E’ stato sostenuto che il sistema di affidamento diretto a società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del socio privato) concretizzerebbe sempre un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto comunitario.
E tuttavia, sembra ammissibile il ricorso alla figura della società mista nel caso in cui essa rappresenti una “modalità organizzativa” con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al “socio operativo” della società.
In definitiva, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, appare legittimo configurare il modello organizzativo dell’affidamento diretto a società mista, a condizione che ricorrano due essenziali garanzie:
1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo”, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;
2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento”, evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista, possibilmente prevedendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all’esito della successiva gara egli risulti non più aggiudicatario.
. . . . . . .
Consiglio di Stato, Sezione Seconda
Parere del 18 aprile 2007
(Presidente Barberio Corsetti, estensore Carbone)
MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE E FORESTALI – Quesito in merito alla possibilità che l’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura) possa affidare alla società SIN la gestione del SIAN (Sistema Informativo Agricolo Nazionale). Integrazione del parere n. 3162/06.
Vista la relazione del 2 febbraio 2007, con la quale il Ministero delle politiche agricole e forestali (Dipartimento delle Politiche di Sviluppo) ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto, anche al fine di un riesame di quanto affermato con il precedente parere n. 3162/06, reso da questa Sezione nell’adunanza del 13 dicembre 2006;
Esaminati gli atti ed udito il relatore-estensore, consigliere Luigi Carbone;
PREMESSO e CONSIDERATO:
1. La legge 4 giugno 1984, n. 194, autorizza il Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste ad impiantare un sistema informativo agricolo nazionale attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale. In particolare, il primo comma dell’art. 15 dispone che: “Ai fini dell’esercizio delle competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole e della conseguente necessità di acquisire e verificare tutti i dati relativi al settore agricolo nazionale, il ministro della agricoltura e delle foreste è autorizzato all’impianto di un sistema informativo agricolo nazionale attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale, anche indiretta, per la realizzazione, messa in funzione ed eventuale gestione temporanea di tale sistema informativo in base ai criteri e secondo le direttive fissate dal ministro medesimo.”.
È stato a tal fine costituito il SIAN (Servizio Informativo Agricolo Nazionale).
Con il decreto legislativo n. 99 del 2004, i compiti di coordinamento e gestione del SIAN sono stati trasferiti all’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), la quale è subentrata in tutti i rapporti attivi e passivi e alla quale sono state trasferite le risorse finanziarie, umane e strumentali (art. 14, commi 9 e 10), fermi i poteri di indirizzo e monitoraggio del Ministero.
In particolare, il comma 9 dispone che: “Al fine di semplificare gli adempimenti amministrativi e contabili a carico delle imprese agricole, fatti salvi i compiti di indirizzo e monitoraggio del Ministero delle politiche agricole e forestali ai sensi dell’articolo 3, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2000, n. 450, sono trasferiti all’AGEA i compiti di coordinamento e di gestione per l’esercizio delle funzioni di cui all’articolo 15 della legge 4 giugno 1984, n. 194.”. Ai sensi del successivo comma 10, “L’AGEA subentra, dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, in tutti i rapporti attivi e passivi relativi al SIAN di cui al comma 9. A tale fine sono trasferite all’AGEA le relative risorse finanziarie, umane e strumentali.”.
Il D.M. 26 ottobre 2005 ha, poi, stabilito le modalità di trasferimento della gestione del SIAN dal Ministero all’AGEA.
Successivamente, il decreto legge n. 182 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 231 del 2005, ha integrato l’art. 14 del decreto legislativo n. 99 del 2004, aggiungendovi il comma 10-bis, il quale prevede che “l’AGEA, nell’ambito delle ordinarie dotazioni di bilancio, costituisce una società a capitale misto pubblico-privato, con partecipazione pubblica maggioritaria nel limite massimo pari a 1,2 milioni di euro nell’ambito delle predette dotazioni di bilancio, alla quale affidare la gestione e lo sviluppo del SIAN. La scelta del socio privato avviene mediante l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica ai sensi del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157, e successive modificazioni. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato”.
Il Consiglio di Amministrazione dell’AGEA, con delibera 25 novembre 2005, n. 124, ha disposto la costituzione della Società SIN s.r.l., con determinazione degli elementi principali dello statuto societario. Il 29 novembre 2005, con atto notarile, è stata costituita la Società SIN s.r.l. con capitale sociale interamente sottoscritto dall’AGEA.
L’AGEA, quindi, ha provveduto alla individuazione del socio privato di minoranza della SIN s.r.l. tramite un’apposita gara, con bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea.
2. Con un primo quesito, il Ministero delle Politiche Agricole, quale autorità preposta alla vigilanza sull’AGEA e nell’esercizio dei suoi poteri di indirizzo sul SIAN, ha chiesto il parere del Consiglio di Stato in ordine alla legittimità di affidamento diretto del servizio in questione alla neo-costituita Società SIN.
Questa Sezione, con il parere n. 3162/06, reso dall’adunanza del 13 dicembre 2006, ha ritenuto che, “nel caso prospettato con il quesito in oggetto”, non si rinvengono le due condizioni “per ritenere legittimi affidamenti diretti o in house”, come definite “dalla giurisprudenza sia nazionale, sia comunitaria”, ovvero: “1) che il servizio sia svolto direttamente dall’Amministrazione ovvero da società sulla quale eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; 2) che la società affidataria realizzi la parte più importante e comunque prevalente della propria attività con l’ente che esercita “il controllo analogo”.
Alla stregua di tali considerazioni – sulla base delle prospettazioni effettuate dal Ministero riferente – la Sezione ha affermato che la situazione in esame appare “non conforme ai principi della normativa nazionale e comunitaria” esaminati (ovvero quelli relativi all’applicabilità del modello dell’in house providing).
3. Il Ministero delle politiche agricole e forestali (Dipartimento delle Politiche di Sviluppo) chiede, ora, un nuovo pronunciamento di questo Consiglio di Stato sulla questione, affermando che “ad una più attenta considerazione” si rinvengono profili e conseguenze della vicenda “che, nell’originaria richiesta di parere rivolta dal Ministero al Consiglio di Stato in ragione del rapporti di vigilanza sull’AGEA, non erano state prese in considerazione e che ora da segnalazione della stessa AGEA sono venute ad emergere”.
3.1. In particolare, con la nuova richiesta di parere si riferisce che “il punto nodale … è costituito dalla configurazione dei profili organizzatori dell’AGEA delineati dalla normativa di riferimento ed esattamente dall’art. 14, commi 9, 10 e 10-bis del d.lgs. n. 99 del 29 marzo 2004”, sopra riportati, che prevedono il subentro immediato dell’AGEA in tutte le complesse competenze e funzioni del SIAN (quali definite dalla legge n. 194 del 4 giugno 1984, dall’art. 15 del d.lgs. n. 173 del 30 aprile 1998 e, in seguito, dal DM 26 ottobre 2005).
Il Ministero ricorda, innanzitutto, che il SIAN è stato istituito come servizio proposto per l’esercizio delle competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole e della conseguente necessità di acquisire e verificare tutti i dati relativi ai settore agricolo nazionale (ai sensi del sopra riportato art. 15 della legge n. 194 del 1984).
Per tali finalità, secondo la previsione del richiamato art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 173 del 1998, “Il SIAN, quale strumento per l’esercizio delle funzioni di cui al decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, ha caratteristiche unitarie ed integrate su base nazionale e si avvale dei servizi di interoperabilità e delle architetture di cooperazione previste dal progetto della rete unitaria della pubblica amministrazione. Il Ministero per le politiche agricole e gli enti e le agenzie dallo stesso vigilati, le regioni e gli enti locali, nonché le altre amministrazioni pubbliche operanti a qualsiasi titolo nel comparto agricolo e agroalimentare, hanno l’obbligo di avvalersi dei servizi messi a disposizione dal SIAN, intesi quali servizi di interesse pubblico, anche per quanto concerne le informazioni derivanti dall’esercizio delle competenze regionali e degli enti locali nelle materie agricole, forestali ed agroalimentari. Il SIAN è interconnesso, in particolare, con l’Anagrafe tributaria del Ministero delle finanze, i nuclei antifrode specializzati della Guardia di finanza e dell’Arma dei carabinieri, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, le camere di commercio, industria ed artigianato, secondo quanto definito dal comma 4.”.
Il comma 2 dello stesso articolo aggiunge che il Sistema Informativo Agricolo Nazionale è unificato con i sistemi informativi di cui all’articolo 24, comma 3, della legge n. 97 del 1994, e all’articolo 1 della legge n. 81 del 1997, nonché integrato con i sistemi informativi regionali. Allo stesso è trasferito l’insieme delle strutture organizzative, dei beni, delle banche dati, delle risorse hardware, software e di rete dei sistemi di cui all’articolo 1 della legge n. 81 del 1997, senza oneri amministrativi. Inoltre, “in attuazione della normativa comunitaria, il SIAN assicura, garantendo la necessaria riservatezza delle informazioni, nonché l’informativa su base nazionale dei controlli obbligatori, i servizi necessari alla gestione, da parte degli organismi pagatori e delle regioni e degli enti locali, degli adempimenti derivanti dalla politica agricola comune, connessi alla gestione dei regimi di intervento nei diversi settori produttivi ivi inclusi i servizi per la gestione e l’aggiornamento degli schedari oleicolo e viticolo.”.
Il SIAN è, altresì, “interconnesso con i sistemi informativi delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura al fine di fornire all’ufficio del registro delle imprese di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 581 del 1995 gli elementi informativi necessari alla costituzione ed aggiornamento del Repertorio economico amministrativo (REA). Con i medesimi regolamenti, di cui all’articolo 14, comma 3, sono altresì definite le modalità di fornitura al SIAN da parte delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, delle informazioni relative alle imprese del comparto agroalimentare” (comma 3 del predetto art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998).
L’integrazione del SIAN alla rete informativa pubblica è confermata dalla adozione, prevista dal comma 4 dell’art. 15, di una apposita convenzione, con la quale “le amministrazioni di cui ai commi precedenti definiscono i termini e le modalità tecniche per lo scambio dei dati, attraverso l’adozione di un protocollo di interscambio dati. Il sistema automatico di interscambio dei dati è attuato secondo modalità in grado di assicurare la salvaguardia dei dati personali e la certezza delle operazioni effettuate, garantendo altresì il trasferimento delle informazioni in ambienti operativi eterogenei, nel pieno rispetto della pariteticità dei soggetti coinvolti.”.
In aggiunta a tali funzioni, l’art. 2 del decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali del 26 ottobre, recante adempimenti relativi alla gestione dei servizi del SIAN, sancisce che “L’AGEA in attuazione dell’art. 14, comma 9, del decreto legislativo n. 99/2004 e sulla base degli atti di indirizzo di cui all’art. 1, comma 1, assicura le funzioni di coordinamento, sviluppo e gestione del SIAN, assumendo i provvedimenti necessari a promuovere ed eseguire gli adempimenti previsti e garantendo il raccordo con il Ministero per l’innovazione e le tecnologie, e con il CNIPA per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 15 della legge 4 giugno 1984, n. 194. Per le finalità di cui al precedente comma 1, l’AGEA, in coerenza con le linee guida e le direttive del Ministero per l’innovazione e le tecnologie e del CNIPA, promuove o partecipa a progetti aventi gli obiettivi:
a) di razionalizzare l’impegno delle amministrazioni pubbliche tramite la standardizzazione dei processi di erogazione dei servizi di interoperabilità e cooperazione, nonché l’interscambio sistematico dei dati tra soggetti pubblici con l’obiettivo di evitare duplicazioni e ridondanze nella erogazione e fruizione dei servizi;
b) di valorizzare i dati, i prodotti ed i servizi delle amministrazioni pubbliche e di agevolare il riuso delle funzioni dalle stesse realizzate;
c) di realizzare servizi a valore aggiunto verso soggetti terzi, anche privati”.
Secondo l’art. 3 dello stesso provvedimento, “in attuazione dell’art. 14, commi 9 e 10, del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99, l’AGEA assicura al Ministero l’integrazione all’interno del SIAN dei dati e dei servizi informativi derivanti dalle attività eseguite dagli enti ed agenzie vigilati dal Ministero o da altri soggetti pubblici e privati, delegate o finanziate dal Ministero stesso, che comportino la gestione di dati e di archivi informatizzati. Nell’esercizio delle funzioni di cui al comma 1, l’AGEA: a) definisce gli standard idonei a garantire la compatibilità con l’architettura complessiva del SIAN, verificandone il rispetto; b) garantisce la fruizione delle informazioni all’interno del SIAN, sulla base delle specifiche definite, realizzando gli opportuni meccanismi di interoperabilità, interscambio e cooperazione.”.
3.2. La riferente amministrazione ritiene, quindi, che la ricognizione del quadro normativo complessivo evidenzi che il relativo trasferimento in capo all’AGEA abbia comportato “l’assunzione da parte dell’Agenzia di nuove competenze e funzioni oltre a quelle in precedenza istituzionalmente assegnate che avrebbero comportato l’adeguamento delle strutture della stessa. Ciò in quanto lo svolgimento delle relative funzioni necessita di una specifica esperienza informatica ed un patrimonio di conoscenze tecnologiche non facilmente improvvisabile, né rinvenibile presso strutture pubbliche”.
In sostanza, il Ministero reputa necessario rilevare, con il nuovo quesito, che la norma ha previsto il subentro immediato dell’AGEA in tutte le complesse competenze e funzioni del SIAN “senza che la società subentrante avesse la esperienza e vocazione tecnico-inforrnativa necessaria, né adeguate strutture vocate allo scopo. Ma, proprio nella consapevolezza di tale deficienza, per la realizzazione e gestione di siffatto sistema informativo la medesima norma ha delineato un particolare modulo organizzatorio, diretto ad assicurare il necessario patrimonio di conoscenze e tecnologie specializzate ed aggiornate tipiche delle imprese private (che come tali si confrontano con l’aggiornamento imposto dalla concorrenza del libero mercato). E, difatti, ha imposto alla AGEA di non attrezzarsi direttamente, ma di costituire una società pubblico-privata, individuando quale socio privato una impresa in possesso del requisito di esperienza nel settore specifico ed alta specializzazione tecnologica”.
Tale modulo organizzatorio, in effetti, è stato imposto dal legislatore con il d.l. n. 182 del 2005, convertito dalla legge n. 231 del 2005, senza lasciare alla AGEA alcuna possibile alternativa dì organizzare e gestire il servizio secondo modalità diverse.
3.3. In applicazione di questo contesto normativo, la riferente amministrazione chiarisce, con la nuova richiesta di parere, di aver configurato la “società mista” indicata dalla legge come un soggetto nell’ambito del quale il socio pubblico si faccia carico delle competenze e responsabilità amministrative e il socio privato metta a disposizione della società la propria competenza specifica, apportando il suo lavoro professionale per la realizzazione degli obiettivi di legge.
In questo quadro – ritiene il Ministero riferente – “il socio privato finisce per assumere a termine (9 anni previsti dalla gara) il ruolo di socio di lavoro munito delle necessarie conoscenze tecnico-informatiche per consentire alla società pubblico privata di prestare il servizio informatico previsto dalla legge”. Tale modello – secondo la riferente amministrazione – è conforme a quello disciplinato dagli artt. 113 e 116 del t.u. n. 267 del 2000 sugli enti locali ed appare coerente con la natura della attività che l’AGEA è per legge chiamata a svolgere: “da un lato competenze e funzioni amministrative e di controllo in materia di agricoltura (così come esposte nella normativa in precedenza citata), dall’altro a sovrintendere alle attività operazioni e prestazioni di tipo informativo sottese alla piena la realizzazione della prime e demandate secondo lo schema organizzatorio del socio di lavoro al privato prescelto in gara”.
In sostanza, secondo questo modello organizzatorio, il socio pubblico è chiamato ad assumersi l’onere ed a svolgere funzioni amministrative del servizio, mentre il socio di lavoro privato a predispone l’organizzazione necessaria a consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul servizio.
Del resto – aggiunge il quesito in esame – la peculiarità e specializzazione tecnologica della gestione del SIAN è sempre stata considerata e valutata dal legislatore anche in precedenza, atteso che anche l’art. 15 della legge n. 194 del 1984 disciplinava espressamente la gestione di tale ente “in deroga alle norme sulla contabilità dello Stato”, sì da suggerire il ricorso ad uno strumento organizzatorio ad hoc quale, per l’appunto, quello da ultimo delineato dall’art. 14, comma 10-bis, del d.l. n. 182 del 2005 come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 231 del 2005.
3.4. Dall’approfondimento effettuato, il Ministero trae il nuovo convincimento che “la costituzione, da parte dell’AGEA, della società SIM, costituisce il momento di esercizio di una funzione organizzativa espressamente prevista dalla legge e non già affidamento di un servizio. Per contro, tale specifico momento si configura a valle, e cioè [attraverso] le modalità che attuerà la Società per svolgere i servizi cui è preposta.”. E per tale fase è la stessa norma che si è premurata di aprire la partecipazione della Società ad un soggetto privato che andrà ad assumere il ruolo di socio di lavoro e che dovrà essere scelto con gara europea (che, effettivamente, risulta essere stata regolarmente effettuata, nel corso dello scorso anno, ai sensi del d.lgs. n. 157 del 1995).
In conclusione, la richiesta di parere afferma che dalla nuova ricognizione effettuata sembra di poter conseguire che “la costituzione della società per la gestione del SIAN non costituisce affatto una modalità di affidamento in house contraria alla disciplina comunitaria, bensì una modalità organizzatoria per lo svolgimento del SIAN articolato in via primaria nella costituzione della società e poi nella sua apertura all’apporto di lavoro di un socio privato prescelto con gara (e quindi in piena conformità con il trattato CE e le direttive comunitarie) per i prossimi 9 anni”. Inoltre, tale modello sembra al Ministero coerente con la peculiarità del servizio da svolgere, e con la “esigenza di non accentrare su AGEA funzioni che non è attrezzata a svolgere direttamente” e, nello stesso tempo, “che non può esercitare seguendo modalità ed iter procedimentali diversi da quello tassativamente imposto dalla legge, consistente nella costituzione di una società pubblico — privata”.
4. Questo Consiglio di Stato è dell’avviso che, alla stregua delle nuove argomentazioni e allegazioni – e ferme restando le affermazioni di principio enunciate nel precedente parere n. 3162/06 – si possa pervenire a conclusioni differenti sullo specifico caso in questione, secondo le considerazioni che seguono.
5. Appare necessario, in primo luogo, definire la riconducibilità o meno, in via generale, del modello organizzativo identificato dal legislatore nel caso di specie – ovvero quello della costituzione di una “società mista” pubblico-privata – al modello dell’in house providing: solo in caso affermativo si potrà discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza in materia.
5.1. Come è noto, l’espressione in house providing (usata per la prima volta in sede comunitaria nel Libro Bianco sugli appalti del 1998) identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione: ciò accade quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a terzi tramite gara e dunque al mercato (cfr., in termini, la recente decisione della VI Sezione di questo Consiglio del 3 aprile 2007, n. 1514, su cui si tornerà più avanti). Il modello si contrappone a quello dell‘outsourcing, o contracting out (la c.d. esternalizzazione), in cui la sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e /o fornire i beni e servizi necessari allo svolgimento della funzione amministrativa.
La prima definizione giurisprudenziale della figura è fornita dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 18 novembre 1999, causa C-107/98 – Teckal. In quella sede – a estrema sintesi delle considerazioni della Corte – si è affermato che non è necessario rispettare le regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi:
a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi;
b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.
In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi “terzo” rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa: non è, pertanto, necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture.
5.2. Questa Sezione condivide pienamente – come già affermato nel precedente parere n. 3162/06 (cfr. pure, in termini, la citata decisione della VI Sezione n. 1514/07) – le affermazioni secondo le quali la figura dell’in house providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario.
Ciò è stato chiarito con fermezza dalla Corte di giustizia nelle sue successive pronunce (cfr. le note sentenze 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – Stadt Halle e RPL Lochau, su cui si tornerà più avanti per altri profili; 21 luglio 2005, causa C‑231/03 – Corame; 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH; 10 novembre 2005, causa C-29/04 – Mödling o Commissione c/ Austria; 6 aprile 2006, causa C-410/04 – ANAV c/ Comune di Bari; 11 maggio 2006, causa C-340/04 – Carbotermo; 18 gennaio 2007, causa C-220/05 – Jean Auroux).
Il ridimensionamento dell’istituto è da ricondursi anche a fenomeni di distorsione nel ricorso a tale modello, del quale si tende ad abusare attraverso il fenomeno delle c.d. catene societarie e dei controlli indiretti, nonché attraverso le attività svolte nei confronti di terzi.
In particolare, la ricordata sentenza Carbotermo dell’11 maggio 2006, causa C-340/04, ha affermato che la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria, ma non sufficiente. Difatti, per giustificare la deroga alle regole europee di evidenza pubblica occorrono maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile. La giurisprudenza comunitaria e nazionale li ha nel tempo individuati affermando, in particolare, che:
– il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;
– l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico (tale vocazione risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero: cfr., in particolare, le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-29/04 – Mödling o Commissione c/ Austria);
– le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (cfr. pure la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato 8 gennaio 2007, n. 5, che ha affermato che se il consiglio di amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”);
– il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati (Tar Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Consiglio di Stato, V sez., 30 agosto 2006, n. 5072).
La giurisprudenza ha anche chiarito che, in astratto, è configurabile un “controllo analogo” anche nel caso in cui il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall’ente pubblico, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo. Tuttavia, una tale forma di partecipazione “può, a seconda delle circostanze del caso specifico, indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale” (cfr. la citata sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, causa C-340/04). In tale ottica, la partecipazione pubblica indiretta, anche se totalitaria, è in astratto compatibile, ma affievolisce comunque il controllo.
I principi giurisprudenziali sopra accennati appaiono, ormai, largamente condivisi dalle Corti Supreme nazionali, ivi compreso, come si è detto, questo Consiglio di Stato, il quale (sia nel parere n. 3162/06 che nella decisione della VI Sezione da ultimo citati) ha anche rilevato che, nel nostro ordinamento, una norma di carattere generale era stata proposta nel primo schema del codice dei contratti pubblici, ma non è stata poi inserita nel testo finale del d.lgs. n. 163 del 2006, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento di servizi, di lavori, o di forniture (la norma dell’originario schema era l’art. 15, rubricata “Affidamenti in house”, dal seguente testo: “Il presente decreto non si applica all’affidamento di servizi, lavori, forniture a società per azioni il cui capitale sia interamente posseduto da un’amministrazione aggiudicatrice, a condizione che quest’ultima eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione aggiudicatrice.”; il codice, tuttavia, ha conservato un riferimento generale alle società miste all’art. 1, comma 2, e all’art. 32: cfr. infra, il punto 7).
5.3. Questo Consiglio di Stato ritiene che l’evoluzione giurisprudenziale consenta, altresì, di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house providing.
Tale riconducibilità, che in principio era quantomeno dubbia (e molto si è discusso sul punto: svariati autori, in dottrina, propendevano per la soluzione affermativa e ancora oggi vi sono discipline che ricomprendono entrambe le situazioni: cfr. l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, di cui si dirà infra, al punto 7.3), oggi può dirsi ormai definita in senso negativo dalla giurisprudenza – non risalente ma ormai consolidata – della Corte di giustizia europea, nelle decisioni in cui ha progressivamente definito il concetto di “controllo analogo”.
In particolare, ciò emerge dalla già menzionata sentenza della Corte 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – Stadt Halle e RPL Lochau: nel dare atto che, in quella controversia, la Stadt Halle si era difesa proprio sostenendo che si sarebbe trattato “di un’«operazione di ‘in house providing’», alla quale non si applicherebbero le norme comunitarie in materia di appalti pubblici”, la Corte ha invece affermato che “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.
L’opzione interpretativa è confermata, tra le altre, dalla citata sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 – ANAV c/ Comune di Bari – laddove afferma che “se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v. già, in senso analogo, anche la sentenza 21 luglio 2005, causa C‑231/03 – Corame)” – e in quella 18 gennaio 2007, causa C-220/05 – Jean Auroux, ove si afferma che “quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., con riferimento agli appalti pubblici di servizi si applica anche con riferimento agli appalti pubblici di lavori”.
In altri termini, la Corte di giustizia ha ritenuto che qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa obbedisca a considerazioni proprie degli interessi privati e persegua obiettivi di natura differente rispetto a quelli dell’amministrazione pubblica. Pertanto, in sostanza, oggi si può parlare di società in house soltanto se essa agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, non contaminato da alcun interesse privato.
Di tali conclusioni questo Consiglio di Stato ha già preso atto quando, con la decisione n. 1514/07 della VI Sezione, ha affermato – con argomenti che questa Sezione condivide pienamente – che, in un caso diverso da quello ivi deciso (e definito con la decisione n. 1513/07), “la Sezione ha ritenuto neanche configurabile l’affidamento in house in considerazione dell’assenza di una partecipazione pubblica totalitaria all’epoca … degli affidamenti in contestazione in quel procedimento. L’assenza della partecipazione pubblica totalitaria esclude, infatti, in radice la possibilità di configurare il requisito del controllo analogo, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria per gli affidamenti in house.”.
Da ciò consegue – ad avviso del Collegio – l’inutilità di ricercare, allo scopo di giustificarne la compatibilità con la disciplina europea, i (sempre più selettivi) requisiti richiesti per l’in house anche nel modello di parternariato pubblico-privato “società mista” cui si riconduce l’oggetto del quesito in esame.
6. La non riconducibilità alla figura dell’in house non implica, di per sé, la esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato sia scelto con una procedura di evidenza pubblica.
Su tale specifica modalità organizzativa, infatti, non risulta che la Corte di giustizia abbia ancora avuto modo di pronunciarsi espressamente: anche nelle più importanti sentenze in cui si tratta di società miste (e in particolare la sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – Stadt Halle e RPL Lochau, e la sentenza 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH), il privato era stato individuato senza gara (cfr. amplius infra, il punto 8.2.2).
Per la soluzione del quesito in esame si impone, allora, una verifica autonoma, da condurre alla stregua dei rigorosi principi dettati dalla Corte di giustizia (sull’in house, ma non solo) ma senza poter contare, allo stato, su una indicazione specifica in termini.
Tale verifica va condotta, ad avviso della Sezione, avendo sempre presente l’interesse fondamentale che sottende la attuale disciplina dell’evidenza pubblica: la tutela della concorrenza, cui si applicano anche i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza. Tale interesse appare prevalente rispetto a quello della tutela dell’amministrazione.
La Sezione, difatti, rileva che – se il regime dell’evidenza pubblica per la scelta del contraente privato nei contratti “passivi” della pubblica amministrazione è presente da tempo nel nostro sistema nazionale, ben da prima dell’avvento della disciplina comunitaria degli appalti pubblici, in quanto dettato nell’interesse dell’amministrazione appaltante – con il progressivo avvento della disciplina comunitaria tale regime nazionale è stato, in parte, conservato nei meccanismi di selezione del contraente, ma investito da una ratio del tutto nuova, che impone diversi canoni interpretativi e applicativi.
La finalità, l’intera logica di tale disciplina si è, infatti, trasformata – in adesione ai principi europei – da quella della tutela primaria dell’interesse dell’amministrazione a quella della libera circolazione e della concorrenza.
Di conseguenza, se ciò ha portato (ormai quasi del tutto) alla scomparsa di norme sulla scelta del contraente di sicuro interesse dell’amministrazione pubblica ma incompatibili con l’interesse alla libera concorrenza, i meccanismi tradizionali di evidenza pubblica che potevano adeguarsi a questa diversa ratio sono stati, nella sostanza, recepiti dal nuovo codice dei contratti pubblici (il menzionato d.lgs. n. 163 del 2006), ovvero – se contenuti in disposizioni speciali – non sono stati espressamente abrogati. Ciò è avvenuto, però, sul presupposto che tali meccanismi vadano applicati in questa diversa logica.
È in quest’ottica che va esaminata anche la questione in esame.
Non sarà, quindi, sufficiente dimostrare l’interesse dell’amministrazione – pure stigmatizzato, nel caso di specie, con una apposita lex specialis – ma anche la sua compatibilità con l’interesse per la massima apertura del mercato, come identificato dai principi definiti dalla Corte di giustizia europea.
Peraltro, come è noto, laddove dovesse risultare evidente una incompatibilità, da parte della legge nazionale, con la disciplina comunitaria self executing nel nostro ordinamento, l’amministrazione sarebbe tenuta a disapplicarla (secondo i principi affermati a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 389 dell’11 luglio 1989).
La suddetta verifica va condotta sia “in astratto”, analizzando il modello generale delle società miste come oggi presente nell’ordinamento nazionale (cfr. infra, i punti 7 e 8 e i relativi sottopunti), sia “in concreto”, guardando alla specifica disciplina prevista nel caso in esame e alla sua applicazione nella procedura di selezione del contraente privato (cfr. infra, il punto 9 e i relativi sottopunti).
7. Come è noto, il modello delle “società miste” è presente da tempo nel nostro ordinamento, ed è oggi previsto in via generale dall’art. 113, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali – t.u.e.l.), introdotto dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, come modificato dalla relativa legge di conversione. Tale previsione può essere assunta a paradigma del modello anche ai fini della soluzione del quesito in oggetto, che pure si caratterizza per una disciplina ad hoc.
Sempre in via generale, il codice dei contratti pubblici, se non prevede più una generalizzazione del modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento (come si è detto retro, al punto 5.2), contiene invece, all’art. 1, comma 2, una previsione di carattere generale sulle società miste, secondo la quale, “nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”. Anche in questo caso, la norma non intende affermare la generale ammissibilità delle società miste, che devono intendersi consentite nei soli casi già previsti da una disciplina speciale, nel rispetto del principio di legalità: si codifica soltanto il principio secondo il quale, in questi casi, la scelta del socio deve comunque avvenire “con procedure di evidenza pubblica” (non necessariamente, quindi, ai sensi della disciplina dello stesso codice).
La figura delle società miste compare anche nell’art. 32, al comma 1, lett. c), e al comma 3 (tale ultima disposizione è stata confermata nel testo definitivo nonostante i rilievi di questo Consiglio di Stato espressi nel parere della Sezione per gli atti normativi n. 355/06 del 6 febbraio 2006, relativo allo schema di codice dei contratti pubblici: cfr. infra, il punto 8.4).
7.1. L’art. 113, comma 5, lett. b), del t.u.e.l. dispone che l’erogazione dei servizi per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali “avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio …”, tra l’altro, “… b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”. Tale norma costituisce, in qualche modo, il paradigma del modello cui si ispira anche la normativa speciale per il SIAN che è oggetto del quesito in esame.
Lo stesso art. 113 prevede, nella distinta lettera c), in alternativa al ricorso alla società mista, il modello della società in house a capitale interamente pubblico, richiedendo solo per tale caso i requisiti del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività” in favore dell’ente pubblico di appartenenza identificati dalla sentenza Teckal. Ciò sembra confermare quanto affermato retro (al punto 5 e ai relativi sottopunti) a proposito della differente disciplina dei due modelli della società mista e della società in house, anche con riguardo ai requisiti richiesti dal diritto europeo.
7.2. La figura delle società a capitale misto è stata configurata da autorevole dottrina come una forma di “collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico servizio”; tale figura, costituendo una modalità organizzativa ulteriore per la soddisfazione delle esigenze generali, rende più flessibile la risposta istituzionale a determinate esigenze e può risultare – se ricondotta nei canoni del pieno rispetto dei principi comunitari – di particolare efficacia, almeno in certi casi (cfr., nello stesso senso, il Libro Verde della Commissione europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento europeo del 26 ottobre 2006, richiamati amplius infra, al punto 8.5).
Inoltre, la necessità di una gara per la scelta del socio – oltre a confermare l’esclusione della riconducibilità alla figura dell’in house – ha condotto a ritenere non corretto annoverare tale figura tipo di affidamento tra quelli “diretti”.
Tuttavia, la stessa dottrina – alla luce dell’evoluzione in senso restrittivo della giurisprudenza comunitaria – ha messo in evidenza la debolezza della tesi della equiparazione automatica fra la procedura di scelta del socio e la gara per l’affidamento del servizio. Pur riconoscendo la funzionalità del modello, si afferma come ci si trovi di fronte ad una “figura peculiare che potrà presentare non pochi problemi attuativi e che, per non essere censurata, dovrà ricevere una applicazione attenta”.
7.3. Sempre in relazione al modello generale, si ricorda l’intervento dell’art 13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito dalla legge n. 248 del 2006, il quale ha introdotto una articolata disciplina che, in linea con i più recenti orientamenti comunitari volti a limitare l’in house providing, ma anche in relativa autonomia da essi, mira a evitare il fenomeno della c.d. cross subsidization delle società pubbliche, per cui esse operano al di fuori degli ambiti territoriali di appartenenza, acquisendo commesse da enti pubblici diversi da quelli controllanti od affidanti i contratti in house. In tale nuovo regime il d.l. n. 223 del 2006 ha equiparato i due diversi modelli delle società in house e del partenariato pubblico-privato.
In particolare, si è disposto che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali (non da quelle statali, come invece avviene nel caso di specie) per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali:
– devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene fissata, quindi, la regola dell’esclusività, in luogo di quella della prevalenza);
– non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti;
– sono ad oggetto sociale esclusivo (l’oggetto sociale esclusivo – è stato affermato – non sembra debba essere inteso come divieto delle c.d. multiutilities, ma appare preferibile ritenere che rafforzi regola dell’esclusività evitando che dopo affidamento la società possa andare a fare altro).
Si ricorda come alcune Regioni (in particolare, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia) hanno impugnato la norma dinanzi alla Corte Costituzionale, ritenendola discriminatoria delle società regionali e locali, rispetto a quelle statali e limitativa della capacità contrattuale delle società con riferimento a partecipazioni ulteriori.
7.4. Dell’esigenza, de iure condendo, di un contesto normativo generale più organico e restrittivo a favore della concorrenza si è fatto carico il recente disegno di legge governativo recante “Delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali” (atto Senato n. 772 della XV legislatura, presentato il 7 luglio 2006), il quale prevede che “l’affidamento delle nuove gestioni ed il rinnovo delle gestioni in essere dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore”, consentendo soltanto “eccezionalmente” l’affidamento a società totalitarie in presenza dei noti presupposti comunitari e alle società miste locali.
Il d.d.l. AS 772 (all’art. 2, comma 1, lettere c) e d) ) condiziona il ricorso a queste ultime alla “stretta inerenza delle modalità di selezione e di partecipazione dei soci pubblici e privati agli specifici servizi pubblici locali oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci privati mediante procedure competitive” (come recita la relazione di accompagnamento al d.d.l.). Si prevede, inoltre, la necessità di “norme e clausole volte ad assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili situazioni di conflitto di interessi”.
La possibilità di acquisire la gestione di servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quelli di appartenenza viene esclusa dal d.d.l. per i soggetti già affidatari in via diretta di servizi pubblici locali, nonché per le imprese partecipate da enti locali, che usufruiscano di finanziamenti pubblici diretti o indiretti, salvo che si tratti del ristoro degli oneri di servizio relativi ad affidamenti effettuati mediante gara, sempreché l’impresa disponga di un sistema certificato di separazione contabile e gestionale.
Inoltre, si prevede che l’ente locale debba “adeguatamente motivare le ragioni che, alla stregua di una valutazione ponderata, impongono di ricorrere” alle modalità di affidamento diretto, anziché alle modalità di affidamento tramite procedure competitive ad evidenza pubblica, e “che debba adottare e pubblicare secondo modalità idonee il programma volto al superamento, entro un arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso a procedure ad evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a tale fine”.
8. In conclusione, può affermarsi che il modello della “società a capitale misto pubblico privato” esiste – come distinto dall’in house – nell’ordinamento nazionale, sia nella disposizione generale dell’art. 113 t.u.e.l. che in varie disposizioni speciali (come quella per il SIAN nel caso di specie). D’altro canto, però, tale disciplina è in evoluzione, sia de iure condito (art. 1, comma 2, e art. 32 del d.lgs. n. 163 del 2006; art. 13 del d.l. n. 223 del 2006) che de iure condendo (AS n. 772), poiché continua a suscitare perplessità la piena compatibilità di tale modello con il sistema comunitario, alla stregua della recente e rapida evoluzione giurisprudenziale (che sembra ancora in corso) e stante l’assenza di decisioni specifiche sul punto.
La Sezione – nei limiti del quesito in esame – ritiene possibile affermare che tale compatibilità possa essere rinvenuta, alla stregua dei principi espressi, direttamente o indirettamente, dalla Corte di giustizia, quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni, di cui si dirà infra, al punto 8.3 – non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo.
In altri termini, in questo caso, indicato di regola come quello del “socio di lavoro”, “socio industriale” o “socio operativo” (come contrapposti al “socio finanziario”), questo Consiglio di Stato ritiene che l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità di socio.
La peculiarità rispetto alle ordinarie procedure di affidamento sembra allora rinvenirsi, in questo caso, non tanto nell’assenza di una procedura di evidenza pubblica (che, come si è detto, esiste e opera uno specifico riferimento all’attività da svolgere) quanto nel tipo di controllo dell’amministrazione appaltante sul privato esecutore: non più l’ordinario “controllo esterno” dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, ma un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, laddove esso si giustifichi in ragione di particolari esigenze di interesse pubblico (che nell’ordinamento italiano sono comunque individuate dalla legge).
A tale conclusione sembra doversi giungere alla stregua delle argomentazioni che seguono.
8.1. Non appare, in primo luogo, condivisibile alla Sezione la posizione “estrema” secondo la quale, per il solo fatto che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso possibile l’affidamento diretto.
Soprattutto, tale ipotesi suscita perplessità per il caso di società miste “aperte”, nelle quali il socio, ancorché selezionato con gara, non viene scelto per finalità definite, ma soltanto come partner privato per una società “generalista”, alla quale affidare direttamente l’erogazione di servizi non ancora identificati al momento della scelta del socio e con lo scopo di svolgere anche attività extra moenia, avvalendosi semmai dei vantaggi derivanti dal rapporto privilegiato stabilito con il partner pubblico.
Esula, però, dall’oggetto specifico del quesito in esame l’approfondimento di tale ipotesi, poiché, come si vedrà, essa non sussiste nel caso di specie (cfr. infra, il punto 9 e relativi sottopunti).
8.2. Non sembra alla Sezione condivisibile neppure l’opposta ipotesi “estrema” (che potrebbe avere, invece, dei riflessi diretti sulla soluzione del quesito in oggetto), secondo la quale la giurisprudenza comunitaria in materia di in house – e in particolare quella secondo la quale il “controllo analogo” è escluso quando la società è partecipata da privati (cfr. la più volte citata sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – Stadt Halle e RPL Lochau) – comporta anche l’incompatibilità assoluta con i principi comunitari, in qualunque caso, dell’affidamento a società miste.
8.2.1. In tal senso si è di recente pronunciato anche il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia (decisione 27 ottobre 2006 n. 589), che ha ritenuto “doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”.
Se nessuno sembra porre in discussione la necessità della gara per la scelta del socio (ribadita in via generale, come si è detto, dal codice dei contratti pubblici all’art. 1, comma 2), si rileva, a sostegno di tale tesi estrema che, pur “in un quadro giurisprudenziale in generale incline ad escludere la necessità della seconda gara (cfr. da ultimo Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272) sembrano emergere opinioni dottrinali di segno contrario”, secondo le quali:
– configura una restrizione del mercato e della concorrenza l’obbligo per l’imprenditore di conseguire l’affidamento di un servizio, solo entrando in una società, per molti versi anomala, con l’amministrazione;
– la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio non è sovrapponibile, quanto ai contenuti e alle finalità, a quella per l’affidamento del servizio; la prima è preordinata alla selezione del socio privato in possesso dei requisiti non solo tecnici ed organizzativi, ma anche e soprattutto finanziari, tali da assicurare l’apporto più vantaggioso nell’ingresso nella compagine sociale; la seconda è invece esclusivamente diretta alla scelta del soggetto che offra maggiori garanzie per la gestione del servizio pubblico;
– il sistema di affidamento diretto alla società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del socio privato) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto comunitario;
– se, infatti, un’impresa privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere che l’autorità aggiudicatrice non possa esercitare su tale società “un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di un’operazione interna (cfr., anche per i richiami in essa contenuti, Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. I, 10 novembre 2005, causa C-29/04 04 – Mödling o Commissione c/ Austria).
In conclusione, secondo tale ipotesi estrema, la costituzione di una società mista (con partner scelto dopo una gara) non esimerebbe in nessun caso dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio.
8.2.2. La Sezione ritiene che le ragioni poste a sostegno di tale tesi – pur se tutte condivisibili – possano tuttavia condurre a conclusioni differenti da quella dell’obbligo, in ogni caso, di una seconda gara.
Occorre, infatti, evitare – ad avviso della Sezione – di interpretare i dicta della Corte di giustizia in modo da far loro conseguire affermazioni che, al di fuori dei casi di specie esaminati in quella sede, potrebbero portare, paradossalmente, ad effetti opposti, e addirittura contrari allo spirito dei principi sempre affermati dalla Corte di giustizia.
Come già ricordato in precedenza, nelle fattispecie che hanno condotto alle decisioni più spesso richiamate in materia, la Corte di giustizia ha escluso che si potesse applicare il modello dell’in house, ma non si è pronunciata espressamente sulle condizioni di applicabilità di altri modelli (come sono, appunto, le società miste) nei quali fosse comunque presente un’applicazione dei principi dell’evidenza pubblica. Difatti, in quei casi il soggetto privato non era stato scelto con gara: sussisteva, quindi, una totale pretermissione delle procedure di evidenza pubblica.
A titolo di mero esempio, nella causa C-458/03 – Parking Brixen la gestione del parcheggio, già affidata ad un operatore, era stata revocata per trasferirla direttamente alla società partecipata, con evidente lesione dei principi di tutela della concorrenza; la causa C-26/03 – Stadt Halle si riferiva ad un affidamento diretto disposto nel 2001 a favore di una società mista, costituita nel 1996 senza alcuna connessione con l’esercizio dello specifico servizio. Anche nel caso C-340/04 – Carbotermo la procedura selettiva per l’affidamento del servizio era stata sospesa e poi revocata dalla stazione appaltante (lo stesso è avvenuto per la causa C-410/04 – ANAV), al solo scopo di affidare direttamente le prestazioni alla società mista da questa controllata.
La giurisprudenza comunitaria sopra richiamata appare dunque riferirsi, secondo il Collegio, a violazioni conclamate del diritto degli appalti, dal momento che l’affidamento dei relativi servizi era stato disposto senza alcuna possibilità per gli operatori di settore di concorrere per la sua aggiudicazione.
La Sezione ritiene che non si possa far derivare da tale giurisprudenza anche la conseguenza – che appare estranea ai casi in quella sede esaminati – secondo la quale sarebbe necessaria l’indizione, da parte dell’amministrazione, di una gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare come socio (addirittura maggioritario) della società mista aspirante aggiudicataria.
La negazione dei principi della concorrenza varrebbe, in questa ipotesi, non solo nel caso in cui il socio privato fosse stato scelto senza gara, ma anche nel caso in cui esso fosse stato scelto con una diversa e precedente procedura di evidenza pubblica: in entrambi i casi, sembrano comunque ravvisarsi elementi di conflitto di interessi e di distorsione del mercato, senza risolvere la pretesa “anomalia” della società mista ma anzi consentendole di conservare, nel confronto con le altre imprese “solo” private, la sua “situazione privilegiata” dell’essere partecipata dalla stessa amministrazione che indice l’appalto.
8.2.3. La difficile sostenibilità di un affidamento tramite una procedura di evidenza pubblica nella quale l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento condurrebbe di fatto, ad avviso della Sezione, alla totale negazione del modulo. Ciò avverrebbe anche nei casi in cui la legge consente, perché le ritiene funzionali, ulteriori forme di intervento rispetto alle due ipotesi alternative “tutta pubblica” e “tutta privata”.
Ma allora, nella visione estrema sopra descritta, la condivisa inconfigurabilità del modello dell’in house per le società miste rischierebbe di condurre, ad avviso della Sezione, a far valere gli indirizzi della Corte di Lussemburgo come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna procedura selettiva e senza alcun ricorso al mercato. Questa Sezione ritiene, invece, che l’affidamento a soggetti pubblici al 100% costituisca, in qualche modo, la negazione del mercato: non si può immaginare che la Corte di giustizia preferisca tale soluzione rispetto ad un modello che faccia invece rientrare in gioco il mercato e i privati, tramite regolari procedure di gara e con garanzie precise che possono comunque delimitare (come si dirà infra, al par. 7.5.3) l’affidamento nell’oggetto e, soprattutto, nel tempo.
Risulterebbe allora paradossale, nella logica comunitaria della tutela della concorrenza, limitare le opzioni di intervento ai soli due estremi assoluti e quindi consentire – sia pure con criteri interpretativi molto restrittivi – una soluzione “tutta pubblica” come unica alternativa a quella, del tutto opposta, del ricorso “pieno” al mercato.
Appare, infatti, illogico ammettere, in alternativa all’affidamento del 100% del servizio all’esterno, la (sola) rinuncia totale al mercato con la società pubblica in house e non consentire, invece – in settori specifici, individuati dalla legge considerando la peculiarità di una data materia e quindi l’inopportunità di una totale devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire il servizio interamente alla “parte pubblica” – un’apertura parziale a più flessibili “forme di collaborazione” pubblico-privato, laddove tale apertura si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio e – soprattutto – sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza dell’oggetto e della durata dell’affidamento che sole possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello ad un affidamento all’esterno (sia pure per certi aspetti peculiare) e non come un affidamento in house.
In altri termini, se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con procedure di evidenza pubblica: la quota esterna alla pubblica amministrazione è, cioè, reperita con il ricorso ad un mercato che è certamente premiato, diversamente da quanto avviene nel caso della “chiusura in se stessa” dell’amministrazione in un modello di pura autoproduzione. E ciò avviene coniugando l’interesse alla valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti resterebbero disattese da una logica di monopolio pubblico, con l’interesse dell’amministrazione pubblica alla scelta di moduli organizzatori che le consentano di esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante) ma interno ed organico (come partner societario) sull’operato del soggetto privato selezionato per la gestione.
8.3. Alla stregua di quanto esposto, sembra allora ammissibile il ricorso alla figura della società mista (quantomeno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento diretto”, ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al “socio operativo” della società.
Peraltro, si ricorda che il suddetto modello non è ordinario nel nostro sistema e che – salvi i non frequenti casi (come quello di specie) in cui il legislatore lo impone senza alternative – l’amministrazione deve comunque motivare in modo adeguato perchè si avvale di una società mista invece di rivolgersi integralmente al mercato.
Inoltre, il ricorso a tale figura deve comunque avvenire a condizione che sussistano – oltre alla specifica previsione legislativa che ne fondi la possibilità, alle motivate ragioni e alla scelta del socio con gara, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 – garanzie tali da fugare gli ulteriori dubbi e ragioni di perplessità in ordine alla restrizione della concorrenza.
In particolare, appare possibile l’affidamento diretto ad una società mista che sia costituita appositamente per l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell’autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche – tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in parternariato con l’amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di parternariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.
In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie:
1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo”, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;
2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento” (in tal senso, soccorre già una lettura del comma 5, lett. b), dell’art. 113 t.u.e.l. in stretta connessione con il successivo comma 12), evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista, possibilmente prevedendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all’esito della successiva tara egli risulti non più aggiudicatario.
Almeno nella specifica ipotesi sopra descritta (ma di altre eventuali possibilità, come si è detto, la Sezione non deve occuparsi, stante l’oggetto del quesito) sembra potersi affermare il rispetto dei principi comunitari anche alla stregua della giurisprudenza più rigorosa e delle perplessità dottrinarie sopra richiamate (cfr. retro, il punto 7.2 e lo stesso punto precedente 8.2) le quali, come si è detto, sono pienamente condivise dalla Sezione.
In particolare, in questo caso, grazie alla esistenza di una gara che con la scelta del socio definisca anche l’affidamento del servizio “operativo”, non sembrerebbe doversi temere quanto affermato nella più volte citata sentenza C-26/03 – Stadt Halle e RPL Lochau, secondo la quale “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.
Allo stesso modo, sembra non riferirsi al caso in esame anche l’altra importante affermazione della stessa sentenza, secondo la quale “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”. Ad avviso della Sezione, la presenza di un “interesse privato” appare, nel caso in esame, ricondotta entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo “operativo” e non “finanziario” del socio privato da scegliere.
In tal caso dovrebbe, quindi considerarsi rispettato il precetto conclusivo di quella sentenza, laddove dichiara “che, nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate”: la stretta connessione, in una sola gara, della scelta del socio con l’affidamento dell’appalto sembra ottemperare all’obbligo di applicazione della direttiva statuito dalla Corte di Lussemburgo.
Parimenti insussistente appare, nel caso qui ipotizzato, l’altro rischio paventato dalla recente sentenza 18 gennaio 2007, causa C-220/05 – Jean Auroux (e in particolare dalle conclusioni dell’Avvocato Generale), a proposito del ricorso al subappalto da parte della società mista. Nel caso di subappalto, ben può verificarsi il pericolo che “l’oggetto di ogni appalto successivo rappresenti soltanto una quota dell’appalto totale. Ne può derivare che il valore degli appalti susseguenti aggiudicati da una seconda amministrazione aggiudicatrice sia inferiore a quello previsto all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva. Così, attraverso l’attuazione di una serie di appalti successivi, l’applicazione della direttiva potrebbe essere elusa”. Nell’ipotesi, qui profilata, del “socio di lavoro” scelto con gara sembra avvenire l’opposto: la società mista non “subappalta” alcunché, mentre il servizio “operativo” viene affidato direttamente in appalto, per tutto il suo valore, al socio “industriale” che opera sotto il controllo del “socio pubblico”.
8.4. La Sezione è dell’avviso che tale assetto – che sembra essere molto vicino a quello che verrebbe, auspicabilmente, meglio chiarito e codificato con l’approvazione dell’iniziativa legislativa in corso (atto Senato n. 772, descritto retro, al punto 7.4) – già oggi non può dirsi escluso dalla normativa vigente, che non va quindi necessariamente “disapplicata” ma, ove possibile, adeguata anche in via intepretativa, alla luce dei principi comunitari definiti dalla Corte di Lussemburgo.
Peraltro, in senso pressoché analogo si era espresso anche il parere (citato retro, al punto 7) n. 355/06 del 6 febbraio 2006 della Sezione per gli atti normativi di questo Consiglio, relativo allo schema di codice dei contratti pubblici. In quella sede, oltre a richiedere una modifica (non recepita dal Governo) della disposizione oggi ancora contenuta nell’art. 32, comma 3, del codice, si era anche affermato che “in ogni caso, ove si intenda mantenere la previsione, sul presupposto di una portata ampia della legge delega, che in ogni caso chiama il Governo alla definizione di un nuovo quadro giuridico per il recepimento, dovrebbe risultare chiaro che la gara per la scelta del socio è stata svolta in vista proprio della realizzazione dell’opera pubblica o del servizio che successivamente si affida senza gara, con menzione delle caratteristiche dell’opera e del servizio nel bando della gara celebrata per la scelta del socio. Ciò al fine di assicurare che il mercato sia stato messo in grado di conoscere la serie di atti che vengono poi posti in essere con l’affidamento diretto.”.
Si veda pure, sempre nel senso anzidetto, la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato n. 3672/05 – che si riferisce ad un caso in cui un comune pugliese aveva bandito una gara per la costituzione di una società alla quale contestualmente affidare la gestione dell’anagrafe tributaria comunale – laddove afferma che, ovviamente, tale modello è ben diverso da quello dell’in house, ma soprattutto che “tale tipo di parternariato pubblico-privato altro non è che una “concessione” esercitata sotto forma di società, attribuita in esito ad una selezione competitiva che si svolge a monte della costituzione del soggetto interposto” (cfr. anche, nello stesso senso, V sez., n. 272/05 e n. 2297/02).
8.5. L’esistenza di una gara che conferisca, di fatto, al socio privato l’“affidamento sostanziale” del servizio svolto dalla società mista consente di ricondurre l’ipotesi in questione a quel legittimo fenomeno di “parternariato pubblico-privato” (PPP) già da tempo affrontato dalle istituzioni comunitarie.
Si fa riferimento al Libro Verde pubblicato dalla Commissione europea il 30 aprile 2004 (cfr., in particolare, il par. 3, punti 53 ss.), laddove si afferma che la “cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria …”, tra l’altro, “permette al partner pubblico di conservare un livello di controllo relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni …”.
Tali tipologie di parternariato – prosegue la Commissione europea – non essendo disciplinate direttamente dal diritto comunitario degli appalti, dovrebbero comunque essere assoggettate al rispetto delle norme e dei principi in materia, non potendo “la scelta del partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del funzionamento di un’impresa mista … essere dunque basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua offerta – che economicamente è la più vantaggiosa – per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire” (Libro Verde, cit., punto 58; cfr. pure i successivi punti 61, 62 e 63, che appaiono in linea con le affermazioni sin qui svolte dalla Sezione).
Le medesime conclusioni sono state fatte proprie dal Palamento europeo nella recente “Risoluzione sui parternariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” del 26 ottobre 2006 (2006/2043 (INI)), dove si afferma, tra l’altro, che “se il primo bando di gara per la costituzione di un’impresa mista è risultato preciso e completo, non è necessario un ulteriore bando di gara” (punto 40).
9. Una volta ritenuta configurabile in via generale, sia pure nei limiti e alle condizioni sopra esposti, l’ammissibilità del ricorso a una società mista, occorre ora verificare se tali limiti e condizioni siano riscontrabili nel peculiare caso di specie, alla stregua della disciplina speciale ivi prevista e della più precisa descrizione fornita dalla riferente amministrazione con la richiesta di riesame del quesito.
9.1. Dalla descrizione dell’assetto della specifica disciplina del caso di specie si evince non tanto un “interesse dell’amministrazione” a ricorrere al modello in esame (che, di per sé, nonostante l’espressa previsione legislativa, potrebbe non rivelarsi sufficiente, come si è detto retro, al punto 6) ma piuttosto quasi una necessità, in considerazione della stretta connessione del SIAN con l’esercizio di funzioni pubbliche (che appaiono ben definite dall’art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998, riportato retro, al punto 3.1).
Tale connessione – adeguatamente evidenziata dalla nuova ricostruzione del Ministero riferente (riportata retro, ai punti 3.3 e 3.4) – non sembra consentire un integrale affidamento all’esterno del Sistema Informativo Agricolo Nazionale, pur rinvenendosi, per converso, l’esigenza di una peculiare professionalità e specializzazione tecnologica nella gestione del sistema medesimo che richiede, a condizioni ben definite, la “collaborazione” di un soggetto privato, altamente qualificato, che predisponga e mantenga l’infrastruttura tecnica necessaria a consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul Servizio Informativo.
Nel caso di specie, in effetti, non si può parlare di vero e proprio “affidamento di un appalto” alla società mista SIN, che difatti svolge funzioni pubbliche affidatele ope legis, ma di necessità di individuare, con gara, un partner privato che svolga un servizio di supporto tecnologico (servizio ben definito in concreto e a tempo determinato, come si vedrà), con la sola particolarità che – alla stregua delle particolari esigenze di interesse pubblico del caso di specie – questo servizio di supporto (come si è detto, in via generale, retro, al punto 8) non viene svolto con un “controllo esterno” da parte dell’amministrazione appaltante, ma con un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, nel caso di specie anche maggioritario.
In altri termini, sembra potersi rinvenire, ad avviso della Sezione, una connessione inscindibile tra la costituzione della società e l’esercizio delle funzioni del Sistema Informativo Agricolo Nazionale, molte delle quali – come si è detto – appaiono di tipo amministrativo e non delegabili ai privati. Ciò consente di fugare, in concreto, i dubbi di violazione della concorrenza che potrebbero invece insorgere laddove tali due momenti fossero separati ponendo l’accento su un “affidamento diretto” alla società mista, considerata come un soggetto privo di compiti amministrativi.
In questo caso, invece, l’affidamento vero e proprio appare in qualche modo traslato dall’AGEA alla società ad hoc prevista dalla legge, per intervenire nell’unico momento in cui occorre istituire un “interfacciamento” tra pubblico e privato e far ricorso a un “patrimonio di conoscenze tecniche e tecnologie specializzate ed aggiornate tipiche delle imprese private”: il momento della scelta del “socio di lavoro” con una gara che, al tempo stesso, ne definisca specificamente il ruolo (e, quindi, il servizio da rendere), ne chiarisca le forme di controllo “interno” da parte dell’amministrazione e ne delimiti temporalmente la durata.
9.2. Una volta rilevata la peculiarità del caso in esame – che consente quantomeno di rinvenire l’esistenza di particolari ragioni che inducono a ritenere funzionale il ricorso alla figura della società mista come “forma di collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori” – appare altresì sussistere, in capo al socio privato, la prima delle condizioni individuate retro, al punto 8.3, ovvero quel ruolo di “socio operativo, o di lavoro”, munito delle necessarie conoscenze tecnico-informatiche per consentire alla società pubblico privata di prestare il servizio informatico previsto dalla legge.
Nella fattispecie, come si ricava dagli ulteriori chiarimenti forniti alla Sezione nella richiesta di riesame, la procedura di selezione non ha mirato soltanto alla scelta di un socio privato, ma ha anche delineato in modo chiaro i compiti che il socio privato è chiamato a svolgere e il ruolo di controllore del socio pubblico rispetto alle attività “operative” del socio privato.
Come si ricava da più aspetti degli atti di gara (dal peso preponderante fornito alla parte tecnica dell’offerta al contratto di servizio quadro che costituiva parte integrante della disciplina dell’appalto, ai patti parasociali resi pubblici negli atti di scelta del contraente), la procedura selettiva era stata apertamente finalizzata all’individuazione di un “socio industriale”, il cui apporto non si sarebbe esaurito nel conferimento di capitali, ma sarebbe principalmente consistito nell’assunzione in proprio delle prestazioni affidate alla società nel suo complesso, con l’accollo di tutti i rischio connessi alla gestione tecnico-finanziaria. L’AGEA, insomma, ha predisposto una procedura concorsuale finalizzata non alla selezione di un semplice socio finanziario, bensì alla individuazione di un partner “operativo” chiamato a svolgere le prestazioni strumentali alla gestione e sviluppo del SIAN all’interno della società mista.
In altri termini, nel caso di specie non sembrano rinvenirsi possibilità di elusione della normativa comunitaria, poiché, come richiesto dall’ipotesi generale identificata retro, al punto 8 e ai relativi sottopunti, lo stesso bando ha mirato non solo alla scelta del socio, ma anche all’affidamento del servizio “operativo” da svolgere.
9.3. Oltre alla precisa definizione dell’oggetto dell’affidamento al privato che sarebbe stato prescelto come socio della SIN, la gara ha altresì soddisfatto la seconda condizione sopra indicata: quella della durata temporalmente limitata del parternariato.
Come si evince dagli atti, la partecipazione del socio privato al capitale della società ha carattere temporaneo e limitato nel tempo, con una durata di nove anni (tale elemento non ha, peraltro, limitato la partecipazione alla gara, atteso il considerevole numero di partecipanti).
Altrettanto definite appaiono, nel caso di specie, le modalità di “uscita” del socio privato alla scadenza del termine: dopo i nove anni, infatti, è previsto che le quote del socio private siano trasferite al socio pubblico al prezzo che sarà determinato, in base a regole già fissate e contenute nei documenti di gara, da un advisor nominato da entrambi i soci. L’importo in questione costituirà la nuova base d’asta per il successivo periodo, ed in tal modo l’AGEA non sarà neppure gravata da oneri per il riacquisto delle quote.
Tale dettagliata disciplina appare alla Sezione particolarmente importante, poiché in tal modo non si può neanche astrattamente configurare, nel caso di specie, una situazione – che certamente avrebbe destato perplessità in ordine alla compatibilità con il sistema europeo degli appalti pubblici – in cui il privato, pur se scelto con gara pubblica, potrebbe divenire parte integrante, a tempo indeterminato, del soggetto pubblico che svolge determinate funzioni, fruendo così di una distorsiva rendita di posizione.
9.4. Non sembra, infine, che si possa rinvenire una residuale incompatibilità della situazione in esame con la nuova (e per certi versi più restrittiva degli stessi principi comunitari) disciplina di cui all’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito dalla legge n. 248 del 2006.
Difatti, l’ambito di applicazione soggettivo del d.l. riguarda (salve ovviamente le contestazioni delle Regioni dinanzi alla Corte costituzionale) le società “costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali”, mentre qui si verte di una società costituita da un ente statale, e in ogni caso la normativa in questione si potrebbe configurare come lex specialis (poiché relativa specificamente al Sistema Informativo Agricolo Nazionale), derogatoria rispetto alla previsione generale del d.l. n. 223, ancorché antecedente ad essa.
Ma, anche a prescindere da ciò e a far assurgere il contenuto dell’art. 13 a norma di principio, integrativa della disciplina di tutte le società miste, si rileva come la SIN appaia rispettare, in concreto, anche tale nuova e più restrittiva disciplina. Difatti, secondo le attestazioni della riferente amministrazione, essa “svolge le attività solo nel settore assegnato dallo Statuto in coerenza con la legge che prevede la sua istituzione e solo con riferimento ai soggetti pubblici interessati al servizio stesso, così come precisamente individuati nell’art. 15 del d.lgs. 30 aprile 1998, n. 173”.
9.5. Alla stregua di quanto esposto, il caso di specie sembra quindi rientrare, sotto tutti i suoi aspetti, nel caso generale di cui si è detto retro, al punto 8 e ai relativi sottopunti: può quindi affermarsi la sua complessiva compatibilità con la normativa comunitaria e nazionale.
La ammissibilità della scelta legislativa del modello della società mista nel caso di specie non esime, ovviamente, l’amministrazione dal perseguimento di tutte le ulteriori cautele che si impongono in una situazione di così stretta commistione tra l’esercizio di funzioni pubbliche e l’attività del socio “operativo” privato.
Esse non costituiscono oggetto del quesito e vertono, peraltro, su aspetti non esaurientemente trattati dalla riferente amministrazione. Tuttavia, la Sezione ritiene opportuno, comunque, richiamare l’attenzione del Ministero sull’esigenza di considerare tale aspetto: si pensi, ad esempio, alla necessità che nell’ambito della società SIN sia ben definito il regime del trattamento dei dati riservati relativi ad amministrazioni pubbliche e dei dati personali dei soggetti privati (come si è detto, il SIAN è interconnesso, tra l’altro, con l’Anagrafe tributaria del Ministero delle finanze, con i Nuclei antifrode specializzati della Guardia di finanza e dell’Arma dei carabinieri, con l’INPS, con le camere di commercio, etc.).
P.Q.M.
Nelle esposte considerazioni è il parere della Sezione.
IL PRESIDENTE DELLA SEZIONE (Livia Barberio Corsetti) L’ESTENSORE
(Luigi Carbone)