Giudizi in via principale e Conflitti di attribuzione
"La Corte Costituzionale ha affrontato, nella sentenza n. 386, il
tema dei rapporti tra il giudizio per conflitto di attribuzione ed il giudizio
di legittimità costituzionale
in via principale. In quel caso, il ricorso per conflitto di attribuzione poneva
alcune questioni che erano oggetto anche di ricorso in via principale. Ora, la
circostanza che un conflitto di attribuzioni sia sollevato nei confronti di un
provvedimento
amministrativo contestualmente
al ricorso proposto in via principale avverso un atto avente forza di legge non è,
di per sé, ostativa all’esame nel merito del conflitto, purché il
soggetto che lo solleva lamenti che la menomazione delle sue attribuzioni è autonomamente
imputabile al provvedimento impugnato, e non già a questo quale mero e
puntuale provvedimento attuativo ed esecutivo della norma censurata di incostituzionalità, dovendosi
escludere che il conflitto di attribuzione costituisca sede idonea per lamentare
l’illegittimità costituzionale
di leggi delle quali il provvedimento amministrativo costituisce applicazione.
Quest’ultima affermazione vale ad escludere
che il ricorso per conflitto di attribuzioni si risolva, da un lato,
in strumento attraverso il quale si eluderebbero i termini perentori previsti
per promuovere in via principale le questioni di legittimità costituzionale
di leggi regionali o statali e, dall’altro lato, in mezzo utilizzabile
per sottrarre al giudice a quo il potere-dovere di sollevare in via incidentale
la questione di legittimità costituzionale dell’atto avente forza
di legge, sul quale si fonda il provvedimento davanti ad esso giudice impugnato".
. . . . .
Corte Costituzionale
Giurisprudenza Costituzionale 2005
Dalla relazione introduttiva di Annibale Marini, presidente della Corte Costituzionale,
in
occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario 2006, riportiamo
alcuni passi relativi all’analisi dell’attività giurisprudenziale svolta
nell’anno
2005 dalla Consulta:
(…)
"Il giudizio in via principale
1. Premessa
Nel corso del 2005, per la prima volta dal 1988 la Corte ha superato
la quota simbolica – ma assai significativa – di cento decisioni
rese in un anno in sede di giudizio in via principale.
(…)
2. Il ricorso
Con riferimento ai problemi connessi al ricorso con cui vengono sollevate le
questioni di legittimità costituzionale, di particolare interesse sono
le affermazioni concernenti la notifica ed il deposito, il rapporto tra il
ricorso e la delibera del Governo o della Giunta regionale contenente la determinazione
all’impugnazione ed i contenuti che del ricorso sono propri.
2.1. La notifica, il deposito ed i termini per ricorrere
Per quel che attiene alla disciplina del procedimento di impugnazione delle
leggi ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, un primo profilo che è venuto
in evidenza riguarda la notifica del ricorso.
La sentenza n. 344 ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso
regionale che era stato notificato dapprima presso l’Avvocatura generale
dello Stato e, successivamente, al Presidente del Consiglio dei ministri. Delle
due notifiche, soltanto la prima era intervenuta entro il termine di sessanta
giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato. La Corte, rifacendosi
alla sua «costante giurisprudenza», ha evidenziato che «ai
giudizi costituzionali non si applicano le norme sulla rappresentanza dello
Stato in giudizio previste dall’art. 1 della legge 25 marzo 1958, n.
260 e dalla legge 3 aprile 1979, n. 103», con la conseguenza che «per
la rituale proposizione del giudizio l’atto deve essere notificato presso
la sede del Presidente del Consiglio dei ministri». Nel caso concreto,
la Corte non ha rinvenuto ragioni per discostarsi da questo orientamento, «dato
che la parte ricorrente non ha prospettato argomenti nuovi, anche per quanto
concerne la statuizione che l’irritualità della notificazione
non può essere sanata dalla costituzione in giudizio della Presidenza
del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello
Stato, quando tale costituzione sia avvenuta, come nel caso di specie, proprio
per eccepire la predetta inammissibilità».
Diversa è stata la decisione sul caso prospettatosi nel giudizio concluso
con la sentenza n. 383, dove uno dei ricorsi avverso un atto legislativo statale
risultava, sì, notificato al Presidente del Consiglio dei ministri presso
la Presidenza del Consiglio oltre il termine perentorio di sessanta giorni
di cui all’art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ma «a
motivo della documentata impossibilità del destinatario a ricevere l’atto
nei termini (24 dicembre 2003), per la chiusura dell’Ufficio protocollo
della Presidenza del Consiglio», mentre risultava notificato nei termini
presso l’Avvocatura dello Stato. Nella fattispecie, il ricorso è stato
considerato ammissibile «in forza dell’orientamento della più recente
giurisprudenza costituzionale […], che ha affermato il principio di scissione
fra il momento in cui la notificazione deve intendersi perfezionata nei confronti
del notificante – e che coincide con il momento della consegna dell’atto
all’ufficiale giudiziario – rispetto al momento in cui essa si
perfeziona per il destinatario dell’atto».
L’ordinanza n. 20 ha avuto ad oggetto il diverso problema della tardività del
deposito del ricorso. In tal caso, l’esame del merito del ricorso è stato
dichiarato precluso dalla circostanza che il ricorso medesimo fosse stato depositato
presso la cancelleria della Corte costituzionale oltre il termine di
dieci giorni dalla notifica (art. 31, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del
1953), termine da ritenersi, secondo costante giurisprudenza, perentorio.
Sempre connesse ai tempi dell’impugnazione, sia pure in un’ottica
più generale, sono quelle statuizioni nelle quali la Corte ha affrontato
il tema della tardività del ricorso derivante dall’avvenuta impugnazione
soltanto dopo l’entrata in vigore della legge di conversione, e non del
decreto legge convertito. Avverso eccezioni formulate in questi termini, si è sottolineato
come la giurisprudenza della Corte sia «costante nel riconoscere la tempestività della
impugnazione dei decreti legge dopo la loro conversione, che ne stabilizza
la presenza nell’ordinamento» (sentenze numeri 62 e 383).
2.2. I rapporti tra il ricorso e la delibera recante la determinazione
all’impugnazione
Con riferimento all’incidenza che ha la deliberazione con cui l’ente
statuale, regionale o provinciale si determina all’impugnazione, può constatarsi
come, in varie occasioni, la Corte costituzionale abbia operato una valutazione
diretta a verificare la corrispondenza tra l’intento dell’organo
politico ed il ricorso redatto dalla difesa tecnica. Così, nella sentenza
n. 95, si è evidenziato – onde delimitare l’oggetto del
giudizio – che, benché nell’epigrafe del ricorso proposto
dal Presidente del Consiglio avverso la legge della regionale si facesse generico
riferimento all’intera legge, «dalla motivazione e dalle conclusioni
del ricorso emerge[va] chiaramente che la questione di legittimità costituzionale
[era] limitata al solo art. 1, e ciò peraltro conformemente a quanto
risulta[va] dalla relazione del Ministro per gli affari regionali allegata
alla delibera del Consiglio dei ministri che [aveva] deciso l’impugnativa
della legge regionale in questione.
Questa impostazione ha trovato conferma in altre decisioni, tra cui la sentenza
n. 106, in cui la Corte ha precisato che «l’oggetto dell’impugnazione è definito
dal ricorso in conformità alla decisione assunta dal Governo»,
e dunque «l’ambito delle censure sottoposte validamente all’esame
della Corte risulta in tal modo limitato alle sole disposizioni
indicate nella deliberazione assunta dal Consiglio dei ministri, ferma restando la valutazione
in ordine all’eventuale nesso di inscindibilità fra la disposizione
validamente impugnata e le altre disposizioni della legge, non investite da
autonome censure ritualmente proposte».
In applicazione di siffatto principio, nella sentenza medesima si è circoscritto
l’oggetto del ricorso ai soli articoli di cui si proponeva l’impugnazione
nella relazione del Ministro per gli affari regionali, la cui proposta risultava
approvata nella riunione del Consiglio dei ministri in cui era stata deliberata
l’impugnazione della legge provinciale.
La relazione del Ministro per gli affari regionali assume, in effetti, un valore
generalmente definitorio dei limiti dell’impugnazione deliberata dal
Consiglio dei ministri. In tal senso, nella sentenza n. 150, preso atto che «la
generica previsione contenuta nella deliberazione del Consiglio dei Ministri
di impugnare la legge [era] specificata dall’allegata relazione ministeriale
con riferimento esclusivo all’art. 2» di una delle leggi regionali
oggetto del giudizio, si è concluso che il ricorso dovesse essere ritenuto «validamente
proposto solo nei confronti dell’art. 2 della legge della Regione Marche
n. 5 del 2004».
Ed ancora, nel giudizio concluso con la sentenza n. 360, si è evidenziato
che la delibera del Consiglio dei ministri conteneva la generica determinazione
di impugnare «la legge della Regione Emilia-Romagna 24 giugno 2002, n.
12», ma, al contempo, poiché la relazione del Dipartimento affari
regionali, sulla cui base il Consiglio dei ministri aveva deciso di impugnare,
censurava espressamente solo alcuni articoli di essa, l’esame delle doglianze
svolte nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri si doveva limitare
a quelle relative a tali articoli (in termini analoghi la Corte si è espressa
anche nelle sentenze numeri 300 e 393, nonché, sostanzialmente, nell’ordinanza
n. 428; nella sentenza n. 391, la delimitazione oggettiva ha riguardato la
reductio dell’impugnazione da un intero articolo ad un solo comma dello
stesso).
L’importanza che la deliberazione del Consiglio dei ministri (o della
Giunta regionale o provinciale) assume ai fini dell’individuazione del
thema decidendum giustifica anche il vaglio della Corte in ordine alla sua
sufficiente determinatezza (vaglio per consentire il quale la Corte è giunta
anche a richiedere con ordinanza istruttoria il deposito di copia della relazione
allegata al verbale della riunione del Consiglio dei ministri, che non risultava
prodotta in giudizio: sentenza n. 321). A tal proposito, vengono in rilievo
le statuizioni di cui alle sentenze numeri 50 e 384. Nella prima, si è dichiarata
la inammissibilità del ricorso regionale della Regione Toscana, per
la genericità della delibera della Giunta regionale, di autorizzazione
al Presidente a proporre il ricorso, che ometteva di indicare specificamente
le disposizioni da impugnare e le ragioni della impugnativa e si limitava ad
affermare che la legge statale oggetto del giudizio appariva «in più parti
invasiva delle competenze attribuite alla Regione dagli articoli 117 e 118
della Costituzione». A suffragio della decisione, si è rilevato
che la delibera di autorizzazione al ricorso di cui all’art. 127 Costituzione «può concernere
l’intera legge soltanto qualora quest’ultima abbia un contenuto
omogeneo e le censure siano formulate in modo tale da non ingenerare dubbi
sull’oggetto e le ragioni dell’impugnativa». Nella seconda
decisione, avente ad oggetto il medesimo ricorso regionale, si ribadiva quanto
in precedenza affermato (nella sentenza n. 120, invece, la Corte non si è pronunciata,
constatata l’infondatezza delle questioni proposte ,sulla «dubbia
ammissibilità della censura sotto il profilo della sua conformità alla
delibera di impugnazione del Consiglio dei ministri»).
2.3. I contenuti del ricorso
La giurisprudenza costituzionale del 2005 mostra una costante attenzione della
Corte nei confronti dei contenuti del ricorso, e segnatamente della idoneità dello
stesso a radicare questioni di costituzionalità che siano sufficientemente
precisate ed adeguatamente motivate.
Una siffatta attenzione è ben rappresentata dalla sentenza n. 450, in
cui la Corte ha sottolineato: «è principio consolidato nella giurisprudenza
di questa Corte quello per cui il ricorso in via principale non solo “deve
identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi”, indicando “le
norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o
incompatibilità costituisce l’oggetto della questione di costituzionalità” (ex
plurimis, sentenze n. 360 del 2005, n. 213 del 2003 e n. 384 del 1999), ma
deve, altresì, “contenere una seppur sintetica argomentazione
di merito, a sostegno della richiesta declaratoria d’incostituzionalità della
legge” (si vedano, oltre alle pronunce già citate, anche le sentenze
n. 261 del 1995 e n. 85 del 1990). Ed invero, l’esigenza di una adeguata
motivazione a sostegno della impugnativa si pone – come precisato dalla
sentenza n. 384 del 1999 – “in termini perfino più pregnanti
nei giudizi diretti che non in quelli incidentali, nei quali il giudice rimettente
non assume propriamente il ruolo di un ricorrente e al quale si richiede, quanto
al merito della questione di costituzionalità che esso solleva, una
valutazione limitata alla ‘non manifesta infondatezza’”».
Alla luce di tali principî, espressamente o implicitamente confermati
in molte decisioni, la Corte ha censurato le carenze riscontrate ne (a) l’individuazione
delle norme oggetto delle questioni e delle norme di raffronto e ne (b) la
motivazione delle censure.
a) Avendo riguardo ai termini delle questioni, possono evidenziarsi alcuni
casi in cui il ricorso omette di individuare i parametri di giudizio o, più frequentemente,
sia inficiato da una loro erronea indicazione.
Nel primo senso, può citarsi la sentenza n. 202, che reca una decisione
di inammissibilità basata sulla omessa deduzione di norme parametro
rilevanti nella materia in questione.
Un caso in parte analogo è quello di cui alla ordinanza n. 428, che
ha deciso un ricorso evidentemente incompleto relativamente ai parametri invocati:
la Corte ha, infatti, evidenziato come «non po[tessero] trovare ingresso
le deduzioni difensive dell’Avvocatura dello Stato circa la violazione,
da parte della Regione, con l’impugnata legge, delle norme costituzionali
sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni nella materia “pesi
e misure”, in quanto formulate, per la prima volta, in sede di discussione
orale, e pertanto estranee al thema decidendum fissato nel ricorso introduttivo».
In varie occasioni, la Corte ha escluso l’ammissibilità di questioni
di legittimità costituzionale sollevate in via principale dal Presidente
del Consiglio dei ministri nei confronti di leggi di Regioni a statuto speciale
o delle Province autonome allorché il ricorso faceva esclusivo riferimento
ad articoli del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, senza evocare
a parametro le corrispondenti disposizioni statutarie (sentenze numeri 65,
202, 203 e 304). Peraltro, in taluni casi, tale carenza non ha avuto riflessi
di tipo processuali, se non altro perché il ricorso introduttivo, «oltre
a rivendicare, in base alle disposizioni del Titolo V della Costituzione, la
competenza statale nella materia disciplinata dalla legge provinciale, lamenta[va]
che le norme impugnate non rinven[issero] alcun titolo legittimante nello statuto
speciale di autonomia» (sentenza n. 431).
Relativamente alla erroneità dell’indicazione delle norme di raffronto,
la Corte ha censurato i richiami a norme costituzionali inconferenti con la
materia trattata nel giudizio (ex plurimis, sentenza n. 467, nonché la
sentenza n. 456, che ha escluso – in consonanza con quanto stabilito,
in sede di giudizio in via incidentale, con la sentenza n. 244 – che
possano riferirsi alle comunità montane le attribuzioni costituzionali
delle Regioni o degli enti locali) e la «evidente erronea indicazione
delle norme interposte» da cui veniva dedotta la illegittimità delle
disposizioni legislative impugnate (sentenza n. 150).
In ordine all’oggetto del giudizio, il difetto di individuazione è stato
talvolta ricavato dalla circostanza che venisse impugnato un atto legislativo
nel suo complesso, specie allorché, invece, la delibera governativa
(o giuntale) facesse riferimento soltanto ad alcuni articoli o ad alcune disposizioni
(v. supra, par. precedente). Come è chiaro, quando la legge rechi un
contenuto omogeneo (come, ad esempio, nei casi di cui alle sentenze numeri
62 e 159) l’impugnazione della sua totalità non trova alcun ostacolo.
L’esigenza che i termini delle questioni siano adeguatamente determinati
non si traduce, peraltro, in una attitudine censoria della Corte costituzionale,
la quale procede, nei limiti del possibile, alla precisazione del thema decidendum,
quando esso presenta elementi di vaghezza. Così, nella sentenza n. 203,
si è pervenuti a «dare un coerente significato alla impugnazione» analizzando
l’articolo di legge impugnato e constatando, alla luce della pluralità di
contenuti che esso recava, che l’intentio impugnatoria del ricorrente
doveva essere ricondotta soltanto ad una parte di essi (una ridefinizione analoga
della questione è contenuta anche nella sentenza n. 407). Del pari,
nella sentenza n. 26, sebbene nelle conclusioni del ricorso si chiedesse la
caducazione per illegittimità costituzionale degli articoli censurati
nella loro totalità, la circostanza che gli articoli medesimi avessero
una sfera soggettiva di applicazione molto vasta, relativa a tutte le pubbliche
amministrazioni, imponeva una circoscrizione dell’ambito oggettivo dell’impugnazione
veicolata dal parametro evocato – l’art. 117, comma secondo, lettera
g), della Costituzione –, in ragione del quale ad essere censurata doveva
intendersi semplicemente l’applicabilità degli articoli impugnati
alle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici nazionali.
Nell’ambito di siffatti poteri della Corte rientra anche la «correzione» dell’individuazione
dei termini della questione, sempreché essa sia inequivocabilmente ricavabile
dal contesto del ricorso. Se ne ha un esempio con la sentenza n. 304, in cui
si è rilevato che, quanto ad alcune delle questioni concernenti «l’art.
38, comma 3», della legge provinciale impugnata, il ricorrente aveva
fatto erroneo riferimento «ad una disposizione che formalmente non esiste[va],
dal momento che l’art. 38 citato [era] costituito da un unico comma» che
dispone l’inserimento di un articolo all’interno di un’altra
legge «e che solo quest’ultimo articolo, in realtà, contempla[va]
un comma 3 peraltro corrispondente in tutto e per tutto alla norma censurata
dal ricorrente». In virtù di tale «piena corrispondenza»,
il ricorso è stato, comunque, per tale profilo, ritenuto ammissibile
e riferito correttamente all’art. 38 della legge impugnata «nella
parte in cui» introduceva l’articolo recante il comma 3 oggetto
di censure.
b) Per quel che concerne le carenze che inficiano la motivazione, a precludere
un esame del merito delle questioni sono state l’insufficienza (sentenza
n. 151), la «genericità ed apoditticità» (sentenza
n. 205), la non adeguatezza della motivazione (sentenza n. 462) o il suo limitarsi
alla semplice invocazione delle norme parametro (sentenza n. 65), alla stessa
stregua della carenza di specifici motivi (sentenza n. 417) o della mancata
specificazione delle censure (sentenza n. 272).
Lo scrutinio inerente a queste carenze viene operato sul piano sostanziale,
più che formale, come prova la sentenza n. 323, in cui si è rilevato
che «al di là della copiosa e mera evocazione di parametri, l’unica
motivazione del ricorso consiste[va] in un asserito contrasto tra la norma
[provinciale] impugnata e l’art. 4 della legge statale n. 124 del 1999
[…] senza peraltro che [fosse] neppure precisato sotto quale profilo
siffatto contrasto tra legge provinciale e legge statale si traduc[esse] in
un vizio di legittimità costituzionale della prima», dal che derivava «la
sostanziale elusione dell’onere di allegazione gravante sul ricorrente
nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale».
L’onere di motivazione, valutato in senso sostanziale, rende inammissibili
anche quei ricorsi nei quali le argomentazioni si rivelino contraddittorie,
come nel caso della sentenza n. 462, dove si è evidenziata la natura «intrinsecamente
contraddittoria» della censura, «perché il ricorrente, da
un lato, nel denunciare la violazione dell’evocato parametro costituzionale,
afferma[va] la competenza esclusiva dello Stato a legiferare nella [dedotta]
materia e, dall’altro, nel denunciare l’omessa disciplina del termine
di prescrizione da parte del legislatore regionale, presuppone[va] invece la
competenza legislativa della Regione, che prima aveva negato».
Lungi dal potersi ritenere contraddittorie, e dunque pienamente ammissibili,
sono le questioni subordinate (sentenze numeri 26, 162, 234, 270, 279, 285,
319 e 383) o le questioni che presentino profili di illegittimità costituzionale
in via gradata (sentenze numeri 51, 77, 205, 234, 321 e 467, ed ordinanza n.
349) : è ben possibile contestare la legittimità costituzionale
di una norma di legge contemporaneamente alla luce di diversi parametri, «sia
che si faccia valere un rapporto gradato tra i due presunti vizi, sia anche
che si sostenga […] la contemporanea incidenza su più profili
di una singola disposizione legislativa»; in tali evenienze, non si ravvisano
dunque «elementi di perplessità o contraddittorietà che
possano sostenere una pronuncia di inammissibilità del ricorso» (sentenza
n. 467).
Parimenti ammissibili sono le questioni proposte in
via «cautelativa»: la finalità interpretativa, o «cautelativa», della questione
non incide, infatti, sull’ammissibilità della questione medesima,
in quanto, per giurisprudenza costante, «a differenza del giudizio
in via incidentale, il giudizio in via principale può ben concernere
questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente
come possibili,
soprattutto nei casi in cui […] sulla legge non si siano ancora formate
prassi interpretative in grado di modellare o restringere il raggio delle sue
astratte potenzialità applicative e le interpretazioni addotte dal ricorrente
non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate,
così da far ritenere le questioni del tutto astratte o pretestuose» (così,
testualmente, la sentenza n. 249, ma nel medesimo senso è anche la sentenza
n. 449).
Pur in un quadro tendenzialmente improntato ad un certo rigore, sufficiente
ai fini di una pronuncia sul merito dell’impugnazione è che «il
ricorso, sebbene succintamente argomentato, [sia] chiaro e determinato e non
[lasci] dubbi sull’oggetto della contestazione» (sentenza n. 159):
in quest’ottica, la Corte ha sovente respinto eccezioni – statali
o regionali – dirette a denunciare la non adeguatezza della motivazione
(sentenze numeri 77, 108, 159, 335 e 387). Soltanto quando siffatti requisiti
minimi sussistano all’interno dell’atto introduttivo del giudizio,
si può ammettere che successive memorie provvedano ad ulteriori specificazioni
(sentenza n. 406).
La essenzialità della motivazione si apprezza anche con riferimento
alle argomentazioni poste a sostegno dell’individuazione di una determinata
norma oggetto o di una norma parametro.
In tal senso, non mancano decisioni che censurano la genericità delle
motivazioni dedotte al fine di giustificare la individuazione di una disposizione
come affetta da vizio di incostituzionalità (sentenze numeri 37, 279,
336 e 450) e ciò, a maggior ragione, quando la disposizione sia indicata
come oggetto di questione soltanto nell’epigrafe del ricorso, senza essere
ripresa nella sua parte motiva (sentenza n. 384).
Al pari di quanto riscontrabile per le disposizioni oggetto, anche sulla scelta
dei parametri è indefettibile una motivazione ad hoc, con il che uno
scrutinio di merito risulta precluso quando le argomentazioni a tal riguardo
si appalesino generiche (sentenza n. 50) o siano addirittura, del tutto o per
l’essenziale, omesse (sentenze numeri 202, 203, 304, 321, 335 e 383).
3. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale
In merito agli atti che sono stati oggetto di ricorso in via principale, non
constano, nella giurisprudenza del 2005, particolari novità. Le tipologie,
per l’essenziale costituite da atti legislativi statali e leggi regionali,
conoscono alcune peculiarità in relazione a determinati giudizi, e segnatamente
quelli di cui all’art. 123 della Costituzione, il cui oggetto è la
delibera statutaria di una Regione a statuto ordinario (ordinanza n. 353, nonché – salvo
quanto si dirà infra, par. 9 –, sentenza n. 469), e quelli previsti
dall’art. 28 dello Statuto della Regione Siciliana (ordinanze numeri
103, 69, 293 e 403).
(…)
4. Il parametro di costituzionalità
Nel corso del 2005, la Corte ha chiuso definitivamente il contenzioso instaurato
antecedentemente alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione
(sentenze numeri 33 e 272, ed ordinanza n. 349). In questi casi, lo scrutinio
di costituzionalità è stato effettuato «avendo riguardo
ai parametri costituzionali vigenti alla data di emanazione degli atti legislativi
impugnati e, quindi, alla loro formulazione anteriore alla riforma di cui alla
[…] legge costituzionale» n. 3 del 2001 (sentenza n. 272; analogamente,
sentenza n. 33).
Con riferimento ai parametri invocabili, molteplici decisioni hanno affrontato
questioni in cui l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 era
invocato come parametro (sentenze numeri 35, 50, 62, 145, 201, 234, 279, 378,
383 e 384). La portata di tale disposizione, confermando precedenti statuzioni, è stata
ricostruita tenendo conto che le disposizioni della legge costituzionale modificativa
del Titolo V della Costituzione si applicano alle Regioni ed alle Province
autonome, ai sensi dell’art. 10 della stessa legge costituzionale, solo «per
le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle
già attribuite», con il che «deve necessariamente escludersi
che le disposizioni della suddetta legge costituzionale possano comportare
limitazioni alla sfera di competenza legislativa già attribuita [alle
Regioni speciali o alle Province autonome] per effetto dello statuto di autonomia».
Circa la portata dell’art. 10, merita un cenno anche la sentenza n. 279,
nella quale si è disattesa la eccezione di inammissibilità proposta
dalla difesa erariale, motivata sull’assunto che «le Regioni a
statuto speciale godrebbero, in virtù della norma citata, di una tutela
solo riflessa e derivata da quella spettante alle regioni ordinarie, con la
conseguenza che non potrebbero reagire con autonomo ricorso principale alla
eventuale violazione delle maggiori autonomie anche ad esse riconosciute dalla
novella costituzionale». La perentoria replica della Corte è stata
nel senso che il tenore dell’art. 10 è tale «da non lasciare
alcun dubbio circa la volontà del legislatore costituzionale di estendere
in via diretta alle Regioni a statuto speciale le maggiori autonomie riconosciute
alle Regioni a statuto ordinario, senza alcuna limitazione quanto alle forme
di tutela».
Per quel che concerne l’invocabilità di norme parametro che risultino
abrogate, la sentenza n. 388 ha stabilito che qualora l’abrogazione di
tali norme (nella fattispecie, trattavasi di una norma interposta) sia avvenuta
successivamente alla proposizione del ricorso, essa deve ritenersi ininfluente
sul giudizio in corso.
Tra tutte, la decisione probabilmente più innovativa, è comunque
la sentenza n. 406, nella quale, per la prima volta, la Corte ha fatto impiego
esplicito dell’art. 117, primo comma, della Costituzione come parametro
nei confronti di disposizioni legislative (regionali) contrastanti con i «vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario».
(…)
5. L’interesse a ricorrere
Molteplici sono le decisioni che hanno avuto riguardo all’interesse a
ricorrere, analizzato sotto molteplici profili. Operando una schematizzazione
dell’ampia giurisprudenza rintracciabile, possono distinguersi tre ambiti,
relativi a (a) i parametri invocabili, a (b) le vicende incidenti sul persistere
dell’interesse ed a (c) i casi che potrebbero definirsi di «sostituzione
processuale».
a) Come noto, la configurazione del giudizio in via principale – sia
prima che dopo la riforma del Titolo V – si presenta in forme parzialmente
diverse a seconda che a ricorrere sia lo Stato ovvero una Regione o una Provincia
autonoma.
Quando il giudizio è radicato a seguito di un ricorso statale, le questioni
di legittimità costituzionale non debbono necessariamente essere costruite
come conflitti competenziali, ben potendo avere ad oggetto la violazione di
parametri costituzionali estranei a quelli che regolano i rapporti tra Stato
e Regioni. Ed effettivamente non mancano i casi in cui la Corte è stata
chiamata a giudicare di asserite lesioni di parametri riconducibili al Titolo
V della Parte seconda della Costituzione unitamente a quelle di parametri altri
(ex plurimis, sentenze numeri 173, 407 e 465). In taluni casi, il thema decidendum
era addirittura integralmente estraneo alla logica rivendicativa di competenza,
giacché se è vero che «lo Stato può impugnare le
leggi regionali in via principale deducendo come parametro qualsiasi norma
costituzionale, pur se estranea al riparto delle competenze legislative» (sentenza
n. 277), si giustifica la circostanza che lo Stato, in sede di impugnazione,
non deduca alcuna ragione di incompetenza (in tal senso, oltre alla sentenza
n. 277, anche la sentenza n. 190).
Tali rilievi non valgono per il caso in cui a proporre ricorso sia
una Regione (sentenze numeri 30, 36, 37, 50, 64, 107, 270, 272, 285 e 383), nella misura
in cui la logica competenziale è l’unica che possa trovare cittadinanza,
e ciò anche se, in certa misura, anche parametri tendenzialmente estranei
a questa logica posso venire invocati. La Corte ha, infatti, più volte
chiarito che «le Regioni sono legittimate a denunciare la violazione
di norme costituzionali non attinenti al riparto di competenze con lo Stato
solo quando tale violazione abbia un’incidenza diretta o indiretta sulle
competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni stesse», di talché la
pronuncia di inammissibilità non può derivare automaticamente
dal tipo di parametro invocato, bensì dalla circostanza che nella prospettazione
non si evidenzi alcuna incisione, «diretta o indiretta», delle
competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni ricorrenti (così la
sentenza n. 285; sul punto, tuttavia, si riscontra una copiosa giurisprudenza,
in ordine alla quale possono segnalarsi anche le inammissibilità di
cui alle sentenze numeri 36, 50, 270, 383 e 384).
b) Relativamente alle vicende che incidono sul persistere dell’interesse
al ricorso ed alla decisione, sono molteplici le affermazioni che si connettono
alla modifica ed all’abrogazione delle disposizioni oggetto del giudizio.
L’abrogazione della disposizione conduce ad una cessazione della materia
del contendere soltanto quando la disposizione abrogata non abbia avuto medio
tempore attuazione (sentenza n. 407 ed ordinanza n. 477), nel caso contrario
potendosi constatare la persistenza dell’interesse alla pronuncia di
merito (sentenza n. 203). Analogamente, l’intervenuta conversione in
legge di un decreto legge non fa venir meno l’interesse ad una pronuncia
su disposizioni del medesimo: in tal senso, nella sentenza n. 378, si è escluso
che il sopravvenire della legge di conversione, con le sostanziali modifiche
apportate al testo originario della disposizione impugnata, avesse fatto venir
meno l’interesse alla decisione del ricorso, dal momento che la legge
di conversione – facendo salvi gli effetti degli atti compiuti nelle
more del procedimento legislativo di conversione – aveva conferito piena
vigenza al testo originario della disposizione del decreto legge.
Caso affatto peculiare è quello delle delibere legislative siciliane
promulgate parzialmente – con omissione delle disposizioni impugnate – nelle
more del giudizio di costituzionalità (ordinanze numeri 103, 169, 293
e 403).
A fortiori inidonea ad escludere l’interesse al ricorso è stata
ritenuta la modificazione della disposizione impugnata, purché, scil.,
il contenuto precettivo non risulti mutato, donde la necessità di trasferire
le censure dalla disposizione impugnata a quella risultante dalle modifiche
intercorse (sentenza n. 50). Né può risultare cessata la materia
del contendere allorché la sopravvenienza di una norma di «sanatoria» non
abbia effetti, ratione temporis, su quelle oggetto del giudizio (sentenza n.
455). Di contro, la sopravvenuta carenza di interesse è riscontrabile
quando la modifica normativa sia satisfattiva delle richieste del ricorrente (sentenze numeri 50, 108, 205, 304 e 378, ed ordinanze numeri 428 e 474) e/o
quando sia intervenuta successivamente all’avvenuta attuazione della
disposizione impugnata (sentenze numeri 272 e 383).
La radicale modificazione può anche derivare da una pronuncia della
Corte, il cui decisum e la cui ratio decidendi producano un mutamento del quadro
normativo tale da rendere superate le eventuali violazioni di parametri costituzionali
(così la sentenza n. 71, in riferimento a quanto disposto nella sentenza
n. 196 del 2004, in tema di condono edilizio straordinario; in senso analogo,
anche la sentenza n. 26). Più specificamente, la sentenza n. 397 ha
constatato che la sopravvenuta carenza di interesse può desumersi da
una pronuncia di illegittimità costituzionale che, riferita ad altra
disposizione, incida su quella oggetto della decisione di tipo processuale
nel senso di spostarne il dies a quo dell’efficacia, tanto da escludere
ogni contrasto con una norma parametro (nella specie destinata a perdere vigenza
anteriormente all’efficacia della disposizione legislativa).
Sotto un diverso profilo, è da sottolinearsi come la cessazione della
materia del contendere non possa derivare dalla attuazione che abbia avuto
la norma censurata, «permanendo nell’ordinamento una disposizione
che, in ipotesi, potrebbe dare luogo anche a diverse applicazioni, non conformi
agli evocati parametri» (sentenza n. 33).
Come è chiaro, il difetto sopravvenuto di interesse può essere
reso manifesto dalla rinuncia formale al ricorso, che produce, se accettata,
la estinzione del giudizio. Non mancano, peraltro, casi di rinuncia sostanziale,
cioè non formalizzata ma espressa in sede di trattazione della causa,
rinuncia che, senza poter estinguere il giudizio, fornisce comunque un segno
inequivocabile del venir meno di ogni interesse alla decisione della Corte
(si pensi, ad esempio, a quanto avvenuto nel giudizio concluso con la sentenza
n. 36).
c) Per quanto attiene, infine, alle ipotesi di «sostituzione processuale», è da
evidenziare la sentenza n. 417, in cui si è confermato il precedente
della sentenza n. 196 del 2004 nel ritenere le Regioni legittimate a denunciare
la legge statale per la violazione di competenze degli enti locali. La Corte
ha infatti ritenuto sussistente in via generale una tale legittimazione in
capo alle Regioni, perché «la stretta connessione, in particolare
[…] in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali
e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze
locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze
regionali».
6. La riunione e la separazione delle cause
A tale tecnica la Corte ricorre nel caso di una pluralità di ricorsi
proposti avverso un medesimo atto normativo e che tuttavia siano caratterizzati
dalla impugnazione di disposizioni dal contenuto molto eterogeneo. Le singole
questioni proposte dai diversi ricorsi introduttivi vengono prima separate
e poi riunite in un unico giudizio in modo tale che con una decisione unica
possano essere risolte questioni omogenee, sia pure sollevate da più di
un ricorso.
(…)
7. Il contraddittorio di fronte alla Corte
Il processo in via principale, in quanto processo di parti, si caratterizza
per una assai elevata percentuale di casi nei quali le parti si costituiscono
di fronte alla Corte.
L’anno 2005 non fa, in questo senso, eccezione.
(…)
Nella sentenza n. 391 si è dato conto che la Regione Puglia si era costituita
in giudizio con atto depositato dopo la scadenza del termine di venti giorni
decorrente dalla data del deposito del ricorso: la costituzione della Regione
Puglia doveva pertanto dichiararsi inammissibile, «in conformità alla
costante giurisprudenza [della] Corte circa la perentorietà, anche per
la parte resistente, dei termini per la costituzione in giudizio». In tutto analoghe sono state le decisioni relative alla costituzione tardiva
della Regione Umbria nel giudizio definito con la sentenza n. 393 ed a quella
della Regione Molise nel giudizio definito con la sentenza n. 397.
Una fattispecie peculiare si è presentata nel giudizio concluso con
la sentenza n. 455, nel quale il Presidente della Regione Liguria, resistente,
si era costituito senza previa autorizzazione della Giunta regionale. Il vizio
riscontrabile non ha inficiato, tuttavia, l’avvenuta costituzione, risultando
sanato dall’avvenuto deposito, unitamente alla memoria depositata in
prossimità dell’udienza pubblica, della copia autentica della
deliberazione della Giunta che aveva proceduto alla ratifica della costituzione
medesima.
Al di là di questi casi inerenti alla costituzione delle parti, uno
dei profili che maggiormente hanno caratterizzato il processo in via principale
nel corso del 2005 è rappresentato dalla frequenza degli atti di intervento
spiegati da terzi
(…) dichiarati inammissibili «in base al consolidato
orientamento [della] Corte, secondo il quale nei giudizi di legittimità costituzionale
proposti in via principale non è ammessa la presenza di soggetti diversi
dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui
esercizio sia oggetto di contestazione» (sentenza n. 336).
(…)
Il giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni
1. Premessa
Nel contenzioso che oppone lo Stato alle Regioni ed alle Province autonome,
il giudizio per conflitto di attribuzione ha avuto un ruolo decisamente meno
rilevante di quello che, nel 2005 (come, del resto, nel 2004), ha avuto il
giudizio di legittimità costituzionale in via principale.
Nonostante la relativa esiguità del numero di decisioni (16), possono
comunque riscontrarsi alcuni spunti di un certo interesse concernenti gli aspetti
processuali del conflitto.
2. I soggetti del conflitto
Dei 22 conflitti decisi nel 2005, 20 sono stati promossi da una Regione o da
una Provincia autonoma contro lo Stato; in un solo caso si è avuta l’ipotesi
inversa (ordinanza n. 217), mentre in un caso il conflitto è stato promosso
da una Regione contro una Provincia autonoma (sentenza n. 133).
(…)
«Il potere di intervento non può essere precluso quando “l’esito
del conflitto è suscettibile di condizionare la stessa possibilità che
il giudizio comune abbia luogo” (sentenze n. 225 e n. 76 del 2001; sentenza
n. 154 del 2004)».
(…)
3. La deliberazione del ricorso
(…)
Nella sentenza n. 121 la Corte ha disatteso l’eccezione
di inammissibilità del
ricorso sollevata dall’Avvocatura dello Stato, motivata dalla circostanza
che il decreto impugnato avrebbe costituito «solo il provvedimento conclusivo
di un procedimento il cui inizio già rappresentava “atto di esercizio
del potere, contro il quale la Provincia avrebbe dovuto proporre il conflitto,
poiché ne era a conoscenza”». In particolare, la difesa
erarariale evidenziava che la Provincia autonoma di Bolzano, ricorrente, «avrebbe
avuto piena conoscenza dell’atto invasivo delle proprie competenze in
data antecedente al decreto impugnato».
La Corte, sottolineando come, ai sensi dell’art. 39, secondo comma, della
legge n. 87 del 1953, il termine di sessanta giorni per proporre ricorso decorra
dalla notificazione o pubblicazione ovvero dall’avvenuta conoscenza dell’atto
impugnato, ha precisato, in consonanza con i propri precedenti, che il criterio
dell’avvenuta conoscenza dell’atto «viene in considerazione
soltanto in linea sussidiaria, quando manchino la pubblicazione o la notificazione» (sentenza
n. 132 del 1976); «con l’ovvia conseguenza che, ove sia prescritta
la pubblicazione dell’atto, il termine per la proposizione del ricorso “deve
in ogni caso essere individuato avendo riferimento alla data della medesima”» (ordinanza
n. 195 del 2004).
(…)
Nella sentenza n. 386 si è affrontato il tema dei rapporti tra
il giudizio per conflitto di attribuzione ed il giudizio di legittimità costituzionale
in via principale. Il ricorso per conflitto di attribuzione poneva alcune questioni
che erano oggetto anche di ricorso in via principale. A tal proposito, la Corte
ha rilevato che «la circostanza che un conflitto di attribuzioni sia
sollevato nei confronti di un provvedimento amministrativo contestualmente
al ricorso proposto in via principale avverso un atto avente forza di legge
non è, di per sé, ostativa all’esame nel merito del conflitto,
purché il soggetto che lo solleva lamenti che la menomazione delle sue
attribuzioni è autonomamente imputabile al provvedimento impugnato,
e non già a questo quale mero e puntuale provvedimento attuativo ed
esecutivo della norma censurata di incostituzionalità (sentenza n. 206
del 1975; sentenza n. 245 del 1985), dovendosi escludere che il conflitto di
attribuzione costituisca sede idonea per lamentare l’illegittimità costituzionale
di leggi delle quali il provvedimento amministrativo costituisce applicazione
(sentenza n. 472 del 1995)». Quest’ultima affermazione vale ad
escludere che «il ricorso per conflitto di attribuzioni si risolv[a],
da un lato, in strumento attraverso il quale si eluderebbero i termini perentori
previsti dall’art. 127 Cost. per promuovere in via principale le questioni
di legittimità costituzionale di leggi regionali o statali e, dall’altro
lato, in mezzo utilizzabile per sottrarre al giudice a quo il potere-dovere
di sollevare in via incidentale la questione di legittimità costituzionale
dell’atto avente forza di legge, sul quale si fonda il provvedimento
davanti ad esso giudice impugnato».
4. Gli atti impugnati
La categoria di atti più frequentemente impugnata, nel quadro
delle decisioni rese nel 2005, è stata quella dei decreti ministeriali,
di natura regolamentare oppure amministrativa.
(…)
L’Avvocatura dello Stato aveva eccepito l’inammissibilità dei
conflitti in quanto aventi ad oggetto atti «non dello Stato, ma dell’Agenzia
delle entrate». La Corte, in ossequio all’orientamento già manifestato
nella sentenza n. 288 del 2004, ha respinto l’eccezione, «sul presupposto
della sostanziale riconducibilità di tale ente, ai fini del conflitto,
nell’ambito dell’amministrazione dello Stato»: «il
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione
del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59)
affida, infatti, all’Agenzia delle entrate la “gestione” dell’esercizio
delle tipiche funzioni statali concernenti “le entrate tributarie erariali” prima
attribuite al Dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze ed agli
uffici connessi e, in particolare, assegna a tale ente la cura del fondamentale
interesse statale al perseguimento del “massimo livello di adempimento
degli obblighi fiscali” (articoli 57, comma 1, primo periodo; 61, comma
3; 62, commi 1 e 2)». Su questa base, la Corte ha evidenziato come, ai
soli fini del conflitto costituzionale di attribuzione tra Regione e Stato, «la
riconducibilità alla sfera di competenza statale di tali essenziali
funzioni – “affidate” all’Agenzia delle entrate nell’ambito
del peculiare modulo organizzatorio disegnato per le agenzie fiscali dal decreto
legislativo n. 300 del 1999, con disciplina derogatoria rispetto a quella dettata
per le agenzie non fiscali (art. 10 del decreto) – esig[a] di imputare
al sistema ordinamentale statale gli atti emessi nell’esercizio delle
medesime funzioni» (sentenza n. 72).
Riconducibili ancora all’amministrazione statale sono gli atti impugnati
nei conflitti decisi – peraltro, nel senso dell’inammissibilità (v.
infra, par. 6) – con la sentenza n. 177, che ha avuto ad oggetto un decreto
dell’Agenzia del demanio, una convenzione tra amministrazione dello Stato
e Comune di Cagliari, convenzioni aventi ad oggetto un compendio immobiliare
situato in Cagliari, atti di gestione concernenti determinati beni immobili.
La sentenza n. 302 ha avuto ad oggetto una nota del Provveditorato regionale
alle opere pubbliche – Magistrato alle acque di Venezia.
Per quanto attiene alle funzioni di controllo della Corte dei conti, la sentenza
n. 171 ha definito due conflitti di attribuzione sorti a seguito di una nota
della Corte dei conti, Sezione di controllo di Trento, di richiesta di sottoposizione
al controllo delle sezioni riunite dei contratti collettivi di lavoro dei dipendenti
provinciali e della delibera della Corte dei conti, sezioni riunite in sede
di controllo, di affermazione della propria competenza a sottoporre a verifica
di compatibilità economico-finanziaria i contratti collettivi di lavoro
dei dipendenti provinciali.
Dodici ordini di esibizione in forma integrale della documentazione e degli
atti contabili pertinenti le contribuzioni e i finanziamenti liquidati dall’Assemblea
regionale siciliana, emessi dalla Procura regionale presso la sezione giurisidizionale
della Corte dei conti per la Regione Siciliana sono stati l’oggetto della
sentenza n. 337.
Infine, per quanto concerne gli atti regionali o provinciali impugnati in sede
di conflitto, trattasi, in un caso, di una deliberazione della Giunta della
Provincia autonoma di Trento e di una determinazione del dirigente del servizio
utilizzazione delle acque pubbliche della Provincia di Trento (sentenza n.
133) e, nell’altro, di una ordinanza contingibile ed urgente del Presidente
della Giunta della Regione Sardegna (ordinanza n. 217).
5. I parametri del giudizio
La circostanza che, dei 22 conflitti definiti nel 2005, ben 14 abbiano visto
coinvolti (in posizione di ricorrente o di resistente) una Regione speciale
o una Provincia autonoma, ha inciso inevitabilmente sui parametri invocati.
In effetti, l’evocazione di uno degli statuti speciali ha caratterizzato
i giudizi definiti con le sentenze numeri 72, 73, 121, 133, 135, 171, 177,
263, 287, 302, 337 e 386, e l’ordinanza n. 217). Generalmente, al fianco
della violazione dello statuto speciale, è stata dedotta anche la violazione
delle norme di attuazione dello stesso (sentenze numeri 72, 73, 121, 171, 177,
263, 287, 302 e 386). A questi parametri si è aggiunto il riferimento,
veicolato dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3, alle disposizioni del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, riferimento
che talvolta si è sommato a quello dei decreti di attuazione degli statuti
(sentenze numeri 121, 263 e 287) e talaltra vi si è sostituito (sentenze
numeri 217 e 337).
Le disposizioni del nuovo Titolo V sono state invocate come unico parametro
di giudizio in due sole occasioni (sentenza n. 339 ed ordinanza n. 4), tante
quante sono state le invocazioni del Titolo V in sede di conflitto sollevato
anteriormente alla riforma (sentenze numeri 133 e 324): per giurisprudenza
consolidata, in questi casi ad essere impiegati sono stati i parametri vigenti
al momento della proposizione del ricorso.
Da notare è che, sia nella sentenza n. 133 che nella sentenza n. 324,
il parametro costituzionale è stato integrato anche con il richiamo
a disposizioni di rango legislativo (rispettivamente, il decreto legislativo
n. 112 del 1998, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello
Stato alle Regioni ed agli enti locali, ed il decreto legislativo n. 143 del
1997, sul conferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia
di agricoltura e pesca).
Piuttosto frequente è stata anche l’invocazione del principio
costituzionale di leale cooperazione (in particolare, sentenze numeri 72, 73,
177, 324 e 386, nonché, implicitamente ma inequivocabilmente, sentenza
n. 339).
6. La materia del contendere ed il «tono costituzionale» del
conflitto
Con riferimento alla materia del contendere ed al «tono costituzionale» del
conflitto, possono segnalarsi quattro diverse categorie di pronunce, relative,
rispettivamente, a (a) l’esistenza di un contrasto puramente interpretativo,
a (b) il difetto di interesse al conflitto, a (c) la inidoneità dell’atto
impugnato a ledere le attribuzioni costituzionali ritenute violate ed a (d)
il conflitto avente ad oggetto una vindicatio rerum.
a) Nella prima categoria, si annovera la sentenza n. 121, nella quale si è deciso
il conflitto sollevato avverso un decreto di revoca dell’autorizzazione
alla certificazione comunitaria, rilasciata all’organismo I & S,
Ingegneria e Sicurezza S.r.l., di Bolzano. La Corte ha rilevato, in primo luogo,
che nel decreto impugnato non si escludeva che alla Provincia autonoma spettasse
una competenza in materia di manutenzione e di verifiche di sicurezza, ma si
contestavano all’organismo notificato le modalità (non conformi
alla normativa comunitaria) di esercizio della attività di verifica.
Le posizioni rispettivamente sostenute dalla Provincia e dal Governo non consentivano
di ravvisare nella controversia «la materia di un conflitto di attribuzione
ex art. 39 della legge n. 87 del 1953, sia sotto il profilo soggettivo della
rivendicazione di una sfera di competenza costituzionalmente riservata alla
Provincia, sia sotto l’aspetto oggettivo della menomazione della sfera
di attribuzioni costituzionali della Provincia a seguito dell’esercizio
illegittimo del potere dello Stato». Ciò in quanto la Provincia
non negava che spettasse allo Stato la competenza nella specie esercitata:
le ragioni del contendere si incentravano piuttosto sul fatto che la Provincia
di Bolzano – contrariamente allo Stato – riteneva che le incompatibilità che
potevano, come nel caso, comportare la revoca dell’autorizzazione alla
certificazione di conformità comunitaria, non fossero quelle nella specie
addotte per revocare l’autorizzazione.
Risultava pertanto «evidente che la controversia, risolvendosi in un
contrasto interpretativo sulla sfera di applicazione» della normativa
comunitaria e del d.P.R. n. 162 del 1999, era «priva del necessario carattere
costituzionale, in quanto non tocca[va] la ripartizione delle competenze tra
Stato e Provincia autonoma»: l’eventuale illegittimità del
decreto impugnato, «non essendo riconducibile ad un contrasto con norme
costituzionali relative alla spettanza del potere, avrebbe dunque potuto offrire
motivo per un ricorso avanti alla giurisdizione amministrativa, ma non incide[va]
sulla sfera di attribuzioni costituzionalmente riconosciuta alla Provincia».
b) Nelle sentenze numeri 263 e 287, la Corte ha disatteso due eccezioni concernenti
la carenza di interesse attuale al ricorso prospettate dall’Avvocatura
generale dello Stato, resistente in giudizio. In entrambi i casi, il presupposto
dell’eccezione riposava sul fatto che le disposizioni regolamentari impugnate,
nel prevedere finanziamenti per la ricorrente, avevano già avuto effetti
ed i finanziamenti ottenuti già erano stati spesi (non avendo in proposito
fornito, la ricorrente, prova contraria). La Corte ha replicato che va osservato
che, «in materia di conflitti tra enti, la lesione delle attribuzioni
costituzionali ben può concretarsi anche nella mera emanazione dell’atto
invasivo della competenza, potendo perdurare l’interesse dell’ente
all’accertamento del riparto costituzionale delle competenze» (così,
testualmente, la sentenza n. 287).
Con la sentenza n. 324, si è constatato che le modifiche legislative
e l’abrogazione del decreto ministeriale oggetto del conflitto da parte
di un decreto legge poi convertito, con modificazioni, in legge, non facevano
venire meno l’interesse al conflitto proposto dalla Regione, «atteso
che gli effetti dell’abrogazione del regolamento impugnato non [erano]
retroattivi, ma decorr[eva]no “dal primo periodo di applicazione del
medesimo decreto legge” […] e considerato che la norma secondaria,
medio tempore, ha ricevuto attuazione».
c) Circa l’inidoneità dell’atto impugnato a ledere le attribuzioni
costituzionali del ricorrente, la Corte ha disatteso due eccezioni di inammissibilità formulate
dallo Stato, ancora nei giudizi definiti con le sentenze numeri 263 e 287.
Nella prospettazione erariale, la (eventuale) lesione della sfera di attribuzione
della Provincia di Trento sarebbe, in ipotesi, stata prodotta dalla legge attributiva
del potere regolamentare di cui la ricorrente lamentava l’esercizio,
e non dal regolamento ministeriale oggetto del conflitto, meramente esecutivo
della prima. La Corte ha negato la fondatezza di tale ricostruzione, sottolineando
come la disposizione legislativa recasse una «clausola di salvaguardia» (consistente
nella previsione della sua applicazione alla Provincia di Trento, ricorrente, «compatibilmente
con le norme» dello statuto), donde la astratta lesività di un
regolamento che si ponesse in contrasto con lo statuto speciale o anche con
le norme di attuazione dello stesso, atteso che, alla stregua della «consolidata
giurisprudenza» della Corte, «al pari delle norme dello statuto
speciale, anche le relative norme di attuazione […] possono essere utilizzate
come parametro del giudizio di costituzionalità» e che, «in
conseguenza di questa equiparazione tra norme statutarie e norme di modifica
e di attuazione dello statuto, la “clausola di salvaguardia” [doveva]
essere intesa, secondo una lettura costituzionalmente orientata, come riferita
a tutte le disposizioni che fondano e definiscono l’autonomia speciale
della Provincia» (così, testualmente, la sentenza n. 287).
L’inidoneità dell’atto impugnato a ledere le attribuzioni
costituzionali contestate è stata invece all’origine delle decisioni
di inammissibilità pronunciate con le sentenze numeri 72 e 73. Premesso
che, «per aversi materia di un conflitto di attribuzione tra Regione
e Stato, è necessario che l’atto impugnato sia idoneo a ledere
la sfera di competenza costituzionale dell’ente confliggente»,
si è riconosciuto che gli atti oggetto dei conflitti, vale a dire risoluzioni
dell’Agenzia delle entrate – Direzione Centrale Gestione Tributi
e un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, non possedevano
questa caratteristica, in quanto, in un caso, si limitavano, «attraverso
l’istituzione di codici-tributo, a fornire istruzioni sulle modalità di
versamento delle imposte e, pertanto, inserendosi in una fase procedimentale
meramente provvisoria (che precede l’intervento dell’indicata struttura
di gestione e non ne condiziona l’operato), non incid[eva]no sulla spettanza
del gettito e non [erano] idonei a ledere le prerogative costituzionali della
Regione Siciliana in materia finanziaria» (sentenza n. 72), e, nell’altro
caso, «si limita[va]no a regolare le modalità di versamento del
contributo unificato, senza incidere sull’assegnazione della quota spettante
alla Regione Siciliana del gettito correlativo, e a disciplinare un aspetto
esecutivo del procedimento di riscossione del contributo, con efficacia esterna
solo nei confronti dei contribuenti e dei soggetti abilitati a riceverne i
versamenti» (sentenza n. 73).
La sentenza, infine, n. 386 ha dichiarato «l’inammissibilità del
conflitto in quanto sollevato nei confronti di provvedimento meramente attuativo
di una norma assoggettabile, e di fatto assoggettata, a giudizio di legittimità costituzionale
in via principale»: nella specie, era stato impugnato il decreto di nomina
del Presidente dell’Autorità portuale di Trieste, adottato in
conformità a quanto prescritto dalle disposizioni legislative impugnate
in altra sede (ed oggetto del giudizio concluso con la sentenza n. 378).
d) Due sono stati i casi di declaratoria di inammissibilità motivata
dalla circostanza che il conflitto si risolveva (in tutto o in parte) in una
pura vindicatio rerum: per consolidata giurisprudenza, infatti, la Corte «esclude
l’ammissibilità di un conflitto tra enti, quando si controverta
della titolarità di beni (vindicatio rei) e non della spettanza o della
delimitazione di funzioni attribuite dalla Costituzione o dagli statuti speciali
di autonomia e dalle relative norme di attuazione (vindicatio potestatis),
essendo nel primo caso la questione da proporre nelle forme ordinarie davanti
ai giudici comuni competenti» (sentenza n. 302).
Nel caso deciso con la sentenza n. 177, le pretese delle due ricorrenti, che
avevano promosso conflitto avverso un atto del Direttore dell’Agenzia
del demanio, che individuava come appartenenti al patrimonio dello Stato taluni
beni immobili esistenti nei rispettivi territori, erano fondate esclusivamente
sulla dedotta appartenenza ad esse dei beni immobili in questione, «senza
alcun riferimento a (neanche ipotizzate) lesioni di attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite, in ragione di un eventuale nesso di strumentalità necessaria
tra beni e attribuzioni». Questo specifico contenuto rendeva manifesto
come i conflitti fossero «in realtà diretti soltanto all’accertamento
del titolo giuridico di appartenenza dei beni».
Nella sentenza n. 302, invece, pronunciandosi circa una nota del Provveditorato
regionale alle opere pubbliche – Magistrato alle acque di Venezia con
la quale si eccettuava dal trasferimento al demanio della Regione talune tratte
del torrente Judrio e dei fiumi Tagliamento e Livenza e si invitavano le Agenzie
del demanio interessate a non procedere al trasferimento a favore dell’ente
territoriale di alcuni beni immobili (caselli e magazzini idraulici) del demanio
idrico statale, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto «in
relazione alla rivendicazione della titolarità degli immobili (caselli
e magazzini idraulici) non strumentali alle tratte del torrente Judrio e dei
fiumi Livenza e Tagliamento, rimaste nel demanio idrico statale»: trattavasi,
dunque, di «una questione priva di tono costituzionale, giacché involge[va]
unicamente un aspetto proprietario e richiede[va] l’accertamento, di
puro fatto, in ordine alla sussistenza di un nesso pertinenziale tra i beni
rivendicati dallo Stato e le tratte fluviali di sua competenza».
7. La riunione dei giudizi
(…)
8. Le decisioni della Corte
(…)
8.1. Le decisioni interlocutorie
(…)
8.2. L’estinzione del giudizio
(…)
8.3. Le decisioni di inammissibilità
(…)
8.4. Le decisioni di merito
(…)
La decisione di non spettanza della competenza esercitata dall’ente
che ha posto in essere l’atto ha condotto al conseguente annullamento
dell’atto.
Tale annullamento è stato, in quattro casi, totale (sentenze numeri
133, 171, 337 e 339), mentre in due casi degli atti regolamentari impugnati
sono state annullate varie disposizioni, ma non integralmente bensì «nella
parte in cui si applica[va]no alle Province autonome di Trento e di Bolzano» (sentenze
numeri 263 e 287). Queste ultime decisioni hanno spiegato dunque effetti, non
solo nei confronti della ricorrente (Provincia di Trento), ma anche dell’altra
Provincia autonoma, a seguito dell’estensione motivata dalla «piena
equiparazione statutaria delle Province autonome di Trento e di Bolzano relativamente
alle attribuzioni di cui tratta[va]si»).
(…)
Corte Costituzionale, febbraio 2006
presidente Annibale Marini
– – – –
Il testo integrale della relazione del presidente Annibale Marini, pubblicata
sul sito della Corte Costituzionale (www.cortecostituzionale.it), è reperibile
all’url www.cortecostituzionale.it/ita/attivitacorte/relazioniannualideipresidenti/2005/relazione_marini.asp