Con i commi 159, 160 e 161 dell’art. 2 della l. n. 286/2006 la disciplina di cui al comma 8 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, che prevede che gli incarichi dirigenziali di vertice “cessano decorsi novanta giorni dal voto di fiducia del Governo”, era stata estesa anche agli incarichi dirigenziali non apicali, di cui ai commi 5-bis e 6 dell’art.19 citato.
Il Tar Lazio ritiene adesso, con ordinanza depositata lo scorso 1 ottobre, “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 159, 160 e 161, del d.l. 31 ottobre 2006, n. 262, convertito con modifiche nella legge 24 novembre 2006, n. 286, per contrasto con gli artt. 3, 97, 98, 35, comma 1, e 36 della Costituzione”.
Di seguito, le considerazioni critiche del Tar Lazio sulla normativa approvata lo scorso anno.
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TAR Lazio, sezione Terza – bis
Ordinanza 1 ottobre 2007 n. 1143
(presidente Corasaniti, estensore Calveri)
(…)
4.1.- I ricorrenti, tutti dipendenti del Ministero della Pubblica Istruzione, impugnano il decreto ministeriale 1 dicembre 2006, con il quale è stato autorizzato il conferimento di 91 incarichi dirigenziali ai sensi dei commi 5-bis e 6 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001; impugnano altresì la nota prot. n. 1012 del successivo 2 dicembre con la quale il Capo Dipartimento del medesimo Ministero ha inviato una circolare ai Direttori generali degli Uffici scolastici centrali e regionali nella quale chiede a questi ultimi di invitare i soggetti, già destinatari di incarichi dirigenziali conferiti ai sensi dei commi 5-bis e 6 del predetto art. 19 e poi cessati in base alla normativa introdotta con l’art. 2, commi 159, 160 e 161, del d.l. n. 262/2006 convertito nella legge n. 286/2006, a riassumere il servizio presso le amministrazioni di appartenenza.
I ricorrenti, cui erano stati conferiti incarichi dirigenziali ai sensi dei commi 5-bis e 6 del precitato art. 19, sono cessati dall’incarico per effetto della richiamata normativa del 2006 che ha risolto i relativi rapporti di lavoro ancorché efficaci e quindi in via di svolgimento.
In particolare, i ricorrenti sono stati destinatari del comma 161 dell’art. 2 del d.l. n. 262/2006, il quale ha dettato la seguente disciplina transitoria: “In sede di prima applicazione dell’articolo 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, come modificato e integrato dai commi 159 e 160 del presente articolo, gli incarichi ivi previsti, conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, fatti salvi, per gli incarichi conferiti a soggetti non dipendenti da pubbliche amministrazioni, gli effetti economici dei contratti in essere”.
Conseguente all’applicazione della norma, che ha comportato ope legis la cessazione anticipata degli incarichi dirigenziali già ricoperti dai ricorrenti, è stata l’adozione dei provvedimenti ministeriali impugnati sia con il ricorso principale che con i motivi aggiunti.
Di tali provvedimenti viene dedotta, con i primi tre motivi di ricorso, l’illegittimità in via derivata dall’incostituzionalità dei commi 159, 160 e 161 dell’art. 2 della legge n. 286/2006. E’ però evidente che la censura di non conformità a Costituzione si appunta principaliter sulla norma di cui è stata fatta specifica applicazione, e cioè sulla norma transitoria dettata con il summenzionato comma 161.
Ciò non significa però, secondo quanto opposto dalla difesa dell’amministrazione, che il thema decidendum vada circoscritto al vaglio di costituzionalità della sola disciplina transitoria di cui è stata fatta applicazione, atteso che tale disciplina si pone in logica e giuridica connessione con quella introdotta in via generale con il comma 159 dell’art. 2 della legge n. 286/2006 che ha ampliato la platea di destinatari del coma 8 dell’art. 19 della legge n. 165/2001, estendendo il c.d. spoil system anche agli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai più volte menzionati commi 5-bis e 6 di detto art. 19.
In proposito, non rileva la circostanza che, a differenza della disciplina a regime, nella norma transitoria si menzioni la possibilità della conferma dell’incarico quale ipotesi idonea a escludere la cessazione anticipata dell’incarico, perché quel che viene fondamentalmente contestato dai ricorrenti è l’illegittimità, sotto più profili costituzionali, dell’anticipata cessazione del loro rapporto di servizio; il che riguarda più direttamente la norma applicata (comma 161), che prevede la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali in questione al sessantesimo girono dalla data di entrata in vigore della legge n. 286/2006, ove non confermati entro detto termine, ma non può logicamente non interessare la norma con previsione a regime (comma 159) che correla la cessazione degli incarichi dirigenziali al novantesimo giorno “dal voto sulla fiducia del Governo”.
4.2.- Tanto premesso, ritiene il Collegio che la questione di legittimità costituzionale sollevata con il ricorso sia rilevante e non manifestamente infondata.
4.2.1.- Quanto alla rilevanza è evidente come l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 159, 160 e 161, della legge n. 286/2006 renderebbe illegittimi i provvedimenti di cessazione anticipata degli incarichi dirigenziali già conferiti ai ricorrenti e caducherebbe i provvedimenti impugnati, adottati in applicazione della normativa introdotta con l’anzidetto art. 2, legittimando i ricorrenti all’esperimento di eventuali azioni risarcitorie.
4.2.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità prospettate, il Collegio, aderendo alla argomentazioni difensive svolte in ricorso, ritiene che la normativa primaria qui censurata confligga:
a.- con l’art. 3, comma 1, Cost., e con il principio di eguaglianza da esso proclamato.
Con i commi 159, 160 e 161 dell’art. 2 della legge n. 286/2006 vengono ricondotti sotto una medesima disciplina, implicante l’interruzione automatica e anticipata della funzione dirigenziale (art. 19, comma 8, d.lgs. n. 165/2001), due situazioni affatto distinte, sicché la loro assimilazione giuridica non sembra trovare razionale giustificazione.
Infatti, gli incarichi dirigenziali menzionati al comma 3 dell’art. 19 si connotano per il rapporto fiduciario che lega i titolari di detti incarichi al potere governativo, caratterizzazione peculiare espressa dalla modalità con cui tali soggetti vengono nominati (gli incarichi sono conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente) e dalla natura dell’attività da essi dispiegata (gli incaricati coadiuvano nell’attività di indirizzo politico l’organo esecutivo).
Diversamente, gli incarichi dirigenziali di cui ai commi 5-bis e 6 dell’art. 19, in quanto assegnati direttamente dalle singole amministrazioni, sono privi dell’evidenziata caratterizzazione fiduciaria riscontrabile negli incarichi di cui al comma 3; quanto poi alla natura e all’incidenza della funzione dirigenziale sottesa a tali incarichi, trattasi normalmente di attività tecniche e gestionali cui sono estranei i profili di politicità che accedono agli incarichi dirigenziali di vertice.
Consegue, giusta l’annotazione contenuta in ricorso, che “il rapporto fiduciario che si instaura tra potere esecutivo e dirigenza di vertice, con ogni probabilità, giustifica che un nuovo Governo abbia la facoltà di ridisegnare l’intero apice dell’amministrazione, la cui omogeneità di vedute, pensiero politico e di obiettivi programmatici è vitale per un’azione di governo coordinata”, trovando il fenomeno dello spoil system origine e giustificazione nell’ora riferita e conchiusa fattispecie, donde l’irragionevolezza dell’estensione dell’istituto ai distinti incarichi dirigenziali di cui si è fatta menzione.
In proposito deve precisarsi che tale estensione, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso (pag. 8), non coinvolge “tutti i dirigenti generali” determinando una “mobilità” tale da “paralizzare la macchina amministrativa”, atteso – giusta l’annotazione della difesa erariale – che le modalità di cui ai commi 5-bis e 6 possono essere conferiti anche a dirigenti non generali e che le contestate procedure di conferimento sono comunque confinate nei limiti percentuali fissati in detti commi.
Le puntualizzazioni che precedono non rifluiscono comunque sulla rilevanza e fondatezza della censura di legittimità costituzionale qui dedotta e su quelle che seguono;
b.- con l’art. 97 Cost e, in particolare, con il principio di buona andamento dell’amministrazione.
Premesso, come ben si sostiene in ricorso, che il principio di buon andamento postula che l’amministrazione si doti di agenti di comprovata qualificazione professionale, è connaturale al principio che l’adibizione di detti agenti essi alla funzione amministrativa sia caratterizzata da tendenziale stabilità in modo da assicurare una certa continuità nel modus operandi della p.a..
Orbene, il sistema normativo qui censurato, comprimendo sul piano temporale la durata degli incarichi dirigenziali conferiti dall’amministrazione, comprime lo spazio costituzionalmente riservato a quest’ultima in ordine alla possibilità di scegliere modi, mezzi e tempi della propria organizzazione amministrativa; in particolare, di poter autonomamente decidere e all’esito di un valutazione delle attività disimpegnate dai propri funzionari, se questi debbano o meno cessare dagli incarichi conferiti dall’amministrazione medesima.
Ipotizzare invece, come consente il sistema legislativo de quo, di azzerare ope legis gli incarichi contrattualmente assunti, lungi dal realizzare l’esigenza costituzionale del buon andamento dell’amministrazione, sottende l’intento di favorire il reclutamento “di nuovi dirigenti legati al nuovo Esecutivo”;
c.- con l’art. 98 Cost., per il quale gli impiegati pubblici sono “al servizio esclusivo della Nazione”.
Le considerazioni da ultimo formulate, in ordine alla sostanziale ratio sottesa alla disciplina introdotta con l’art. 2, commi 159, 160 e 161 della legge n. 286/2006, induce a ritenere la violazione del canone costituzionale sopra richiamato, con vanificazione del principio che vuole il pubblico funzionario sottratto a condizionamenti che possano in qualche modo minare la sua imparzialità.
La imposta turnazione degli incarichi dirigenziali in questione rende l’assegnazione di questi ultimi – come pertinentemente prospettato in ricorso – legata soltanto al gradimento politico, così privando di rilevanza le capacità professionali dimostrate nel corso di svolgimento di detti incarichi;
d.- con l’art. 35, comma 1 Cost., per il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”.
Non può dubitarsi del fatto che la risoluzione ex lege del rapporto di lavoro si pone come lesiva dell’affidamento sorto in capo ai ricorrenti a seguito della stipula del relativo contratto; non può del pari dubitarsi che l’anticipata interruzione del rapporto lavorativo, operata senza motivazione e giustificazione e in assenza di una qualche garanzia procedimentale, sia ulteriormente lesiva della dignità dei ricorrenti, nella qualità di lavoratori, in quanto incisi da un provvedimento che in sostanza si atteggia come “ingiusto licenziamento”.
In proposito va richiamato l’insegnamento della Corte costituzionale secondo cui la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti non implica alcuna possibilità per la p.a. di recedere dal rapporto, “ma semplicemente che la valutazione dell’idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo – assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio, a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso” (cit. sent. n. 313/1996);
e.- con l’art. 36 Cost., il quale dispone che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del suo lavoro ed in ogni caso ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
L’anticipata cessazione del rapporto di lavoro, incidendo ingiustificatamente (alla luce di quanto sopra enunciato) sui rapporti contrattuali ancora in corso di svolgimento, ha certamente determinato in capo ai ricorrenti un pregiudizio patrimoniale ravvisabile nel venir meno degli effetti economici dei contratti già stipulati.
Il Collegio condivide la prospettazione secondo cui, in presenza di un pregiudizio in capo ai privati riveniente dalla funzionalizzazione di un interesse pubblico (sono state in proposito pertinentemente citate le fattispecie disciplinate agli artt. 11 e 21-quinquies della legge n. 241/1990), la p.a. sia tenuta al pagamento di un indennizzo o comunque a disporre una forma di reintegrazione patrimoniale mirata a preservare la sfera patrimoniale dei soggetti danneggiati.
Peraltro, nel caso all’esame, non è dato rinvenire l’esistenza di un effettivo pubblico interesse giustificativo della risoluzione di contratti di lavoro ancora validi, sicché tanto più le norme censurate avrebbero dovuto prevedere un effetto riparatore al pregiudizio arrecato ai destinatari dei provvedimenti interrottivi.
Deve poi in proposito rilevarsi – con ciò emergendo una disparità di trattamento (apprezzabile ex art. 3 Cost.) operata dal comma 161 dell’art. 2 della legge n. 286/2006 – che la preservazione del trattamento economico è stata prevista solo per “gli incarichi conferiti a soggetti non dipendenti da pubbliche amministrazioni”, con la conseguenza che la qualità di intraneus alla p.a. viene irragionevolmente assunta come circostanza giustificativa di un trattamento deteriore rispetto all’extraneus.
4.2.3.- Rileva peraltro il Collegio come, da ultimo, con la recente sentenza n. 103/2007, la Corte costituzionale, pronunciando su questione che presenta forti analogie con la tematica dedotta nel presente giudizio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge n. 145/2002 (“Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato”) nella parte in cui, in relazione agli “incarichi di funzione dirigenziale di livello generale” stabilisce che gli stessi cessano automaticamemente il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge.
La Corte ha rilevato che la norma summenzionata, “prevedendo un meccanismo (cosidetto spoil system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge in esame (id est: legge n. 145/2000), si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione”.
Ciò in quanto la disposizione, come formulata, “determinando una interruzione, appunto, automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito, viola, in carenza di garanzie procedimentali, gli indicati principi costituzionali e, in particolare, il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa”.
Ha soggiunto la Corte, richiamando gli esiti della complessa evoluzione legislativa che ha interessato il settore della dirigenza statale pervenendo a un nuovo atteggiarsi del rapporto tra politica e amministrazione, che le leggi di riforma della p.a. “hanno disegnato un nuovo modulo di azione che misura il rispetto del canone dell’efficacia e dell’efficienza alla luce di risultati che il dirigente deve perseguire nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita”; donde l’evidenza che “la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità al modello di azione sopra indicato”.
Facendo applicazione dei principi già affermati dalla giurisprudenza costituzionale (sent. n. 193/2002 e ord.za n. 11/2002), nella sentenza n. 103/2007 si ribadisce la necessità “che … sia comunque garantita la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentire la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato”.
L’esigenza dell’ora indicata fase procedimentale è ritenuta dalla Corte essenziale anche in ragione del rispetto del giusto procedimento amministrativo positivizzato dalla legge n. 241/1990, “all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall’organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativa. Precetto, questo, che è alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e organi burocratici e cioè tra l’azione di governo – che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione, la quale, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzioni di parte politiche e dunque al servizio esclusivo della Nazione (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento”.
Gli assunti argomentativi della Corte, dei quali si è ritenuto di riportare ampi stralci, sono significativamente espressivi in quanto consonanti alle censure di illegittimità costituzionale dedotte in ricorso nei riguardi di una normativa (art. 2, commi 159, 160 e 161 della legge n. 286/2006) che presenta profili di sostanziale identità con quella sottoposta al vaglio del giudizio della Corte medesima (art. 3, comma 7, della legge n. 145/2002); in particolare, delle censure che si appuntano sulla violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione.
5.- Alla stregua di tutte le considerazioni che precedono si solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 159, 160 e 161, del d.l. 31 ottobre 2006, n. 262, convertito con modifiche nella legge 24 novembre 2006, n. 286, per contrasto con gli artt. 3, 97, 98, 35, comma 1, e 36 della Costituzione.
Si dispone, pertanto, la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione del presente giudizio ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per la pronuncia sulla legittimità costituzionale della predetta norma.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Sezione terza- bis, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 159, 160 e 161, del d.l. 31 ottobre 2006, n. 262, convertito con modifiche nella legge 24 novembre 2006, n. 286, per contrasto con gli artt. 3, 97, 98, 35, comma 1, e 36 della Costituzione.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del presente giudizio.
Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.