Ricostruzione del trattamento giuridico ed economico e computo del periodo di sospensione cautelare c.d. facoltativa dal servizio
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria
Sentenza 28 febbraio 2002 n. 2
sul ricorso in appello n.r. 4 del 2001 dell’Adunanza plenaria, proposto dal Ministero della pubblica istruzione, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ex lege, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,
Contro
il sig. G. S., rappresentato e difeso dagli avv. Giuseppe Macino e Maurizio Romolo ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Domenico Mammola, in Roma, via Aureliana, n. 2,
Per l’annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, Seconda Sezione, n. 1049/98, pubblicata il 16 giugno 1998 e notificata il 4 giugno 1999.
Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della parte sopra indicata; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Vista la decisione n. 2568/2001 della Sesta Sezione, pubblicata il giorno 8 maggio 2001; Visti gli atti tutti della causa; Designato relatore, alla pubblica udienza del 29 ottobre 2001, il consigliere Giuseppe Farina ed udito, altresì, l’avv. dello Stato Tortora; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso in appello, notificato il 20 settembre 1999 e depositato il 22, il Ministero della pubblica istruzione chiede la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Veneto, Seconda Sezione, indicata in epigrafe, con la quale è stato parzialmente accolto il ricorso dell’intimato, docente di ruolo nella scuola media superiore, avverso due decreti del Provveditore agli studi di Venezia, in data 6 settembre 1996 e 21 gennaio 1997, recanti, rispettivamente, ricostruzione del trattamento giuridico ed economico e progetto di liquidazione dell’indennità di buonuscita.
2. La sentenza impugnata, affermata la giurisdizione del giudice amministrativo, ha ritenuto illegittimi i provvedimenti, nella parte in cui non comprendono il periodo di sospensione cautelare c.d. facoltativa dal servizio, disposta per il docente dal 16 luglio 1986 – data in cui egli è stato rimesso in libertà dopo la sottoposizione ad una misura di custodia cautelare – sino al giorno in cui è cessata la sospensione stessa.
3. Queste le censure proposte:
– il giudice ammnistrativo è privo di giurisdizione in materia riguardante l’accertamento del diritto a pensione;
– nel caso in esame, non trova applicazione l’art. 96 del t.u. approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (norma che contempla la sospensione dalla qualifica, a titolo di sanzione, ed il computo di essa nella sospensione cautelare subita dall’inquisito), bensì l’art. 97. Qui si dispone la restitutio in integrum in casi di proscioglimento o di assoluzione. Perciò, in caso di sentenza di condanna, come in quello in esame, nessuna reintegrazione può essere fatta.
– Si soggiunge, inoltre, che la sospensione cautelare prevista dall’art. 91 del medesimo t.u. è obbligatoria in ogni caso. Si precisa, infine, che le ipotesi di restitutio, previste dall’art. 97, sono da considerare “eccezionali ipotesi di indennizzo”. Quando vi sia condanna, la sospensione è stata subita giustamente: viene perciò criticata la giurisprudenza secondo la quale il sinallagma delle prestazioni tra amministrazione e dipendente è impedito soltanto nei periodi di restrizione della libertà personale.
4. Con controricorso depositato il 31 dicembre 1999, la parte appellata eccepisce la tardività dell’appello, notificato il 20 settembre 1999, rispetto alla data di notificazione della sentenza impugnata, notificazione eseguita il 4 giugno 1999. E perciò la scadenza del termine per impugnare la decisione è anteriore.
5. La domanda di sospensione della esecuzione della sentenza appellata è stata respinta dalla Sesta Sezione, con ordinanza n. 1870 dell’8 ottobre 1999.
La medesima Sezione, con decisione n. 2568 del 19 dicembre 2000 – 8 maggio 2001, definite alcune questioni, ha rimesso all’Adunanza plenaria la questione di diritto risolta dal primo giudice in senso favorevole all’attuale resistente.
6. All’udienza del 29 ottobre 2001, dopo la discussione, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. L’appellato, docente di ruolo nella scuola media superiore, è stato sospeso dal servizio a decorrere dal 16 luglio 1986, con decreto ministeriale in data 19 ottobre 1987. Il provvedimento è stato adottato, con espresso riferimento all’art. 91, 1° comma, prima ipotesi, “quale sospensione cautelare facoltativa … fino alla conclusione del procedimento penale”, al quale l’interessato era stato sottoposto.
Intervenuta sentenza di condanna alla pena della reclusione di un anno e quattro mesi, con d.m. 7 febbraio 1992 (art. 1) la sospensione è stata revocata dalla data del medesimo provvedimento, vale a dire dopo oltre cinque anni.
Con lo stesso atto (art. 3), si è stabilito che il competente Provveditore curasse “il seguito che consegue a carico del docente ai fini disciplinari”.
Per ragioni che in questa sede non assumono rilievo, e che la parte appellante non ha comunque chiarito, non è stato instaurato alcun procedimento disciplinare.
2. Sono stati impugnati in primo grado due provvedimenti del Provveditore agli studi recanti, rispettivamente ricostruzione del trattamento giuridico ed economico e progetto di liquidazione dell’indennità di buonuscita. E’ stato escluso dal computo il periodo intero di sospensione.
3. Si discute della computabilità del suddetto periodo.
4. Il primo giudice ha affermato la giurisdizione, ha respinto l’eccezione di prescrizione ed ha accolto il ricorso con riguardo alla computabilità del periodo di sospensione non seguito da un procedimento disciplinare.
5. Con il ricorso in appello sono proposti due motivi:
Difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, perché si tratterebbe di questioni connesse a domanda di accertamento del diritto a pensione;
Non applicabilità dell’art. 96, che segue unicamente alla conclusione del procedimento disciplinare, ma del solo art. 97 del t.u. citato, per il quale la restitutio in integrum deve essere disposta unicamente nei casi, ivi specificati, di proscioglimento o assoluzione. Non mai, invece, quando sia stata pronunziata sentenza di condanna.
6. La Sesta Sezione, con la decisione che rimette all’Adunanza plenaria la questione di merito, ha stabilito, su eccezione della parte privata, che l’appello è tempestivo. Ha anche confermato la sentenza del primo giudice sulla appartenenenza delle dedotte questioni, di diritto alla retribuzione ed alla restitutio in integrum, alla – pregressa, ma allora sussistente – giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sul rapporto di pubblico impiego.
Su tali questioni non occorre perciò pronunziare.
7. Viene condotto, poi, un approfondito esame delle disposizioni in materia di sospensione cautelare dal servizio, in relazione alla pendenza di procedimento penale, contenute negli artt. 91 – 92 e 96 – 97 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, da applicare al caso concreto in ragione del tempo dei provvedimenti in discussione e degli effetti di essi.
In proposito, va esplicitamente condivisa l’affermazione, secondo la quale è sguarnita di espressa previsione normativa la situazione che si esamina nel presente giudizio, in cui alla sospensione cautelare è seguita una sentenza di condanna, senza, tuttavia, l’instaurazione di un procedimento disciplinare.
Tre orientamenti giurisprudenziali sono stati individuati.
7.1. Per il primo di essi, sono irrilevanti pendenza del procedimento penale e suo esito, per definire il regime della posizione giuridica ed economica del dipendente cautelarmente sospeso, poiché, in ogni caso, è nella sede disciplinare che è riposta tale definizione. Sicché, se questa viene a mancare, si ha caducazione della sospensione e restitutio in integrum.
7.2. Per il secondo orientamento, assumono rilevanza tanto la sanzione disciplinare, quanto la sentenza di condanna (è questa la soluzione accolta da Ad. Plen. n. 15 del 16 giugno 1999, che si è limitata a conoscere, però, degli effetti di una condanna penale in relazione ad una sospensione cautelare, ma in presenza, anche, di un provvedimento di sospensione dalla qualifica irrogato a conclusione di un giudizio disciplinare. Va, in questo caso, operata la ricostruzione di carriera per il periodo che non trovi copertura nella sanzione disciplinare, né in quella penale inflitte. La caducazione della sospensione cautelare è, dunque, rimasta ferma. Il titolo giuridico impeditivo di parte della ricostruzione della posizione del dipendente è stato rinvenuto in altri provvedimenti sopravvenuti). Su questo indirizzo esprime dubbi la decisione in esame.
7.3. Un terzo orientamento è quello ravvisato in pronunzie del giudice delle pensioni ed in sentenze di giudici amministrativi di primo grado, per le quali la sospensione cautelare resta ferma anche quando la P.A. non dia corso al procedimento disciplinare.
Su quest’ultimo filone giurisprudenziale, il provvedimento di remissione sottolinea, di nuovo, le diversità delle ipotesi regolate dagli artt. 92 e 96 del t.u. da quelle contemplate dagli artt. 91 e 97, in cui la misura sospensiva è collegata ad un procedimento penale. Qui il coordinamento con il futuro intervento disciplinare sarebbe del tutto mediato e indiretto. La sospensione sarebbe assimilabile a quella introdotta (per effetto della l. 18 gennaio 1992, n. 16) con l’art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, nei riguardi dei dipendenti pubblici – oltre che condannati, anche in via non definitiva, per determinati delitti o sottoposti a misure di prevenzione – rinviati a giudizio per specifici delitti. In ambedue i casi sussiste il collegamento alla sola pendenza di un’accusa penale, con un parallelismo riconosciuto da C. cost. 3 giugno 1999, n. 206.
Ancora, la previsione restitutoria dell’art. 97, comma 1, si giustifica con l’esigenza di non fare operare, in caso di accertata innocenza, il principio generale che subordina l’obbligo retributivo alla prestazione lavorativa e con quella di porre a carico dell’amministrazione il “rischio dell’accusa infondata”.
Il silenzio sulla diversa ipotesi della condanna è dato dalla ragione che mancano, con il riconoscimento della colpevolezza, le esigenze derivanti dal proscioglimento e l’interruzione del sinallagma è da ritenere che “sia interamente attribuibile all’impiegato”. Di questo indirizzo viene individuata conferma nella legge 8 marzo 2001, n. 97, che, col nuovo comma 1-bis dell’art. 653 c.p.p., introduce il principio per cui nel procedimento disciplinare la sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso: l’attribuibilità del fatto è idonea a costituire il titolo giuridico sull’addebitabilità all’impiegato del mancato funzionamento del rapporto sinallagmatico.
La conclusione appare armonizzabile, secondo il remittente, con i princìpi costituzionali: la sospensione conserva la natura cautelare. Non ha carattere sanzionatorio, tenuto conto, da un lato, della sua correlazione con il procedimento penale, anziché con quello disciplinare, e, dall’altro, del principio civilistico sulle conseguenze della mancata esecuzione delle corrispettive prestazioni. Inoltre, l’adozione della sospensione facoltativa è subordinata alla natura particolarmente grave del reato contestato ed alla valutazione della possibile compromissione del prestigio dell’amministrazione, derivante dalla permanenza nell’ufficio dell’impiegato. Su ciò non viene a mancare la tutela giurisdizionale, che sarebbe possibile, in determinati casi, anche per una verifica ex post sulla sussistenza dei presupposti della misura. Vi sarebbe, in definitiva, la contrapposizione fra due esigenze munite di copertura costituzionale: il bilanciamento fra di esse è rinvenibile nel termine di efficacia di cinque anni, al quale l’art. 9 della legge n. 19/1990, sottopone la sospensione cautelare.
8. Sembra di potersi rilevare che il problema posto non possa risolversi, nel modo suggerito, né per l’elemento testuale delle norme di cui si discute, né per considerazioni di ordine sistematico, né alla stregua della necessaria verifica di compatibilità della tesi esaminata con i princìpi enunciati dalla Corte costituzionale.
8.1. Sul piano letterale sono da considerare due punti: a) ambedue gli artt. 91 e 92 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, stabiliscono la natura cautelare del provvedimento di sospensione dal servizio del dipendente, tanto se sia sottoposto a procedimento penale, quanto se sia colpito da misura restrittiva della libertà personale (art.91, prima e seconda ipotesi), quanto se sia sottoposto o sottoponibile a procedimento disciplinare (art. 92); b) la prima e la terza delle ipotesi suddette prevedono la misura sospensiva su valutazione discrezionale della P.A.
Il carattere cautelare dà al provvedimento che dispone la sospensione un’impronta di provvisorietà, che esige, di regola, un riesame, più approfondito e definitivo, allorché abbia a verificarsi l’evento, al quale la temporaneità della misura è esplicitamente e logicamente preordinata.
L’apprezzamento discrezionale, rimesso alla P.A., esige un nuova ponderazione, in ordine al fatto originariamente preso in considerazione secondo una cognizione incompleta, dato che la cura del pubblico interesse da perseguire le è, di norma, riservato e non è affidato ad altri organi pubblici – salvo casi particolari, espressamente previsti, come effetto di determinate condanne penali. A questo interesse si accompagna – dopo una pronunzia penale che non sia di assoluzione (art. 530 c.p.p.) perché il fatto non sussiste o perché l’impiegato non lo ha commesso, e perciò anche dopo qualsiasi sentenza di condanna – quello correlativo ai doveri osservati o meno dall’impiegato, in ufficio o al di fuori, e quello connesso con le esigenze della stessa amministrazione di affidare determinati compiti al dipendente, anche con riguardo alle funzioni assegnate o assegnabili.
Queste prime osservazioni fanno emergere la considerazione che sarebbe trascurato o impedito l’apprezzamento di ogni ulteriore interesse pubblico, se, per effetto di una sentenza di condanna, intervenisse un’automatica conversione della misura cautelare in una misura di carattere afflittivo, senza una rivalutazione del fatto, definitivamente accertato, del tipo di reato e della conseguente pena inflitta, e cioè senza una rivalutazione di un insieme di variabili ad ampio spettro, pur nell’ambito di una responsabilità irretrattabilmente riconosciuta.
E’ proprio la natura del provvedimento di sospensione che non sembra ammettere la sua “stabilizzazione”, senza ulteriori apprezzamenti della P.A.
8.2. Sul piano sistematico, si può, innanzi tutto, porre in rilievo che se non vi sono norme che regolano l’ipotesi di sopravvenuta pronunzia di colpevolezza, ciò non comporta la configurazione di una lacuna circa il regime degli effetti di tale sentenza sulla posizione giuridica ed economica dell’impiegato sospeso dal servizio; e che, se parti lacunose si rinvengano, esse possono agevolmente colmarsi.
Gli artt. 91, 92, 96 e 97, presi in esame con l’appello e con la decisione di rimessione, vanno letti nel contesto del Titolo VII del t.u., riservato alla materia della disciplina. E’ immanente, nell’insieme di questo sottosistema (artt. 78 a 123), l’esigenza dell’apprezzamento, da parte dell’amministrazione, dei fatti addebitati all’impiegato, sempre nell’esercizio del potere disciplinare.
E’ evidente, perciò, che l’ipotesi dell’omissione del procedimento disciplinare, dopo una sentenza di condanna, si verifica in misura marginale, ed è anche questa una ragione per la quale il legislatore possa non averla disciplinata. Ma, per ciò solo, non sembra possibile ricondurre ad essa conseguenze più afflittive, per l’impiegato, di quelle che possono discendere dalla conclusione di un giudizio disciplinare. La situazione significativamente più vicina appare quella in cui si sia verificata l’estinzione del procedimento, instaurato dopo una sentenza pure di condanna.
Tornando all’esame dell’insieme delle norme ora indicate, è da notare che esiste soltanto il caso di destituzione per condanna che importi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici – art. 85, primo comma, lett.b) – come fattispecie in cui ad una pronuncia di accertata responsabilità penale non segua un giudizio disciplinare. Infatti, è stata colpita da dichiarazione di illegittimità costituzionale l’altra ipotesi che un effetto destitutorio automatico prevedeva, vale a dire quella del medesimo art. 85, lett. a), dinanzi a condanne per specifici delitti (C. cost. 14 ottobre 1988, n. 971). Il motivo della pronunzia è così testualmente espresso: “l’indispensabile gradualità sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa – dunque – che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost.”. E, sul medesimo parametro, in ordine ad altra destituzione di diritto, la giurisprudenza ha ricevuto conferma con C cost. 27 aprile 1993, n. 197.
Se ne deve trarre la conseguenza che una misura afflittiva, come quella in esame, consistente nella privazione dello stipendio e nella non computabilità di un periodo fino a cinque anni ai fini giuridici ed economici, si configurerebbe oggettivamente come sanzione irrogata in conflitto con l’esigenza di ponderata valutazione dei fatti, che soltanto la “naturale sede” del procedimento disciplinare può garantire.
8.3. Sempre sul piano sistematico, non si può trascurare che, a garanzia dell’incolpato o del condannato, l’interesse pubblico ad adottare misure correlative alla violazione dei doveri dell’impiegato trova puntuali limitazioni. Sono stabiliti termini per l’inizio del procedimento disciplinare – v. anche l’art. 9, comma 2, l. 7 febbraio 1990, n. 19 – nei confronti di chi sia colpito da sentenza irrevocabile di condanna, nonché per la sua sollecita conclusione (ibidem). Indipendentemente da ciò, lo svolgimento del procedimento è scandito da regole precise sui tempi da osservare e dalla regola generale, ex art. 120 t.u., della sua estinzione, per inerzia per novanta giorni, e dell’impossibilità della rinnovazione del procedimento estinto.
Incombe, dunque, sull’amministrazione un onere di tempestività sia nell’avviare, sia nel coltivare il procedimento che può condurre ad una ponderata misura sanzionatoria. L’inerzia, cioè l’inosservanza di regole sull’azione amministrativa, non sembra poter far ricadere sul dipendente, soggetto alla potestà disciplinare, una conseguenza talora più negativa di quella che avrebbe potuto subire, se l’amministrazione avesse fatto un uso diligente di questo suo potere. Si spiega anche per questa ragione, cioè quella dell’esigenza per l’amministrazione di rendersi attiva nell’esercizio del suo potere punitivo, l’intervento legislativo – v. sempre l’art. 9, comma 2, della l. n. 19/1990 – per il quale, se la sospensione cautelare sia stata disposta “a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo” massimo di cinque anni.
Ed è corollario delle considerazioni fatte, l’ulteriore conclusione che, se la misura cautelare trova la sua causa nell’operato del dipendente, prima imputato, poi condannato, non devono, tuttavia, disconoscersi non soltanto l’intervenuta condanna, ma anche l’elemento causale consistente nella valutazione, fatta a priori, dall’amministrazione sull’opportunità di far luogo alla sospensione dal servizio, né ancora quello, che sopraggiunge, ma che integra la serie causale, consistente nell’esigenza di dar corso, durante o dopo il procedimento penale, a pena di decadenza, all’azione disciplinare. Cioè di ricondurre la vicenda alla “naturale sede di valutazione”. Sicché non sembra soddisfacente la ricostruzione che reputa interamente attribuibile all’impiegato la sospensione cautelare cosiddetta “facoltativa”, per far ricadere, altrettanto interamente, su di esso gli effetti definitivi dell’omessa prestazione del servizio.
8.4. Considerazioni di sostegno alle conclusioni raggiunte si traggono da altra pronunzia della Corte costituzionale, oltre quelle ricordate sopra, con specifico riguardo a temi collimanti con quello sinora esaminato. Si tratta dello scrutinio condotto sull’art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (C. cost. n. 206 del 3 giugno 1999).
La disposizione in esame stabilisce che si proceda alla sospensione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, quando ricorra una delle condizioni fissate dal comma 1, fra le quali vari casi di condanna. Il vaglio di costituzionalità si è incentrato sull’ipotesi, allora vigente (abrogata poi con la l. 13 dicembre 1999, n. 475), di sospensione obbligatoria anche di dipendenti pubblici rinviati a giudizio per determinati delitti. Rilevato un parallelismo con l’art. 91, comma 1, del t.u. n.3/1957, la Corte ha potuto affermare la legittimità costituzionale della misura, rimarcando che la funzione cautelare non deve profilarsi come una sorta di sanzione anticipata e che il collegamento all’accusa penale sussiste solo in quanto sono messi in pericolo interessi dell’amministrazione con la presenza dell’impiegato nell’ufficio. Ed è stata ancora confermata la linea della necessità di verifica, dopo l’accertamento della responsabilità penale, delle conseguenze che debbano discendere, nella sede disciplinare, sul rapporto di servizio.
9. In conclusione, in caso di omissione del procedimento disciplinare, la condanna penale, intervenuta nei confronti dell’impiegato, non è suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio, disposta in corso di procedimento penale e stabilita dall’amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto. La sospensione deve intendersi caducata, alla pari di quella cui sia seguito un procedimento disciplinare estinto. Per effetto di ciò la posizione dell’impiegato deve essere reintegrata, essendo venuto a mancare il titolo che giustificava la quiescenza del rapporto. Si tratta, in sostanza, dell’applicazione dei princìpi desumibili dagli artt. 96 e 97 del t.u. 10 gennaio 1957, n.3, con riferimento ad ipotesi di venir meno della sospensione per altri motivi.
Nel caso esaminato, il periodo del quale si è sopra detto, ivi compreso quello che esorbitava il termine quinquennale di legge, va riconosciuto ai fini giuridici ed economici.
10. Non sono state proposte altre censure. L’appello deve, di conseguenza, essere respinto, ma vi sono motivi per compensare le spese anche di questo grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza plenaria, respinge l’appello.
(…)
(Alberto de Roberto, Presidente, Giuseppe Farina, Estensore)