Autorithy per la Concorrenza e il Mercato
Segnalazione del 13 luglio 2005
“Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni”
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Le questioni affrontate nella segnalazione dell’Antitrust:
I principi generali in materia di professioni
Ai sensi dell’art. 1 c. 4 legge 131/2003, il Governo è delegato ad adottare “uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti” nelle materie di competenza concorrente previste dall’art. 117 c. 3 Costituzione.
Deve dunque trattarsi di attività di mera “ricognizione” (non innovativa) delle sole norme statali che abbiano natura di vero e proprio “principio fondamentale”.
In base a tale previsione, il Governo ha ora elaborato uno schema di decreto legislativo di “ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni”, presentanto alla Conferenza Stato Regioni.
E’ a questo punto che interviene la segnalazione dell’Antitrust, riportata in calce.
La tutela della concorrenza e del mercato secondo il Governo e secondo l’Antitrust
Lo schema di decreto individua tra i principi fondamentali la tutela della concorrenza e del mercato, fornendone -così esordisce l’Antitrust- “una interpretazione che ne stravolge il significato”.
Lo schema di decreto prescrive che “l’esercizio della professione si svolge nel rispetto della disciplina statale della concorrenza, ivi compresa quella delle deroghe consentite dal diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti o per ragioni imperative di interesse generale, della riserva di attività professionale, delle tariffe e dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale”.
Secondo l’Antitrust, non possono affatto ricondursi a principi fondamentali della Costituzione le riserve di attività professionale, le tariffe professionali e le limitazioni alla pubblicità professionale.
La norma esaminata in realtà “enuncia il principio della tutela della concorrenza e, immediatamente dopo, ne contraddice la stessa essenza”.
Ciò in quanto “il corretto dispiegarsi della concorrenza implica la libertà di accesso al mercato ed il libero esercizio dell’attività, soprattutto con riferimento alla possibilità per gli operatori di determinare autonomamente il proprio comportamento concorrenziale.
E’ solo in tal modo che la competitività esplica i suoi effetti benefici a vantaggio dei consumatori/utenti.
L’Antitrust ribadisce i propri precedenti orientamenti, secondo cui dalla fissazione di tariffe inderogabili minime o fisse, deriva che “la qualità non costituisce una variabile che concorre alla determinazione del prezzo e, quindi, non rappresenta né un parametro di riferimento per il cliente/utente che si trova a compiere le proprie scelte sul mercato, né un valido incentivo per il professionista ad offrire servizi qualitativamente migliori di quelli dei propri concorrenti”.
In definitiva, “qualità e tariffe uniformi appaiono essere strumenti in contraddizione tra loro, essendo la prima un elemento di differenziazione, la seconda di omologazione del servizio professionale, a tutto svantaggio degli utenti”.
L’Antitrust ribadisce pure di “non condividere l’atteggiamento di disfavore che ancora circonda l’attività promozionale del libero professionista”.
Viene a tal fine citata la Relazione della Commissione Europea, sulla concorrenza nei servizi professionali, del 9 febbraio 2004, laddove si affermava che “pubblicità assolve la rilevante funzione di colmare parte delle asimmetrie informative che, talora, non consentono all’utente di scegliere con sufficiente cognizione di causa il servizio di cui necessita e di giudicarne la qualità resa. Ne consegue, quindi, che, affinché rivesta utilità informativa, la pubblicità professionale deve poter essere basata su elementi di fatto – prezzi, caratteristiche, risultati”.
Il test di proporzionalità
L’Antitrust italiano ricorda al Governo che la Commissione Europea, nella citata Relazione del 2004, aveva già invitato le autorità di regolamentazione e gli organismi professionali a “verificare la necessarietà/proporzionalità delle esistenti regole restrittive rispetto alle generali esigenze di tutela degli interessi di utenti e professionisti”.
Il diritto comunitario in effetti riconosce la legittimità di “misure restrittive della concorrenza”, ma a condizione che le stesse superino il c.d. “test di proporzionalità”. Detto test di proporzionalità si considera soddisfatto allorché le misure in questione risultino “oggettivamente necessarie” per raggiungere un obiettivo di interesse generale chiaramente articolato e legittimo e costituiscano il meccanismo meno restrittivo della concorrenza idoneo a raggiungere tale obiettivo.
La Sentenza Arduino, Corte di giustizia Ce, del 19 febbraio 2002, C-35/99, sul tariffario forense italiano
La Corte di giustizia si è in quella sede limitata ad affermare l’assenza di delega da parte dello Stato italiano ad operatori privati per lo svolgimento di pubbliche funzioni, ma non si è espresso sulla funzionalità delle tariffe al perseguimento di interessi generali.
Da tale pronuncia giurisprudenziale, pertanto, non è possibile astrarre principi di carattere generale in materia di tariffe estensibili a tutta quelle attività che l’ordinamento nazionale suole riguardare come esplicazione di professioni intellettuali.
Attività professionale = attività d’impresa
Il diritto comunitario non conosce deroghe al principio secondo cui, ai fini antitrust, l’attività professionale, nella misura in cui ha una valenza economica, è attività di impresa, quale che sia la professione intellettuale coinvolta (a prescindere, cioè, dalla natura complessa e tecnica dei servizi forniti e il rango dei valori cui, in alcuni casi, si collega; cfr. le sentenze su medici (Pavlov, 12 settembre 2000, C-180-184/98, punto 77), spedizionieri doganali (Commissione c. Italia, 18 giugno 1998, C-35/96, punto 36), avvocati (Wouters, 19 febbraio 2002, C-309/99, punti 44-49, Arduino, 19 febbraio 2002, C-35/99).
Le regole di deontologia professionale
Il richiamo al rispetto delle “regole di deontologia professionale”, contenuto nello schema di decreto, secondo l’Antitrust è ultroneo, ove si consideri che la stessa norma ha già cura di specificare come l’esercizio delle attività professionali debba svolgersi nel rispetto dei principi di buona fede, affidamento della clientela, correttezza, autonomia e responsabilità.
E’ dunque da censurare “la tendenza a far ricadere nell’ambito della potestà deontologica aspetti spiccatamente regolatori dell’esercizio delle professioni, che nulla hanno a che vedere con le questioni di ordine etico rilevanti per la fiducia dei terzi nelle categorie professionali”.
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Il documento:
Autorithy per la Concorrenza e il Mercato
Segnalazione del 13 luglio 2005
Oggetto: Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni
(L’impatto sulla concorrenza dello schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni attualmente all’esame della Conferenza Stato Regioni)
L’Autorità, nell’esercizio dei poteri di cui all’articolo 22 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, ritiene di dover svolgere alcune considerazioni in relazione agli impatti sulla concorrenza dello schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131, attualmente all’esame della Conferenza Stato Regioni.
Tale schema di decreto si inserisce nell’attività di ricognizione dei vigenti principi fondamentali dell’ordinamento nella materie di competenza concorrente dello Stato e delle Regioni, affidata al Governo dalla citata disposizione di legge in attuazione dell’articolo 117, commi 1 e 3 della Costituzione
In particolare, ai sensi dell’articolo 1, comma 4 della legge 131/2003, il Governo è delegato ad adottare “uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione”, dovendo a tal fine attenersi “ai principi della esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità”.
La stessa disposizione precisa, altresì, che gli organi chiamati ad esprimere il proprio parere sugli schemi di decreto legislativo dovranno esaminarli nell’ottica di verificare “se in essi non siano indicati alcuni dei principi fondamentali ovvero se vi siano disposizioni che abbiano un contenuto innovativo dei principi fondamentali, e non meramente ricognitivo ai sensi del presente comma, ovvero si riferiscano a norme vigenti che non abbiano la natura di principio fondamentale”
In materia di professioni, lo schema di decreto in oggetto individua tra i principi fondamentali la tutela della concorrenza e del mercato, fornendone tuttavia una interpretazione che ne stravolge il significato. In particolare, l’articolo 3, comma 1 di tale schema di decreto prescrive che “l’esercizio della professione si svolge nel rispetto della disciplina statale della concorrenza, ivi compresa quella delle deroghe consentite dal diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti o per ragioni imperative di interesse generale, della riserva di attività professionale, delle tariffe e dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale”.
In via preliminare si osserva che, secondo il principio del primato del diritto comunitario, le norme nazionali con questo configgenti sono inapplicabili a prescindere dal rango (anche costituzionale) che rivestono; l’automatica disapplicazione della norma interna incompatibile incontra il solo limite dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana (Corte di giustizia CE, sentenza 30 ottobre 1975, n. 232; Corte costituzionale sentenze 18 giugno 1979, n. 48 e 8 giugno 1984, n. 170).
Ai principi fondamentali della Costituzione non possono ricondursi le riserve di attività professionale, le tariffe professionali e le limitazioni alla pubblicità professionale.
Per contro, l’interesse pubblico di tutela della concorrenza è espressamente contemplato nella Costituzione italiana e vincola l’operato degli Stati membri dell’Unione europea, i quali, in particolare a far data dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, sono tenuti ad orientare le proprie politiche economiche al rispetto della libera concorrenza
Sotto tale profilo, pertanto, l’articolo 3, comma 1 dello schema di decreto non appare assolvere alla funzione, affidata al Governo dalla legge 131/2003, di effettuare una mera e corretta ricognizione dei principi dell’ordinamento in materia di professioni, né rispondere “ai princìpi della esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità” prescritti dalla legge medesima.
In effetti, detta norma enuncia il principio della tutela della concorrenza e, immediatamente dopo, ne contraddice la stessa essenza.
Il corretto dispiegarsi della concorrenza, infatti, implica la libertà di accesso al mercato ed il libero esercizio dell’attività, soprattutto con riferimento alla possibilità per gli operatori di determinare autonomamente il proprio comportamento concorrenziale.
E’ solo in tal modo che la competitività esplica i suoi effetti benefici a vantaggio dei consumatori/utenti.
In materia di restrizioni all’esercizio dell’attività professionale, l’Autorità ha in più occasioni, sottolineato come dalla fissazione di tariffe inderogabili minime o fisse derivi che la qualità non può costituire una variabile che concorre alla determinazione del prezzo e, quindi, non rappresenta né un parametro di riferimento per il cliente/utente che si trova a compiere le proprie scelte sul mercato, né un valido incentivo per il professionista ad offrire servizi qualitativamente migliori di quelli dei propri concorrenti. In tal senso, pertanto, qualità e tariffe uniformi appaiono essere strumenti in contraddizione tra loro, essendo la prima un elemento di differenziazione, la seconda di omologazione del servizio professionale, a tutto svantaggio degli utenti. L’Autorità ha anche più volte palesato di non condividere l’atteggiamento di disfavore che ancora circonda l’attività promozionale del libero professionista. La pubblicità assolve, infatti, la rilevante funzione di colmare parte delle asimmetrie informative che, talora, non consentono all’utente di scegliere con sufficiente cognizione di causa il servizio di cui necessita e di giudicarne la qualità resa. Ne consegue, quindi, che, affinché rivesta utilità informativa, la pubblicità professionale deve poter essere basata su elementi di fatto – prezzi, caratteristiche, risultati.
Tali aspetti sono stati ampiamente messi in luce dalla Commissione europea nella propria Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali del 9 febbraio 2004 in cui sono dettagliatamente analizzate le restrizioni alla concorrenza che caratterizzano la regolamentazione dei servizi professionali negli Stati membri dell’Unione e che derivano proprio dalla fissazione o raccomandazione dei prezzi, dalle restrizioni all’accesso alla professione e all’attività pubblicitaria, dai regimi di riserva previsti per talune attività, dalle regolamentazioni inerenti l’organizzazione e la struttura aziendale dell’attività.
Si tratta, nel complesso, di restrizioni che l’Autorità antitrust italiana aveva già avuto modo di individuare, con riguardo all’Italia, nell’ambito della propria indagine conoscitiva del 1997.
Nella medesima Relazione, la Commissione europea evidenzia come il diritto comunitario riconosca la legittimità delle sole misure restrittive della concorrenza che superano il c.d. test di proporzionalità. Detto test di proporzionalità si considera soddisfatto allorché le misure in questione risultino oggettivamente necessarie per raggiungere un obiettivo di interesse generale chiaramente articolato e legittimo e costituiscano il meccanismo meno restrittivo della concorrenza idoneo a raggiungere tale obiettivo.
Nel prendere atto delle specificità dei servizi professionali, nella citata Relazione, la Commissione auspica che la revisione complessiva della regolamentazione dei singoli Stati membri in materia di servizi professionali avvenga ad opera di interventi volontari dei soggetti responsabili delle restrizioni esistenti (segnatamente, le autorità di regolamentazione e gli organismi professionali), invitando detti soggetti a verificare la necessarietà/proporzionalità delle esistenti regole restrittive rispetto alle esigenze di tutela degli interessi di utenti e professionisti.
In altri termini, il diritto comunitario ammette deroghe all’applicazione dei principi antitrust solo con riguardo al singolo caso concreto e nella misura in cui ne risulti accertata l’effettiva funzionalità alla tutela di interessi generali sulla scorta del test di proporzionalità. In questa prospettiva, l’Autorità sente il dovere di chiarire la portata della sentenza C-35/9999 [Sentenza Arduino, Corte di giustizia Ce, 19 febbraio 2002, C-35/99.], citata nella relazione di accompagnamento allo schema di decreto, con cui la Corte di giustizia comunitaria si è pronunciata, in sede pregiudiziale, sulla imputabilità allo Stato italiano del tariffario forense.
Quella sentenza, infatti, si è limitata ad affermare l’assenza di delega da parte dello Stato italiano ad operatori privati per lo svolgimento di pubbliche funzioni. In pratica, il giudice comunitario non si è espresso sulla funzionalità delle tariffe al perseguimento di interessi generali. Da tale pronuncia giurisprudenziale, pertanto, non è possibile astrarre principi di carattere generale in materia di tariffe estensibili a tutta quelle attività che l’ordinamento nazionale suole riguardare come esplicazione di professioni intellettuali.
Si aggiunga che il diritto comunitario non conosce deroghe al principio secondo cui, ai fini antitrust, l’attività professionale, nella misura in cui ha una valenza economica, è attività di impresa, quale che sia la professione intellettuale coinvolta (a prescindere, cioè, dalla natura complessa e tecnica dei servizi forniti e il rango dei valori cui, in alcuni casi, si collega; cfr. le sentenze su medici (Pavlov, 12 settembre 2000, C-180-184/98, punto 77), spedizionieri doganali (Commissione c. Italia, 18 giugno 1998, C-35/96, punto 36), avvocati (Wouters, 19 febbraio 2002, C-309/99, punti 44-49, Arduino, 19 febbraio 2002, C-35/99).
In questo senso, pertanto, la non meglio qualificata “normativa in materia di professioni intellettuali”, di cui all’articolo 3, comma 2 dello schema di decreto, si porrebbe in netto contrasto con il consolidato orientamento comunitario (ai sensi di tale disposizione, “L’attività professionale esercitata in forma di lavoro autonomo è equiparata all’attività d’impresa ai fini della concorrenza di cui agli articolo 81, 82, e 86, ex articoli 85, 86 e 90, del Trattato Ce, salvo quanto previsto dalla normativa in materia di professioni intellettuali”).
L’Autorità ritiene, inoltre, che ai professionisti iscritti alle associazioni che hanno ottenuto il riconoscimento a livello regionale, di cui all’articolo 2, comma 4 dello schema di decreto, dovrebbe essere consentito di far valere l’appartenenza all’associazione anche al di fuori del relativo ambito regionale. Sotto tale profilo, quindi, al fine di scongiurare la creazione di ingiustificate barriere territoriali, sarebbe preferibile che lo schema di decreto individuasse i principi cui tutte le Regioni dovrebbero attenersi in sede di riconoscimento delle associazioni costituite da professionisti.
Sempre in merito alle competenze delle Regioni, l’Autorità richiama l’attenzione sul fatto che i titoli professionali, previsti dall’articolo 4, comma 5 dello schema di decreto, devono essere rilasciati dalle Regioni nel rispetto dei principi di concorrenza, nel senso che la valenza abilitativa agli stessi attribuiti non deve in alcun modo prestarsi ad introdurre nuove ed ingiustificate esclusive. Sul punto, si è più volte segnalato come sarebbe piuttosto opportuno rivisitare l’attribuzione delle attuali riserve, nel convincimento che alcune di esse non appaiono più appropriate a soddisfare le esigenze dei fruitori della prestazione. In svariati settori professionali, infatti, molte attività hanno subito un processo di standardizzazione e, ciononostante, restano coperte da riserva, in quanto asseritamene supportate da necessità di interesse pubblico, che tuttavia non vengono specificamente identificate.
Da ultimo, si osserva che il richiamo al rispetto delle “regole di deontologia professionale”, di cui all’articolo 5, comma 1 dello schema di decreto, appare ultroneo, ove si consideri che la stessa norma ha già cura di specificare come l’esercizio delle attività professionali debba svolgersi nel rispetto dei principi di buona fede, affidamento della clientela, correttezza, autonomia e responsabilità. Detto richiamo, in altri termini, rischia di legittimare la tendenza a far ricadere nell’ambito della potestà deontologica aspetti spiccatamente regolatori dell’esercizio delle professioni, che nulla hanno a che vedere con le questioni di ordine etico rilevanti per la fiducia dei terzi nelle categorie professionali. Gli ordini rappresentativi della categoria dovrebbero piuttosto incentrare i propri sforzi sulla promozione della formazione continua, al fine di garantire l’aggiornamento delle conoscenze dei professionisti, a vantaggio degli utenti (sul punto, invece, la relazione allo schema di decreto rilava come la valorizzazione dell’aggiornamento professionale permanente, pur costituendo un obiettivo condivisibile, non costituirebbe allo stato un principio consolidato).
In conclusione, preme rilevare che l’Autorità, nell’esercizio del proprio compito istituzionale di perseguire l’interesse pubblico di tutela della concorrenza, ritiene doveroso dare il proprio contributo alla corretta definizione di tale principio fondamentale. Per tale motivo, l’Autorità confida che, in sede di esame dello schema di decreto legislativo in questione, gli organi in indirizzo tengano conto delle considerazioni di ordine concorrenziale sopra rappresentate.