna, gli svantaggi risultanti da un’interruzione di carriera per allevare i figli in ordine alla percentuale ed alla base di calcolo delle pensioni di vecchiaia.

62. Si deve ricordare, a tal riguardo, che l’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale consente agli Stati membri di mantenere o di emanare misure che prevedano vantaggi specifici intesi a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte delle donne ovvero ad evitare o compensare svantaggi nella loro carriera professionale.

63. Senza che sia necessario pronunciarsi sulla questione se l’art. 6, n. 3, del detto accordo introduca una nuova norma, si deve necessariamente rilevare che la maggiorazione prevista dall’art. L.12, lett. b), del codice non costituisce un provvedimento considerato da tale disposizione dell’accordo sulla politica sociale.

64. Infatti, l’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale autorizza i provvedimenti nazionali aventi lo scopo di eliminare o ridurre le disparità di fatto che risultano dalla realtà della vita sociale e che pregiudicano la donna nella sua vita lavorativa. Ne consegue che i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo.

65. Orbene, alla luce degli elementi fatti valere dinanzi alla Corte, il provvedimento controverso nella causa principale non appare idoneo a compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando tali donne nella propria vita lavorativa. Al contrario, esso si limita a concedere ai dipendenti pubblici di sesso femminile che abbiano la qualità di madre una maggiorazione di anzianità al momento dell’andata in quiescenza, senza porre rimedio ai problemi che essi possono incontrare nel corso della loro carriera lavorativa.

66. E’ significativo a tal riguardo il fatto che, mentre l’origine del provvedimento previsto dall’art. L.12, lett. b), del codice risale al 1924, i problemi incontrati nella carriera da tali dipendenti pubblici di sesso femminile non hanno potuto, sino ad oggi, essere risolti mediante tale disposizione.

67. Occorre quindi risolvere la seconda parte della prima questione nel senso che, malgrado il disposto dell’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale, il principio della parità delle retribuzioni è violato da una disposizione quale l’art. L.12, lett. b), del codice nei limiti in cui essa esclude dal beneficio della maggiorazione di anzianità da essa istituita ai fini del calcolo delle pensioni di vecchiaia i dipendenti pubblici di sesso maschile che siano in grado di provare di aver preso a carico l’allevamento dei propri figli.

[…]

Sulla limitazione nel tempo degli effetti della presente sentenza

70. All’udienza dibattimentale, il governo francese ha chiesto alla Corte di limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza nell’ipotesi in cui la prima questione dovesse essere risolta nel senso contrario alla tesi da esso sostenuta.

71. A sostegno di tale domanda, il governo francese ha fatto valere che l’eventuale erronea interpretazione da parte delle autorità francesi degli artt. 119 del Trattato e 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale sarebbe conseguenza di un’incertezza giuridica ravvisabile nella giurisprudenza della Corte in materia di azioni positive a favore della donna. Tale governo si è richiamato al riguardo alle sentenze 17 ottobre 1995, causa C-450/93, Kalanke (Racc. pag. I-3051), 11 novembre 1997, causa C-409/95, Marschall (Racc. pag. I-6363), 28 marzo 2000, causa C-158/97, Badeck e a. (Racc. pag. I-1875), e Abdoulaye e a., già citata. Quest’ultima sentenza avrebbe potuto indurre le autorità francesi a ritenere giustificato l’art. L.12, lett. b), del codice.

72. Il governo francese ha inoltre affermato che l’equilibrio finanziario delle pensioni di vecchiaia dei dipendenti pubblici verrebbe ad essere sconvolto se la maggiorazione prevista all’art. L.12, lett. b), del codice dovesse essere concessa retroattivamente a tutti i dipendenti pubblici di sesso maschile in quiescenza che abbiano avuto figli. Un tale versamento di arretrati comporterebbe un costo valutabile tra i 3 e i 5 miliardi di FRF all’anno. Tali cifre non terrebbero conto degli effetti della sentenza della Corte sulle pensioni di reversibilità, in quanto sarebbe molto difficile procedere a stime in merito a queste ultime.

73. Va ricordato che l’interpretazione di una norma diritto comunitario fornita dalla Corte si limita a chiarire e precisare il significato e la portata della norma stessa, quale avrebbe dovuto essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore [v. sentenza 20 settembre 2001, causa C-184/99, Grzelczyk (Racc. pag. I-0000, punto 50), e giurisprudenza citata].

74. Solo in via eccezionale la Corte, applicando il principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, può essere indotta a limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata allo scopo di rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede (v. citata sentenza Grzelczyk, punto 51).

75. Inoltre, secondo la costante giurisprudenza della Corte, le conseguenze finanziarie che potrebbero derivare per uno Stato membro da una sentenza pronunciata in via pregiudiziale non giustificano, di per sé, la limitazione dell’efficacia nel tempo di tale sentenza (v. citata sentenza Grzelczyk, punto 52).

76. Infatti, la Corte ha adottato tale soluzione soltanto in presenza di circostanze ben precise, quando, da un lato, vi era un rischio di gravi ripercussioni economiche dovute in particolare all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente, e quando, dall’altro lato, risultava che i singoli e le autorità nazionali erano stati indotti ad un comportamento non conformealla normativa comunitaria in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni comunitarie, incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalle istituzioni comunitarie (v. citata sentenza Grzelczyk, punto 53).

77. E’ sufficiente rilevare, al riguardo, che la maggiorazione controversa nella causa principale è completamente differente, per le sue modalità e per la sua finalità, dai provvedimenti oggetto delle sentenze invocate dal governo francese, di modo che quest’ultimo non può richiamarsi a tali sentenze al fine di dimostrare l’esistenza di un’incertezza oggettiva e rilevante in ordine alla validità, con riguardo al diritto comunitario, di tale maggiorazione. Peraltro, in considerazione della constatazione operata al precedente punto 67 della presente sentenza, non risulta provato che il numero dei dipendenti pubblici di sesso maschile in quiescenza che siano in grado di provare di aver preso a carico l’allevamento dei propri figli sia tale da provocare ripercussioni economiche gravi.

78. Conseguentemente, non vi sono motivi per limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza.

Sulle spese

79. Le spese sostenute dai governi francese e belga, nonché dalla Commissione delle Comunità europee, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.

P.Q.M.,

La Corte,

pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Conseil d’État con ordinanza 28 luglio 1999,

dichiara e statuisce:

Le pensioni erogate sulla base di un regime quale il regime pensionistico francese dei pubblici dipendenti rientrano nella sfera di applicazione dell’art. 119 del Trattato CE (gli artt. 117-120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE-143 CE).

Malgrado il disposto dell’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale, il principio della parità delle retribuzioni è violato da una disposizione quale l’art. L.12, lett. b), del code des pensions civiles et militaires de retraite, nei limiti in cui essa esclude dal beneficio delle maggiorazioni di anzianità da essa istituita ai fini delcalcolo delle pensioni di vecchiaia i dipendenti pubblici di sesso maschile che siano in grado di provare di aver preso a carico l’allevamento dei propri figli.

(G.C. Rodríguez Iglesias, presidente; V. Skouris, relatore)

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Redazione

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