Relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2003

Inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 presso il T.A.R. Lazio

Relazione del Presidente Corrado Calabrò

(…) Questo T.A.R. rappresenta sotto questo aspetto un punto d’osservazione significativo. In questo avamposto si risente l’impatto della richiesta di giustizia con tutta l’immediatezza, a volte veemente, del primo grado ma, al tempo stesso, con una singolare ampiezza di visuale.

E’ a questo Tribunale amministrativo di Roma, infatti, che la legge attribuisce la competenza giurisdizionale sugli atti ad effetto ultraregionale emanati da organi centrali dello Stato e da enti pubblici ultraregionali aventi sede nella capitale. Una competenza che investe, quindi, atti generali di primaria importanza adottati dal Consiglio dei Ministri, dal Presidente del Consiglio dei Ministri, dal CIPE, dai Ministri.

L’incardinamento di tale fondante competenza ha svolto poi un effetto attrattivo che ha portato al riconoscimento, da parte del Consiglio di Stato, della competenza del T.A.R. di Roma a conoscere della controversia quando l’impugnativa investa, a un tempo, l’atto presupposto emanato da organi centrali dello Stato (o da enti pubblici) e gli atti applicativi adottati in periferia (l’ultima decisione in questo senso, in materia di concorsi, è del giorno 8 di questo mese).

All’investitura di base operata dalla legge n. 1034 del 1971 si sono aggiunte, negli anni ’90, altre attribuzioni qualificanti ad opera di successive leggi, nello sviluppo –come rilevava il Presidente de Roberto- di una linea legislativa attenta alla necessità di ottenere in settori particolarmente sensibili una giurisprudenza dedicata ed uniforme già nel primo grado (che nella grande maggioranza dei casi resta l’unico).

Sono state così assegnate in esclusiva a questo T.A.R. le controversie relative agli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, il contenzioso concernente gli atti del Consiglio superiore della magistratura (nei cui confronti, ancorché trattisi di organo di rilevanza costituzionale, la Corte Costituzionale ha confermato la pienezza di poteri del giudice amministrativo), il contenzioso nei confronti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (la competenza al riguardo del T.A.R. di Roma è definita dalla legge inderogabile).

Quale giudice esclusivo di atti generali emanati per dare attuazione a direttive comunitarie, il nostro T.A.R. viene ad assumere di fatto, più di altri giudici, il ruolo per così dire di «giudice comunitario», chiamato a operare in stretta sintonia con i principi non scritti del diritto comunitario elaborati dalla Corte di Giustizia nel perseguimento dell’obiettivo di fondo di rendere effettiva e uniforme in tutta l’area comunitaria la tutela delle situazioni giuridiche considerate dallo stesso ordinamento. Un particolare collegamento con l’ordinamento comunitario implica altresì la giurisdizione del T.A.R. di Roma in relazione alle determinazioni adottate in materia di concorrenza dall’apposita Autorità.

Come muterà la competenza del nostro Tribunale in seguito alla completa attuazione del c.d. federalismo amministrativo? (La parola federalismo è -come notava il prof. Sabino Cassese- una parola così usata da essere divenuta polisemica, bisognosa cioè sempre di un aggettivo per la sua specificazione). Beh, perderà alcune delle sue competenze per la traslazione dallo Stato alle Regioni (e alle autonomie locali) di attribuzioni fin adesso centralizzate, ma sarà chiamato ad essere, prevedibilmente, il giudice del sistema di governo delle nuove autonomie (sempre che, naturalmente, la controversia non attinga il magistero della Corte Costituzionale); sarà, cioè, il giudice naturale delle decisioni condivise adottate dalle conferenze nonchè degli atti genetici e sostentatori del sistema, quali i decreti di attribuzione e ripartizione di risorse (finanziarie e umane). Per un verso o per l’altro il T.A.R. di Roma sembra dunque destinato a essere e restare il giudice di governo dei sistemi complessi.

Cosa si vede di nuovo nel panorama dell’azione pubblica da questo punto d’osservazione avanzato?

In questi ultimi anni il quadro in cui s’iscrivono il nostro sistema amministrativo e quello della giustizia amministrativa ha subito spinte contrastanti e incalzanti cambiamenti. L’adozione di modelli negoziali nell’azione amministrativa, le privatizzazioni (compresa quella del rapporto di pubblico impiego), la c.d. esternalizzazione (cioè la gestione esterna) di alcuni servizi pubblici, la concezione più pratica ed economica di altri tuttora gestiti dalla pubblica amministrazione in regime ibrido, il depotenziamento del momento autoritativo e la devalutazione del provvedimento amministrativo nella sua esclusività strumentale di atto in cui si estrinseca la funzione amministrativa, depongono per il declino dello Stato amministrativo.

La comunicazione diretta (o la notizia immediata) di una deliberazione parlamentare o governativa, dell’esito di un giudizio, ha maggiore (e non reversibile) impatto sulla collettività che la pubblicazione dell’atto formalizzato. Ma nello stesso tempo assistiamo alla rigida prefigurazione dell’attività amministrativa con la fissazione in regole normative di criteri, modalità comportamentali e fini.

Alla tendenziale elasticizzazione del mercato del lavoro fa riscontro l’estensione di regole garantistiche e di par condicio (procedure ad evidenza pubblica) a soggetti imprenditoriali che operano in via derivata nella sfera d’interesse pubblico (organismi di diritto pubblico). Si guarda, come meta ultima, a uno Stato minimo, ma alla sottrazione di funzioni allo Stato corrispondono il quasi federalistico e talora cumulativo accrescimento di quelle delle Regioni e degli enti locali e la sopravvivenza di funzioni statali trasversali (c.d. poteri funzionali).

Se alcuni stagionati interessi pubblici appaiono un po’ obsoleti, si ripropongono tuttavia impreteribilmente esigenze sociali, di sicurezza, di solidarietà, d’interazione tra pubblico e privato (specie nel campo della formazione e della ricerca) e permangono valori di tutta attualità, quali quelli di tutela dell’ambiente e del paesaggio, dell’urbanistica, dei beni artistici e storici, della dignità della persona.

Assistiamo al predominio dell’economia sulla politica. Più privato e meno pubblico, è il messaggio. Il fine da raggiungere è quello di un’economia regolata dalle leggi del mercato e della concorrenza invece che dallo Stato attraverso il potere di indirizzo o la gestione diretta. Ma la tendenza dell’economia alla globalizzazione e a operare in base a una sorta di universale lex mercatoria risente poi fortemente, nell’ambito comunitario, degli indirizzi e dei vincoli imposti da Bruxelles; e la tutela dei nuovi valori fondanti della libertà di concorrenza e di un mirato ordine di mercato postula una limitazione dell’iniziativa economica imprenditoriale impensabile fino a qualche decennio addietro. Si ripropone quindi sotto aspetti nuovi l’eterno conflitto tra libertà e autorità ch’è alla base dell’istituzione di un giudice, e specificamente del giudice amministrativo.

Va comunque registrato l’aggiornamento della nozione di funzione pubblica come azione pur sempre finalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico ma meno legata a schemi formali. Va preso atto, altresì, del maggior spessore acquistato dall’interesse legittimo per la sua riconosciuta risarcibilità e per il suo partecipativo contatto con l’azione amministrativa nella sua formazione e nel suo svolgimento, e non solo con l’atto in cui culmina.

Corrispondentemente, il giudizio amministrativo è un giudizio non tanto su atti quanto sull’esercizio di un potere, il potere amministrativo. Potere che, nonostante le mutazioni intervenute, non è tuttora assimilabile all’autonomia negoziale del privato, la quale tendenzialmente è libera, dovendo soltanto non oltrepassare il limite che la circoscrive, ch’è quello della liceità e della non riprovabilità sociale, laddove l’azione dell’amministrazione è sottoposta a un vincolo interno, o meglio a una polarizzazione verso il perseguimento del fine pubblico (primario, secondario, composito) che ne costituisca la causa. Di tale polarizzazione essa risente in qualche misura anche quando non si traduce in atti autoritativi ma in negozi di diritto comune.

In poco più di un decennio sono intervenute importanti riforme legislative: in primo luogo la riforma dell’amministrazione e del procedimento amministrativo. I criteri-obiettivo legislativamente fissati all’azione amministrativa (legge n. 241/1990; d.lgs n. 29/1993 e successive modificazioni) sono, oltre quello cornice di legalità, quelli dell’economicità, efficacia, efficienza, pubblicità, trasparenza (in luogo della tradizionale riservatezza), partecipazione degli interessati, tempestività, semplificazione. Di tali criteri-obiettivo appaiono maggiormente attuati quelli formali della pubblicità, trasparenza e partecipazione, nonchè quelli (anche sostanziali) dell’accelerazione e della semplificazione dei procedimenti: questi ultimi, peraltro, specie grazie alla crescente informatizzazione e automatizzazione dell’amministrazione, non dissimili da quelle delle imprese private.

Non sembra invece che sia stato conseguito l’altro obiettivo insito nella partecipazione, quello cioè di attrarre decisivamente nella fase amministrativa la risoluzione di contrapposti punti di vista in una più comprensiva convergenza. Non sono molti i portatori di interessi individuali (ma anche collettivi o diffusi) che si acquietino a una determinazione non condivisa: un cittadino su 736 propone ricorso giurisdizionale contro l’operato della pubblica amministrazione[1]. E questo quand’anche il procedimento abbia avuto uno svolgimento dialettico paraprocessuale e l’amministrazione eserciti una funzione di regolazione neutrale; conseguentemente la fase giurisdizionale è vista spesso come una sorta di naturale (anziché patologico) prolungamento di quella amministrativa.

Più d’uno si chiede come possa il giudice amministrativo sostituirsi all’Amministrazione (e specie ad Amministrazioni indipendenti, specializzate e tecnicamente attrezzate). Il giudice non può (e non deve) conoscere la questione dal di dentro come chi l’ha gestita. Ma quanto egli perde di interiorizzazione nella sua visione tanto guadagna in imparzialità e in sensibilità verso il sistema cui tutti i valori giuridici vanno riportati. Anche le Autorità indipendenti, nello svolgimento della loro funzione, perseguono l’interesse pubblico loro affidato con angolazione soggettiva (e sia pure con gli intenti più elevati).

Il giudice persegue solo il fine di fare giustizia, ancorché nella maniera più concreta possibile e quindi compenetrandosi (ma non immedesimandosi) con le esigenze perseguite dal soggetto pubblico, alla luce del contraddittorio.

Il contraddittorio: è questa una delle più civili conquiste che postula -in primo luogo e indefettibilmente- che il giudice sia un soggetto terzo tra gli interessi in contrasto. Il dibattito processuale avvicina a una decisione accettabile più di qualsiasi altro procedimento. Per quanto si possa avere conoscenza approfondita di una questione, la dialettica processuale –vivificata dagli episodi concreti di vita- riesce frequentemente a mettere in luce aspetti inesplorati.

Non pochi degli avvocati che qui difendono sono insigni studiosi e docenti: bene, anch’essi avranno sperimentato come il contraddittorio faccia emergere profili non considerati nelle più ponderose monografie dedicate all’argomento. Il livello dei contraddittori contribuisce in misura rilevante alla qualità della decisione. E a Roma abbiamo la fortuna di avere un foro di altissimo livello: noi cresciamo su noi stessi in relazione (anche se non strettamente in proporzione) alle difese svolte. Sono quindi loro i protagonisti della partita che dinanzi a noi si gioca e della quale siamo arbitri. Mi rincresce che l’incapienza di questa pur non angusta sala abbia costretto ad ospitare molti frequentatori delle nostre aule giudiziarie nella sala accanto, anziché in immediato contatto con noi, come avviene nelle udienze. Ma voi siete i padroni di casa, tanto quanto i colleghi: è naturale che facciamo posto agli ospiti.

Dicevo che il dibattito processuale conduce tendenzialmente a una decisione accettabile. Che sia così lo testimoniano le cifre: nel 2001 le sentenze di primo grado non appellate sono state l’84,77% del totale. Il che dimostra che il primo grado è un deflattore determinante del contenzioso e dissuade dall’introdurre un grado giurisdizionale intermedio che allungherebbe i tempi del processo senza portare necessariamente alla verità, ch’è fuori della portata degli uomini: “La vision de la justice est le plaisir de Dieu seul” ha scritto Arthur Rimbaud (che pure non era persona di spiccata religiosità). Se poi si tiene conto che gli appelli sono stati respinti nella proporzione del 51,61%, abbiamo che le sentenze di primo grado che diventano definitive sono il 92,63% del totale.

Il tasso di litigiosità è, come dicevamo, elevato e va (in rapporto alla popolazione) da un minimo di 0,050% in Piemonte e di 0,062% in Lombardia a un massimo dello 0,320% nel Lazio, seguito dalla Campania con lo 0,289%. Il Lazio, peraltro, risente della concentrazione di competenze, della rilevanza pratica delle questioni (è difficile che non si proponga ricorso quando sono in ballo assetti fondamentali o milioni di euro), nonché del contenzioso del pubblico impiego, ch’è molto folto. Nel complesso, peraltro, il numero dei ricorsi proposti dinanzi al giudice amministrativo è in calo.

Il trasferimento della giurisdizione sul pubblico impiego al giudice ordinario ha portato a una diminuzione dei nuovi ricorsi, nell’insieme dei T.A.R., del 21,67%. Di tale diminuzione ha beneficiato anche il T.A.R. del Lazio ma in misura molto inferiore: comprensibilmente, se si considera ch’è concentrato in esso il contenzioso dei magistrati (molto sostenuto) e che toccano ad esso anche i ricorsi del personale della carriera diplomatica e di quella prefettizia, dei dipendenti delle Authorities e della Banca d’Italia e buona parte di quelli dei militari, dei carabinieri, della polizia di Stato, della polizia penitenziaria, della Guardia di finanza. E infatti dei 17.015 ricorsi proposti nel 2001 presso questo T.A.R. (il numero più elevato tra tutti i T.A.R.) ben 5.699 riguardano il pubblico impiego, a fronte dei 2.150 ricorsi in materia del comparabile T.A.R. della Campania (per non parlare degli incomparabili T.A.R. della Basilicata -9 ricorsi-, di Trento e Bolzano -41 ricorsi per uno-, del Friuli Venezia-Giulia -91 ricorsi- e persino del T.A.R. della Lombardia -385 ricorsi-).

Riguardo al contenzioso dei militari va segnalato che questo T.A.R. (Sez. II, ord. n. 305/02) ha sottoposto alla Corte Costituzionale, che l’ha riconosciuta fondata, la questione di costituzionalità dello stato di celibato richiesto per il reclutamento dei militari.

Il T.A.R. del Lazio risente poi ciclicamente di improvvise ondate di ricorsi d’annata: negli anni 1999 e 2000 sono state le quote latte (una delle materie in cui le questioni proposte derivano da determinazioni comunitarie): nel 2002 sono stati i ricorsi contro le graduatorie per il reclutamento dei docenti dell’istruzione secondaria.

Depurato di tali accidentalità, il secondo posto nel contenzioso di questo T.A.R. l’occupa la materia dell’edilizia e dell’urbanistica e più in genere del governo del territorio (3.576 ricorsi), seguita dall’attività della pubblica Amministrazione di generale rilevanza, che dà luogo altresì al contenzioso più avvertito dall’opinione pubblica. Si pensi all’impugnazione degli atti d’indirizzo e del regolamento sulle fondazioni bancarie, che riguardano l’utilizzazione e la gestione di un patrimonio di oltre 70mila miliardi di vecchie lire, ai ricorsi contro i regolamenti sull’ammissione e sull’esercizio delle professioni negli ordini e collegi professionali, all’impugnazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri sulla distribuzione di risorse tra le Regioni.

Ma è soprattutto attraverso il sindacato degli atti delle Autorità indipendenti che il giudice amministrativo –giudice ordinario dell’esercizio della funzione pubblica- è divenuto il giudice naturale dell’interesse pubblico nell’economia. La legge n. 205 del 2000 (introducendo l’art. 23 bis nella legge n. 1034) ha istituito, com’è noto, una sorta di corsia preferenziale per l’esame dei ricorsi riguardanti le Autorità amministrative indipendenti nonché di quelli aventi ad oggetto provvedimenti di maggiore rilevanza sociale, funzionale, economica, finanziaria. Tale disposizione viene utilizzata appieno da questo T.A.R. Importanti e numerose le questioni esaminate e decise sollecitamente nei confronti dell’ANTITRUST, della CONSOB, dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, della Banca d’Italia (in materia di vigilanza sul credito e sugli intermediari), dell’ISVAP.

In particolare, nei confronti della CONSOB sono venute in giudizio l’anno scorso due questioni coinvolgenti interessi di decine di migliaia di miliardi di vecchie lire: i ricorsi Olivetti, Olimpia e Pirelli sui relativi controlli societari e i ricorsi riguardanti la fusione SAI-Fondiaria. In uno di questi ricorsi, venuto all’esame in sede cautelare pochi giorni dopo il suo deposito, il difensore della società ricorrente si dichiarò disposto, stante la complessità della questione, a rinunciare alla domanda di sospensione in cambio di una decisione nel merito, ma sottolineò che la sua cliente male avrebbe capito una decisione che non fosse venuta sollecitamente così come avviene in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (dove la decisione giunge entro un anno, un anno e mezzo). “Avvocato” gli risposi “la giustizia amministrativa italiana la sorprenderà” e fissai il merito a 35 giorni di distanza.

La giustizia amministrativa deve la sua vitalità e la sua affermazione innanzi tutto alla giustizia cautelare. Quasi la metà dei ricorsi in primo grado hanno determinato nel 2000 l’emissione di un’ordinanza cautelare. Si tratta di un intervento giurisdizionale di straordinaria prontezza cui l’interpretazione giurisdizionale evolutiva prima e la legge n. 205 poi hanno conferito anche grande incisività. Noi decidiamo sulla domanda di sospensione in genere entro 15 giorni. E i ricorrenti dimostrano di preferire una risposta giudiziaria immediata ancorché sommaria a una più approfondita e raffinata che venga dopo anni e anni, quando ha ormai perduto contatto con l’attualità della situazione.

Tuttavia l’utilizzazione dello strumento cautelare va dosata per evitare effetti strumentali distorti e/o paralizzanti oltre misura. Per le opere infrastrutturali il d. lgs. n. 190 del 2002 ha introdotto un rimedio drastico, che però rischia di comportare un costo doppio dell’opera. Più appropriati appaiono il senso di responsabilità del Collegio e una misurata moral suasion del Presidente, la sottoposizione della sospensione a cauzione o ad altre condizioni, nonché l’avvertenza alle parti che anziché decidere con ordinanza il Collegio potrebbe definire il giudizio con una sentenza semplificata.

E’ questa una possibilità introdotta dalla legge n. 205, all’esposizione alla quale si deve, in parte, la forte diminuzione delle ordinanze cautelari in primo grado nel 2001 (-65,34%). Anche in questo TAR ci siamo avvalsi di tale opportunità ma in misura meno consistente, emettendo nel 2001 ben 8.565 ordinanze (positive e negative) di sospensione: l’entità delle questioni in discussione rende presso di noi da un lato più pressante la richiesta di una pronuncia del giudice mentre non consente molte volte la semplificazione della decisione.

Nell’insieme dei TAR è diminuito l’afflusso di ricorsi ed è ulteriormente aumentata l’attività decisionale di primo grado (grazie, oltre alle sentenze semplificate, anche ai provvedimenti estintivi del giudizio: perenzione e altri). Le decisioni di primo grado sono state pari al 101,38% dei ricorsi proposti. Nel complesso c’è quindi un trend leggermente positivo, che ha fatto diminuire la pendenza dell’ 1,19%.

Il TAR Lazio ha emesso nel 2001 12.908 decisioni (cui vanno aggiunte 11.024 ordinanze, quasi un quarto di quelle emesse da tutti i TAR e il doppio di quelle emesse dal Consiglio di Stato), a fronte di 17.015 ricorsi proposti; nel 2002 sono stati definiti circa 16.000 giudizi rispetto a un afflusso di 14.074 ricorsi; le ordinanze sono state 8.438. Anche il T.A.R. Lazio, quindi, è giunto al giro di boa dell’inversione di tendenza.

Potrà forse incuriosire conoscere i dati sull’esito dei ricorsi: la percentuale di accoglimenti di questo TAR è stata del 46,89%, un po’ sotto la media nazionale ch’è del 52,77% e lontana dalle punte massime dei TAR Sardegna e Sicilia (rispettivamente 72,44% e 63,20% di accoglimenti) e da quelle minime dei TAR Molise e della Provincia di Trento (35,43% e 39,38%).

I dati esposti potrebbero far pensare a una giustizia amministrativa in piena salute. Purtroppo non è così. Pendono dinanzi ai TAR 905.444 ricorsi, di cui (per citare solo le cifre più grosse) 209.346 dinanzi al TAR Campania, 102.380 davanti al TAR Sicilia e 185.205 dinanzi a questo TAR. Si tratta di una pendenza quanto mai pesante: la giustizia ritardata è non di rado una giustizia negata. La lieve inversione di tendenza registrata negli ultimi tempi non è tale da portare di per sé a uno smaltimento dell’arretrato in tempi ragionevoli. I 267 magistrati che operano nei Tribunali regionali (esclusi i presidenti e i fuori ruolo) hanno raggiunto, in media, una produttività elevatissima. Aumentarla ulteriormente appare impraticabile.

In questo quadro s’iscrive la situazione del TAR di Roma. L’organico di questo TAR è di 50 magistrati, lo stesso organico dell’anno 1978, quando il numero delle sentenze emesse si aggirava sulle tremila e quello delle ordinanze era circa il 7 per cento dell’attuale, senza considerare l’incremento del numero dei ricorsi e quello enorme dell’arretrato. Il numero dei magistrati effettivamente in servizio è poi inferiore a quello previsto sulla carta, per la più accentuata transfluenza da questo TAR al Consiglio di Stato e agli altri TAR in relazione alla relativa maggiore anzianità dei suoi componenti e per la sfasatura tra il trasferimento e l’assegnazione di nuovi elementi.

Come mai non si avverte maggiormente la sofferenza di questa situazione? In primo luogo perché tutti i ricorrenti che ne abbiano fatto domanda (e sono quasi la metà del totale) hanno ottenuto indefettibilmente una pronuncia sulla loro domanda di misure cautelari: un assaggio giurisdizionale, quanto meno, della controversia c’è stato. Poi perché la sensibilità dei presidenti sovviene affannosamente alle questioni più incalzanti. Infine perché col passar del tempo molti ricorrenti perdono interesse al ricorso (ma questo è un motivo perverso).

Comunque ho provato ripetutamente a iscrivere a ruolo, insieme con i ricorsi più coltivati, alcuni dei più vecchi (ovviamente non perenti): sette volte su dieci ne è stato chiesto il rinvio perché o il difensore aveva perso il contatto col patrocinato o questo stesso era indeciso sul da farsi. Ciò fa pensare che potrebbe essere eliminato un maggior numero di ricorsi mediante una più accurata ricognizione delle situazioni pendenti.

I magistrati però non possono fare questo da soli. Sono troppo oberati; d’altra parte il loro incremento non può andare a scapito della selettività. Una soluzione può essere quella di farli assistere da un maggior numero di qualificati collaboratori amministrativi. Il rapporto tra personale amministrativo e magistrati è nella nostra magistratura di 1,9 a 1, mentre è di 3 a 1 per la magistratura ordinaria e di 5 a 1 per la Corte dei Conti. Naturalmente ogni volta che si segnala l’esigenza di maggiori risorse –personali o materiali- sorge un problema finanziario, e più che mai in tempi, come gli attuali, in cui impera la necessità di economie di bilancio.

Non compete a noi inoltrarci in tale tema, che sappiamo ben presente al Consiglio di presidenza per la giustizia amministrativa e al Governo, particolarmente nella persona del Sottosegretario delegato Gianni Letta. Possiamo solo sommessamente ricordare che la spesa per la giustizia amministrativa (282.185.613.000 in vecchie lire) rappresenta soltanto lo 0,024% della spesa globale dello Stato e ch’essa, secondo alcuni studi, può ritenersi compensata dalle entrate tributarie, costituite dal contributo unificato d’iscrizione a ruolo e dalle imposte pagate dal personale, dai professionisti, dal loro personale, dagli operatori dell’indotto. Ma soprattutto v’è da considerare il valore aggiunto di poche decine di qualificati collaboratori amministrativi, acquisibili anche mediante procedure di mobilità.

Signor Presidente della Repubblica, Signor Presidente del Consiglio,

a pochi anni di distanza da quando, con le proposte della Commissione bicamerale, sembrò che la giustizia amministrativa stesse per essere scompaginata, il giudice amministrativo si ritrova ad essere il giudice naturale della funzione pubblica in base a una ripartizione di attribuzioni per materie che ne estende e rafforza la giurisdizione generale di legittimità e quella esclusiva e con una concentrazione di poteri che ne potenzia l’incisività, abbinando la tutela risarcitoria a quella di annullamento. Come l’essenza della funzione amministrativa è la discrezionalità, così l’essenza della giurisdizione amministrativa è il sindacato sull’eccesso di potere (il quale mal si concilia tanto con inibite ritrosie quanto con esuberanti e/o esibite invadenze).

Volta a volta, in relazione alle decisioni di maggior peso, le nostre pronunzie sono state accusate da alcuni di ingerenza nella sfera riservata all’Amministrazione e dai più di essersi arrestate sulla linea di rilevazione delle illegittimità formali. Il nostro non è un compito grato: a differenza della politica che rinvia e media tra molteplici interessi finchè non incontra il maggior consenso possibile, il giudice, nel giorno fissato, decide tra contrapposte posizioni, dando ragione a una parte e torto all’altra. Ora, mentre chi vince naturalmente pensa “avevo talmente ragione che persino il TAR del Lazio me l’ha riconosciuta”, io devo ancora incontrare una parte perdente che riconosca che aveva torto. Lo rilevava già Senofonte. Si giudica per essere giudicati: in primo luogo dal nostro giudice d’appello, il Consiglio di Stato, e in secondo luogo dall’opinione pubblica.

Noi decidiamo al limite della nostra capacità seguendo la nostra coscienza, ma pur sempre attenti alle critiche e agli effetti delle nostre pronunce. Se statisticamente ci conforta che il 92,63% delle sentenze di primo grado divengano definitive (o perché non appellate o perché confermate) siamo comunque ben consapevoli che ogni singola questione è una questione di giustizia a sé stante e che malgrado (e anzi proprio per) il profluvio di norme, il giudice amministrativo si trova ancora una volta a fare riferimento a valori e indicatori da rinvenire più o meno intuitivamente nell’ordinamento per pervenire a problematiche sintesi piuttosto che ad analitiche compilazioni.

La verifica della validità sostanziale dell’azione amministrativa si lascia progressivamente alle spalle il giudizio di legalità formale (riportabile in qualche misura a un giudizio di corrispondenza fra norma e atto) per privilegiare il giudizio di adeguatezza e idoneità; il che impone di rifarsi ai principi generali dell’ordinamento (e quindi a criteri guida ad elevato contenuto d’indeterminatezza ed elasticità) nonché di utilizzare criteri e tecniche di carattere specifico attraverso i quali l’amministrazione ha tradotto in obiettivi concreti gli orientamenti tendenziali tracciati alla sua azione.

Si rigenera così l’esigenza ch’ è all’origine del giudice amministrativo e del suo riconoscimento costituzionale. In una realtà variegata e cangiante il giudice (e il giudice amministrativo più che mai) si pone come punto d’incontro di diritto comunitario, diritto nazionale, diritto regionale, nuove e tradizionali autonomie, articolazioni funzionali e gestorie a cavallo tra pubblico e privato, regolazione non scritta dell’autonomia privata a tutela dei nuovi valori fondanti dei nostri giorni.

Accentuano il bisogno di una bussola giurisdizionale il policentrismo e la polifunzionalità degli interessi (pubblici e generalizzanti) in gioco, la fluidità dell’assetto istituzionale di competenze, la sottrazione al controllo preventivo non solo di molti atti amministrativi ma altresì di quelli di rango normativo di nuova e crescente emersione. In tale stato di cose non si tratta di fare ragionieristicamente la somma algebrica e nemmeno di individuare la norma prevalente secondo criteri puramente ermeneutici. Occorre essenzialmente riportare il profluvio di disposizioni a sistema, riordinando la confusa congerie di interessi secondo un asse di orientamento lungo il quale ritrovi la sua polarizzazione un’appropriata coniugazione di interessi pubblici (spesso plurimi ed eterogenei) e privati.

Scavando sotto palazzo Spada si è scoperto che le fondamenta poggiano su resti del tempo dell’antica Roma, che vanno dal II° secolo a. C. all’epoca di Diocleziano. Ecco, il giudice amministrativo, in un quadro complesso, si trova a dover rinvenire la regola del caso concreto in una maniera per qualche verso simile a quello del praetor romano o, se si preferisce, del giudice nell’ordinamento di common law, dirimendo in concreto il giusto dall’ingiusto e indicando al tempo stesso esemplarmente all’Amministrazione il da farsi.

Andando per la prima volta al di là delle conquiste giurisdizionali, anziché limitarsi a recepirle, la legge n. 205 del 2000 ha innestato nevralgicamente l’intervento del giudice amministrativo nel vivo dell’azione amministrativa, configurandolo come incombente, inerente e immanente, rispettivamente nella fase antecedente la promozione del giudizio, nel corso di questo e nel giudizio di ottemperanza. Correlativamente la legge ha voluto la concentrazione nel giudizio di ogni aspetto della vertenza (simultaneus processus) consentendo a tal fine l’impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti sopravvenuti cosicché il giudizio acquisti quanto più possibile spessore sostanziale e concludenza.

Una significativa sentenza del TAR Lazio del gennaio dell’anno scorso (la n. 398) si pone risolutamente su tale strada. All’accelerazione dell’azione amministrativa la legge 205 vuole che corrisponda quella del processo, con riduzione, nelle più importanti materie, dei già ridotti termini processuali, col compattamento delle diversi fasi del giudizio, con le precedenze che si accavallano sulle precedenze.

E’ in grado il giudice amministrativo, con le sue centinaia di unità militanti (laddove ce ne vorrebbero in campo dieci volte tanto), di far fronte alla sfida cui evolutivamente la nuova legge lo chiama? Volenti o no, dobbiamo accettare questa scommessa, una scommessa tutta da giocare / fino alla sua estrema conseguenza.

Come dice Platone (lo dice proprio nelle Leggi), “dal momento che siamo giunti a questo punto, sarà per noi conveniente fare questa cosa come si deve”.

Ecco, noi faremo il nostro dovere, come disse alla vigilia di una battaglia decisiva un famoso ammiraglio avvezzo all’azione più che ai discorsi.

E’ con questo ribadito impegno che dichiaro aperto l’anno giudiziario 2003.

Roma, 23 gennaio 2003

Redazione

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