Liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica

“Confligge con le scelte operate dal legislatore statale in
tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di
semplificazione procedimentale la introduzione, ad opera del
legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento
autorizzatorio per lo svolgimento dell’attività dei centri di
telefonia; ferma restando la possibilità per i Comuni, tramite la loro
potestà regolamentare, e le Regioni, tramite la loro potestà
legislativa, di disciplinare specifici profili incidenti anche su
questo settore”.

E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale con sentenza, depositata lo scorso 24 ottobre, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006 (“Norme per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa”).

Sul riparto di competenze Stato-regioni in materia di comunicazioni elettroniche, la Consulta osserva che:

Il Codice delle comunicazioni elettroniche, approvato con decreto legislativo 1 agosto 2003 n. 259, al fine di adeguarsi
alla normativa comunitaria, ha inteso perseguire
«l’obiettivo della liberalizzazione e semplificazione delle procedure
anche al fine di garantire l’attuazione delle regole della concorrenza … le disposizioni del
Codice intervengono in molteplici ambiti: sono rinvenibili
in questo settore titoli di competenza esclusiva statale («ordinamento
civile», «coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati
dell’amministrazione statale, regionale e locale», «tutela della
concorrenza»), e titoli di competenza legislativa ripartita («tutela
della salute», «ordinamento della comunicazione», «governo del
territorio»). Vengono, infine, in rilievo anche materie di competenza
legislativa residuale delle Regioni, quali, in particolare,
l’«industria» ed il «commercio» .

L’art. 1, al comma 1, garantisce in particolare «i diritti inderogabili di libertà delle
persone nell’uso dei mezzi di comunicazione elettronica, nonché il
diritto di iniziativa economica ed il suo esercizio in regime di
concorrenza, nel settore delle comunicazioni elettroniche»; al
comma 2 «la fornitura di reti e servizi di comunicazione
elettronica, che è di preminente interesse generale, è libera»;
è evidente che disposizioni del genere sono espressione della competenza
esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza» e di
«ordinamento civile», prima ancora di costituire principi fondamentali
in tema di «ordinamento della comunicazione» (materia concorrente)”.

Di seguito, il testo della sentenza.

. . . . . .

Corte Costituzionale

Sentenza 350/2008 del 24 ottobre 2008

(presidente Flick, estensore De Siervo)

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 1; 3; 4; 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i) e comma 2; 9, comma 1, lettera c), e comma 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), promossi con ordinanze del 20 settembre 2007 (numero 2 ordinanze), del 29 ottobre 2007, del 26 novembre 2007 (numero 3 ordinanze), del 10 dicembre 2007 (numero 2 ordinanze), del 27 dicembre 2007 e del 22 gennaio 2008, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione IV di Milano, iscritte ai numeri 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 8, 13, 16,e 19, prima serie speciale, dell’anno 2008.

(…)

Ritenuto in fatto

1. – Con dieci distinte ordinanze (r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del 2008), adottate nel corso di altrettanti giudizi, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, Sezione IV di Milano, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 1; 4; 8, commi 1, lettere e), f), h) ed i), e 2; 9, commi 1, lettera c), e 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione.

2. – Il rimettente riferisce che i ricorrenti sono titolari di centri di telefonia già attivi alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 6 del 2006 e che nei loro confronti è stata disposta, con ordinanze delle rispettive amministrazioni comunali, la cessazione dell’attività «per mancata conformazione ai nuovi requisiti (in prevalenza igienico-sanitari e di sicurezza dei locali) disposti dalla predetta legge regionale». Ciò in applicazione delle seguenti censurate disposizioni della legge regionale n. 6 del 2006: l’art. 1, «nella parte in cui riporta la materia oggetto di trattazione alla legislazione residuale regionale sul commercio»; l’art. 4, «che introduce un sistema generalizzato di autorizzazione comunale per l’esercizio dell’attività»; l’art. 8, «nella parte (comma 1, lettere e, f, h ed i, e comma 2) in cui introduce – con immediata modifica dei regolamenti comunali vigenti – numerosi nuovi requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali; gli artt. 9, primo comma, lettera c) e secondo comma, e 12, che prevedono che i centri di telefonia già funzionanti si debbano adeguare alle nuove prescrizioni entro un anno, andando altrimenti incontro alla revoca dell’autorizzazione.

3. – In punto di rilevanza, il rimettente riferisce che i provvedimenti impugnati hanno intimato ai ricorrenti «la cessazione immediata dell’attività per mancato tempestivo adeguamento ai nuovi requisiti di cui sopra» e che la legge regionale non ha lasciato o consentito «alcuna mediazione discrezionale in capo alla procedente autorità amministrativa la quale … ha dovuto emettere il provvedimento (in tutto vincolato nel contenuto) di cessazione immediata dell’attività alla scadenza del perentorio termine annuale fissato». Il rimettente riferisce altresì di aver adottato un’ordinanza cautelare di sospensione del provvedimento di cessazione dell’attività di centri di telefonia con efficacia limitata al periodo di tempo necessario a che la Corte costituzionale si pronunci.

4. –Il TAR rimettente individua le disposizioni costituzionali di cui si sospetta la violazione nell’art. 117, «in relazione ai vincoli dell’ordinamento comunitario ed al sistema di riparto delle competenze legislative Stato-Regione»; negli artt. 3 e 41, «in relazione, in particolare, ai rilevanti ostacoli che le restrittive prescrizioni in materia igienico-sanitaria introdotte dalla legge regionale di che trattasi, da applicare anche retroattivamente alle preesistenti gestioni di centri di telefonia, determinano sulla libertà di iniziativa economica di questi ultimi»; nell’art. 15 sulla libertà di comunicazione.

4.1. – L’asserita violazione dell’art. 117 della Costituzione sarebbe, innanzitutto, suffragata dall’errato inquadramento materiale delle disposizioni censurate. L’art. 1, infatti, riconduce la relativa normativa al commercio. Diversamente, il giudice a quo esclude che la erogazione di servizi di telefonia in sede fissa, in locali aperti al pubblico, rientri nelle previsioni legislative relative all’attività commerciale. Ciò sarebbe confermato dal divieto, contenuto nella legge censurata, di affiancare – come in passato – attività commerciali “di supporto”, salvo la sola vendita di schede telefoniche e l’installazione di distributori automatici di bevande ed alimenti.

Per il Tribunale rimettente, invece, l’attività presa in considerazione dalla legge regionale sarebbe riconducibile alla materia di competenza concorrente dell’ordinamento delle comunicazioni e, più specificamente, al «servizio di comunicazione elettronica» di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 7 marzo 2002, n. 2002/21/CE, recepito dal decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche).

4.2. – Il diverso inquadramento materiale determinerebbe una serie di limiti e vincoli sul legislatore regionale.

Innanzitutto, la rilevata matrice europea di tale normativa comporta l’applicabilità, ex art. 117, primo comma, della Costituzione, del principio di proporzionalità. In secondo luogo, trattandosi di materia concorrente, il legislatore regionale non può disattendere i limiti della legislazione statale di principio. Infine, occorrerebbe anche considerare alcuni «profili trasversali di legislazione esclusiva statale» ex art. 117, secondo comma, della Costituzione, con specifico riguardo alla tutela della concorrenza (lettera e) nonché alla salvaguardia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (lettera m).

Il rimettente ricorda che l’art. 3, comma 1, del surrichiamato codice delle comunicazioni garantisce i «diritti inderogabili di libertà delle persone nell’uso dei mezzi di comunicazione elettronica», con espresso riferimento al regime di libera concorrenza. Inoltre, i principi di derivazione comunitaria e costituzionale risultano espressamente ribaditi dall’art. 4 del medesimo codice, il quale prevede al comma 1 che la disciplina delle reti e dei servizi sia volta a salvaguardare i diritti costituzionalmente garantiti di «libertà di comunicazione», nonché di «libertà di iniziativa economica e suo esercizio in regime di concorrenza, garantendo un accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità».

Al tempo stesso, il comma 3 dello stesso art. 4 dispone che la suddetta disciplina è diretta anche a «promuovere la semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l’adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica».

4.3. – Per il rimettente, il legislatore lombardo – regolando l’intero settore dei centri di telefonia in sede fissa – ha introdotto «un regime autorizzativo ulteriore e duplicativo rispetto al sistema delineato in sede comunitaria e recepito con il decreto legislativo n. 259/2003».

Ciò mentre il comma 2 dell’art. 3 del codice configura la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica come di preminente interesse generale e libera, salve solo «le limitazioni derivanti da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato, della protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell’ambiente e della riservatezza e protezione dei dati personali, poste da specifiche disposizioni di legge o da disposizioni regolamentari di attuazione». Lo stesso codice prevede che l’espletamento di tali servizi venga subordinato ad una sola «autorizzazione generale», in armonia con la normativa europea. In particolare, tale autorizzazione consegue alla presentazione di una dichiarazione dell’interessato (a seguito della quale è possibile iniziare l’attività) contenente l’intenzione di procedere alla fornitura (art. 25, comma 3), mentre il potere del Ministero competente di vietare il prosieguo dell’attività medesima può essere esercitato «entro e non oltre» sessanta giorni secondo il modulo procedimentale della dichiarazione di inizio attività ex art. 19, legge 7 agosto 1990, n. 241 (art. 25, comma 4).

Il giudice rimettente sostiene che la previsione di un ulteriore titolo abilitativo comunque abbia alterato «il regime di sostanziale libertà di fornitura dei servizi de quibus così come delineato in via primaria dall’ordinamento comunitario, ed in via attuativa dalla norma statale di recepimento, con conseguenti aggravamenti procedimentali vietati dai citati artt. 3 e 4 del decreto n. 259/2003».

Peraltro – prosegue il rimettente – molte delle limitazioni previste dalla legge censurata sembrano afferire a materie comunque estranee a quella potestà legislativa residuale che la Regione Lombardia ha, invece, inteso nella specie esercitare: questo con particolare riferimento alle esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato ed alla tutela dell’ambiente, di competenza esclusiva del legislatore statale, nonché alle esigenze di protezione civile e di salute pubblica, di competenza concorrente.

4.4. – In relazione ai requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali, per il giudice a quo la contestata legge regionale reca «contenuti di dettaglio che integrano in modo automatico e simultaneo tutti i regolamenti di igiene delle autorità sanitarie e dei comuni in territorio lombardo […], e ciò senza che la legislazione statale di riferimento consenta, all’interno di tale regolamentazione locale, l’inserimento eteronomo di contenuti dispositivi e di dettaglio direttamente prestabiliti da leggi regionali». Né sussisterebbero nella legislazione vigente prescrizioni così restrittive neanche per i locali ove vi è maggiore concentrazione di persone per un tempo di permanenza maggiore, come teatri, cinema o nei locali ove viene svolta attività di somministrazione di alimenti e bevande.

Da tutto ciò discende la necessità che la potestà legislativa regionale concorrente venga esercitata nel rispetto dei principi fondamentali di cui agli articoli 3 e 41 della Costituzione, nonché del principio di proporzionalità.

4.5. – Il giudice rimettente ritiene che la questione presenti profili di non manifesta infondatezza anche nella parte in cui è sancita l’applicazione retroattiva delle nuove disposizioni, senza neppure delineare la possibilità di proroghe per consentire agli esercizi preesistenti di continuare l’attività.

Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la possibilità del legislatore di incidere con norme retroattive su situazioni sostanziali ormai radicate da leggi precedenti, sarebbe subordinata al rigoroso vaglio di razionalità del nuovo regolamento di interessi.

Per il giudice a quo nella specie non sussiste una sicura rispondenza dello ius superveniens a criteri di ragionevolezza, in relazione alle modalità con cui la nuova normativa incide sui legittimi affidamenti dei titolari dei preesistenti centri di telefonia e sulle loro disponibilità finanziarie. Ne discenderebbe una lesione della libertà di iniziativa economica privata presidiata dall’art. 41 della Costituzione, anche in relazione alla tutela della concorrenza garantita dall’ordinamento europeo.

5. – Con atto depositato il 26 febbraio 2008, è intervenuta nel presente giudizio (in relazione alle questioni sollevate con l’ordinanza r.o. n. 2 del 2008) la Regione Lombardia che, con riserva di successive allegazioni e argomentazioni, ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale sostenendo, comunque, la loro infondatezza nel merito.

6. – Con memoria depositata il 24 luglio 2008 la Regione Lombardia ha presentato una ampia memoria ad integrazione del suo precedente atto di intervento.

6.1. – La difesa regionale reputa le questioni in oggetto inammissibili per evidente difetto di motivazione sulla rilevanza, avendo il rimettente omesso di descrivere alcuni elementi decisivi della fattispecie che ha originato il giudizio principale (le osservazioni si riferirebbero anche alle altre ordinanze «che hanno, in maniera sostanzialmente identica, censurato le norme»). In particolare, nell’ordinanza di rinvio non sarebbero rinvenibili informazioni sulle autorizzazioni eventualmente ottenute, né sulle motivazioni sottese all’impugnato provvedimento di cessazione dell’attività di centri di telefonia. Inoltre, altro motivo di inammissibilità sarebbe il mancato riferimento ad una autorizzazione negata, mentre nell’ordinanza di rimessione ci si riferisce solo ad una ordinanza di chiusura del centro di telefonia.

Sarebbero del pari inammissibili le censure sollevate in riferimento all’art. 15 Cost. per la loro mancata motivazione.

Generiche sarebbero altresì le censure formulate in riferimento all’art. 8 della legge regionale, dal momento che non si chiarirebbero analiticamente gli asseriti motivi di incostituzionalità delle quattro distinte prescrizioni legislative.

7. – Nel merito, la difesa regionale sostiene che la disciplina dei centri di telefonia rientrerebbe pacificamente nella materia commercio, risultando così esclusa una competenza statale in materia, dal momento che «la nozione di “servizi di comunicazione elettronica” non sembra applicabile all’attività dei centri di telefonia». Comunque «l’autorizzazione prevista dalla legge della regione Lombardia non interferisce in alcun modo con gli scopi» della legislazione comunitaria e statale ed anzi troverebbe «il suo fondamento proprio nella previsione degli articoli 3 e 25 del Codice delle comunicazioni che consentono la possibilità di limitare la fornitura di reti o servizi per motivi di salute e sanità pubblica».

La legge regionale censurata, pertanto, «ai fini di tutela della salute pubblica e delle condizioni igieniche in cui si svolge il lavoro subordina l’inizio (o la prosecuzione) di tale attività alla sussistenza di un’autorizzazione comunale». Non vi sarebbero principi legislativi violati dal legislatore regionale e neppure potrebbe sostenersi che la legge regionale non possa modificare il regolamento di igiene locale.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, Sezione IV di Milano, con le ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del 2008, adottate nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 1; 4; 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i), e comma 2; 9, comma 1, lettera c), e comma 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione.

2. – In tutti i giudizi a quibus i ricorrenti, titolari di centri di telefonia già attivi alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 6 del 2006, hanno impugnato i provvedimenti delle rispettive amministrazioni comunali mediante i quali è stata disposta la cessazione dell’attività da loro svolta «per mancata conformazione ai nuovi requisiti (in prevalenza igienico-sanitari e di sicurezza dei locali) disposti dalla predetta legge regionale».

Nell’ambito di tali giudizi il rimettente ha eccepito l’illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali in attuazione delle quali sono stati adottati i provvedimenti impugnati.

In particolare, il TAR censura l’art. 1, «nella parte in cui riporta la materia oggetto di trattazione alla legislazione residuale regionale sul commercio»; l’art. 4, «che introduce un sistema generalizzato di autorizzazione civica per l’esercizio dell’attività»; l’art. 8, nella parte in cui introduce – con immediata modifica dei regolamenti vigenti (comma 2) – i nuovi requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali, e, specificamente, la previsione: di un servizio igienico in uso esclusivo del personale dipendente (lettera e); di un servizio igienico riservato al pubblico, anche prossimo al locale nel caso di esercizi già attivi all’entrata in vigore della presente legge, ma ad uso esclusivo dello stesso per il locale con superficie fino a 60 metri quadrati; di un ulteriore servizio igienico per il locale di dimensioni superiori (lettera f); «uno spazio di attesa all’interno del locale di almeno 9 metri quadrati, fino a 4 postazioni telefoniche, provvisto di idonei sedili posizionati in modo da non ostruire le vie di esodo» (lettera h); la superficie minima (pari a 1 metro quadrato) per ogni postazione e la sua collocazione in modo da garantire un percorso di esodo, libero da qualsiasi ingombro, nonché la larghezza minima di 1,20 metri (lettera i).

Sono censurati, altresì, gli artt. 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, che regolano il regime transitorio per i vecchi esercizi, nel senso che la prescritta autorizzazione è revocata, senza possibilità di proroga, «quando il titolare non abbia adempiuto all’obbligo di porsi in regola con le vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché con le disposizioni sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, prevenzione incendi e sicurezza, preventivamente all’avvio dell’attività come previsto dall’articolo 4, ovvero entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge ai sensi dell’articolo 12».

Tali disposizioni, ad avviso del rimettente, vìolerebbero l’art. 117 della Costituzione, in quanto, incidendo sulla materia (concorrente) dell’ordinamento delle comunicazioni, sarebbero incompatibili con il principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria (art. 117, primo comma). Sarebbero, inoltre, lesive delle competenze esclusive del legislatore statale in ordine alla «tutela della concorrenza» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e) Cost., ed alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.).

Le disposizioni regionali violerebbero altresì l’art. 117, terzo comma, Cost. ponendosi in contrasto con i princìpi fondamentali dettati dal legislatore statale in ordine al regime autorizzatorio: princìpi desumibili dagli artt. 2, 3, 4 e 25 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche).

Esse contrasterebbero, inoltre, con gli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal momento che l’introduzione, con efficacia retroattiva, di nuovi e più rigorosi requisiti strutturali e igienico-sanitari determinerebbe una illegittima disparità di trattamento tra i centri di telefonia già attivi (chiamati, in tempi brevi e con costi elevati, ad effettuare le necessarie opere di adeguamento) e quelli aperti successivamente all’entrata in vigore delle censurate disposizioni, con ripercussioni negative sulla libertà di iniziativa economica privata e sull’assetto concorrenziale del mercato.

Infine, ad avviso del TAR, le disposizioni in oggetto sarebbero incompatibili con l’art. 15 della Costituzione, introducendo misure idonee a nuocere alla libertà di comunicazione.

3. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

4. – Le questioni sollevate in otto delle suddette ordinanze (r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e 127 del 2008) sono manifestamente inammissibili per carente descrizione delle fattispecie concrete.

Non è infatti sufficiente il pur ampio andamento argomentativo in tema di rilevanza sviluppato in termini identici nei diversi atti di rimessione. Il giudice a quo ha fornito solo generiche indicazioni in ordine agli effetti delle disposizioni impugnate sulle situazioni giuridiche vantate dalle parti ricorrenti, omettendo tuttavia la doverosa descrizione delle specifiche violazioni asseritamente riscontrate dalle amministrazioni comunali.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’insufficiente descrizione della fattispecie, giacché impedisce di vagliare l’effettiva applicabilità delle censurate disposizioni ai casi dedotti, si risolve in carente motivazione sulla rilevanza della questione, determinandone, conseguentemente, la manifesta inammissibilità, risultando peraltro preclusa, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, l’acquisizione di elementi di conoscenza attingendo direttamente al fascicolo di causa (fra le decisioni più recenti: ordinanze n. 224, n. 223, n. 217, n. 210 e n. 174 del 2008; n. 251 del 2007, n. 303 e n. 164 del 2006).

5. – Diversamente, nelle ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008, il TAR riferisce espressamente che i provvedimenti comunali di interruzione della attività dei centri di telefonia sono stati adottati in ragione del mancato conseguimento dell’autorizzazione prevista e disciplinata dalla legge regionale n. 6 del 2006.

In particolare, nell’ordinanza r.o. n. 67, il rimettente non solo espressamente richiama l’ordinanza comunale di cessazione dell’attività «emessa ai sensi e per gli effetti della l.r. 6/2006», ma aggiunge che tale provvedimento specifica «che l’attività medesima potrà essere eventualmente ripresa solo dopo aver regolarizzato le violazioni riscontrate durante il sopralluogo citato in premessa ed ottenuto regolare autorizzazione ai sensi dell’art. 4 della citata legge regionale n. 6/2006».

Quanto alla ordinanza r.o. n. 100 del 2008, il rimettente riferisce che la chiusura del centro di telefonia gestito dal ricorrente è stata disposta in quanto «esercitato in assenza della prescritta autorizzazione di cui alla legge regionale 3 marzo 1996 (recte: 2006), n. 6».

Dal momento che tutta la disciplina della legge regionale n. 6 del 2006 (e tanto più i fondamentali artt. 4 e 9, entrambi impugnati) è caratterizzata da questa speciale e nuova autorizzazione comunale «per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa», lo specifico riferimento operato in queste due ordinanze al nuovo istituto è sufficiente a giustificare la rilevanza delle censure prospettate in relazione all’art. 4, nonché agli artt. 9 e 12, i quali estendono la nuova disciplina ai centri di telefonia preesistenti all’entrata in vigore della legge regionale. Inammissibili sono, invece, le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 8, non avendo il rimettente specificato se e quali fossero i requisiti igienico-sanitari accertati in concreto come mancanti, se, cioè, fossero proprio quelli censurati. Tale omessa specificazione si risolve, ancora una volta, in un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni.

6. – Quanto al merito delle dedotte questioni di legittimità costituzionale, il rimettente lamenta l’avvenuta configurazione, ad opera del legislatore lombardo, di «un regime autorizzativo ulteriore e duplicativo» rispetto al sistema delineato in sede comunitaria e recepito con il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche).

Al fine di appurare la fondatezza delle censure prospettate, appare necessario soffermare l’attenzione sull’inquadramento della disciplina legislativa regionale in oggetto nelle materie di cui all’art. 117 Cost.

L’art. 1 della legge regionale n. 6 del 2006 ascrive la disciplina dei centri in questione alla materia del commercio, come ribadito dal successivo art. 2, comma 2, lettera a), a mente del quale per “centro di telefonia in sede fissa” s’intende «qualsiasi struttura ove è svolta l’attività commerciale in via esclusiva di cessione al pubblico di servizi telefonici». Inoltre, la successiva lettera b) dello stesso art. 2, comma 2, considera quale “cessione al pubblico di servizi telefonici” «ogni attività commerciale che importi una connessione telefonica o telematica allo scopo di fornire servizi di telefonia vocale indipendentemente dalle tecnologie di commutazione utilizzate, da realizzarsi nei locali o sulle superfici aperti al pubblico e a tale scopo attrezzati, nonchè l’attività di vendita di schede telefoniche». La difesa regionale, dal canto suo, ribadisce che «il nucleo essenziale dell’intervento legislativo regionale è da identificarsi nelle modalità di esercizio dell’attività commerciale».

Questa collocazione materiale è contestata dall’autorità rimettente che, al contrario, riconduce i centri di telefonia tra i “servizi di comunicazione elettronica” di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettera c), della Direttiva n. 2002/21/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio istitutiva di un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica), ai sensi del quale sono tali «i servizi forniti di norma a pagamento consistenti esclusivamente o prevalentemente nella trasmissione di segnali su reti di comunicazioni elettroniche, compresi i servizi di telecomunicazioni e i servizi di trasmissione nelle reti utilizzate per la diffusione circolare radiotelevisiva, ma ad esclusione dei servizi che forniscono contenuti trasmessi utilizzando reti e servizi di comunicazione elettronica o che esercitano un controllo editoriale su tali contenuti».

È opportuno premettere che la pluralità degli interessi incisi dalla legge può determinare, sul piano del riparto della funzione legislativa tra Stato e Regioni, una convergenza di titoli competenziali su determinate aree materiali o su singoli oggetti. In situazioni del genere, questa Corte ha più volte chiarito che «occorre fare riferimento all’oggetto ed alla disciplina stabilita delle norme scrutinate, per ciò che esse dispongono (sentenze n. 450 e n. 411 del 2006), alla luce della ratio dell’intervento legislativo nel suo complesso e nei suoi punti fondamentali, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi delle norme medesime (sentenze n. 319 e n. 30 del 2005), così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato (sentenze n. 449 del 2006 e n. 285 del 2005)» (sentenza n. 165 del 2007; analogamente sentenza n. 430 del 2007).

Nel presente giudizio, questa Corte osserva che la legge regionale scrutinata ha come oggetto assolutamente caratterizzante la determinazione, per una particolare categoria di esercizi qualificati come “commerciali”, di speciali requisiti necessari perché i Comuni possano rilasciare un’apposita autorizzazione ai nuovi, così come ai preesistenti, centri di telefonia. In assenza di questa autorizzazione, o in caso di revoca della medesima, è vietato «l’esercizio dell’attività di cessione al pubblico del servizio di telefonia in sede fissa». Pacifica conferma di questa lettura della legge si trova nella prassi amministrativa, ad iniziare dalle circolari esplicative della legge censurata inviate dalla Regione ai Sindaci dei Comuni della Lombardia.

Ora, anche prescindendosi dalla integrale sovrapposizione della analitica disciplina legislativa alla potestà regolamentare ed amministrativa propria dei Comuni (profilo che, pur presentando aspetti problematici, non può essere scrutinato in questa sede, in quanto non oggetto di specifica e motivata doglianza), appare evidente che la legge regionale si riferisce ad una particolare attività prevista e disciplinata dal succitato Codice delle comunicazioni elettroniche come «servizio di comunicazione elettronica», il cui art. 1, comma 1, lettera gg), riproduce testualmente il già riportato art. 2, paragrafo 1, lettera c) della suddetta Direttiva comunitaria del 2002.

Al riguardo non è fondata la tesi difensiva regionale secondo cui non sarebbe applicabile la nozione di “servizi di comunicazione elettronica” in quanto i centri di telefonia «si limitano, svolgendo una funzione di “intermediari”, a mettere a disposizione del pubblico personal computer o telefoni e usufruiscono a loro volta dei servizi di fornitura delle reti emanati dalle varie aziende».

In realtà, tale attività rientra specificamente nella nozione di servizio di comunicazione elettronica come definito dal Codice, in quanto, appunto, consistente nell’erogazione del servizio di trasmissione di segnali su reti di comunicazione elettronica, ovvero del servizio di telecomunicazione.

Peraltro, la ratio e la lettera di tutto il Codice sono nel senso di disciplinare l’intero arco delle comunicazioni elettroniche fino ai diritti di accesso ai mezzi da parte degli utenti. L’art. 25 del predetto Codice, che contempla – come si vedrà meglio successivamente – un’autorizzazione generale ed il relativo allegato n. 9 sono espliciti nel riferirsi anche ai fornitori al pubblico di «servizi di comunicazione elettronica».

In tal senso, d’altra parte, risulta orientata la pacifica prassi amministrativa in atto anche nella Regione Lombardia: i gestori dei centri di telefonia, infatti, per mezzo del modello di cui al succitato allegato n. 9, denunciano l’inizio attività all’ispettorato territoriale del Ministero delle Comunicazioni, ai sensi e con le modalità di cui all’art. 25, comma 2, del predetto Codice.

Certamente, nell’attività posta in essere dai centri di telefonia sono rinvenibili alcuni degli elementi tipici degli esercizi commerciali, tant’è vero, ad esempio, che l’art. 6 della legge regionale in questione si occupa proprio degli orari e delle modalità di esercizio di tale attività (profili ascrivibili alla materia del “commercio”: si vedano le sentenze n. 243 del 2005 e n. 76 del 1972). Tuttavia, trattasi di elementi accessori e strumentali rispetto all’oggetto qualificante l’attività svolta dai centri di telefonia in sede fissa, consistente nella erogazione di un servizio di comunicazione elettronica.

Nei centri di telefonia, invero, lo scambio di un servizio verso la corresponsione di un prezzo afferisce a beni ed esigenze fondamentali della persona e, nel contempo, della comunità, coinvolgendo interessi individuali (correlati alla comunicazione con altre persone) e generali (difesa e sicurezza dello Stato; protezione civile; salute pubblica; tutela dell’ambiente; riservatezza e protezione dei dati personali), diversamente da quanto accade nelle ordinarie attività commerciali di cui all’art. 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59).

7. – Questa Corte, nella sentenza n. 336 del 2005, ha già riconosciuto come il Codice delle comunicazioni elettroniche, al fine di adeguarsi alla normativa comunitaria, in generale ha inteso perseguire «l’obiettivo della liberalizzazione e semplificazione delle procedure anche al fine di garantire l’attuazione delle regole della concorrenza».

Nella medesima sentenza si è anche affermato che le disposizioni del suddetto Codice intervengono in molteplici ambiti materiali, diversamente tra loro caratterizzati in relazione al riparto della competenza legislativa fra Stato e Regioni: sono, infatti, rinvenibili in questo settore titoli di competenza esclusiva statale («ordinamento civile», «coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale», «tutela della concorrenza»), e titoli di competenza legislativa ripartita («tutela della salute», «ordinamento della comunicazione», «governo del territorio»). Vengono, infine, in rilievo anche materie di competenza legislativa residuale delle Regioni, quali, in particolare, l’«industria» ed il «commercio» (alle quali la pronuncia del 2005 non dava particolare rilievo, in quanto estranee agli ambiti allora presi in considerazione).

Non è invece pertinente, in questa sede, l’evocazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto la disciplina regionale dei centri di telefonia non incide sulla «determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto» (sentenza n. 168 del 2008; si vedano altresì le sentenze n. 50 del 2008; n. 387 del 2007 e n. 248 del 2006).

Nel presente giudizio, per le ragioni illustrate sopra, viene in rilievo la disciplina dettata dal Codice delle comunicazioni elettroniche, e in particolare, dall’art. 3, il quale espressamente fissa i principi generali del settore delle comunicazioni elettroniche.

In questa sede, di particolare rilievo appaiono le disposizioni del comma 1, che garantisce «i diritti inderogabili di libertà delle persone nell’uso dei mezzi di comunicazione elettronica, nonché il diritto di iniziativa economica ed il suo esercizio in regime di concorrenza, nel settore delle comunicazioni elettroniche», nonché del comma 2, secondo cui «la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica, che è di preminente interesse generale, è libera». È evidente che disposizioni del genere sono espressione della competenza esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza» e di «ordinamento civile», prima ancora di costituire principi fondamentali in tema di «ordinamento della comunicazione».

Ciò non toglie che lo stesso Codice, al comma 3 del medesimo art. 3, preveda anche la possibilità di porre «limitazioni derivanti da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato, della protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell’ambiente e della riservatezza e protezione dei dati personali». Limitazioni, tuttavia, che devono essere «poste da specifiche disposizioni di legge o da disposizioni regolamentari di attuazione». Dal canto suo, il successivo art. 4 pone fra gli «obiettivi generali della disciplina di reti e servizi di comunicazione elettronica» la garanzia di un «accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità», nonché la promozione della «semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l’adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica».

8. – I principi generali del Codice trovano concretizzazione nella previsione di una «autorizzazione generale» che l’art. 25 del Codice richiede per lo svolgimento dell’attività di fornitura di servizi di comunicazione elettronica. Tale autorizzazione «consegue alla presentazione» al Ministero per le comunicazioni da parte degli interessati di una apposita dichiarazione «contenente l’intenzione di iniziare la fornitura di reti o servizi di comunicazione elettronica, unitamente alle informazioni strettamente necessarie per consentire al Ministero di tenere un elenco aggiornato dei fornitori di reti e di servizi di comunicazione elettronica» ed integrata da quanto appositamente richiesto dall’allegato n. 9 del Codice.

Coerente rispetto al principio di libertà nell’attività di fornitura ed all’obiettivo della massima semplificazione dei procedimenti è la circostanza che la dichiarazione costituisca denuncia di inizio attività, di modo che «l’impresa è abilitata ad iniziare la propria attività a decorrere dall’avvenuta presentazione della dichiarazione»; il Ministero può solo disporre, entro il termine di sessanta giorni, «se del caso, con provvedimento motivato da notificare agli interessati entro il medesimo termine, il divieto di prosecuzione dell’attività» laddove verifichi d’ufficio la mancanza dei requisiti richiesti (art. 25, comma 4).

Rispetto a questo «quadro normativo istituito dallo Stato membro» (si tratta della definizione di «autorizzazione generale» secondo l’art. 2, comma 2, lettera a, della Direttiva 7 marzo 2002, n.2002/20/CE), si pone in palese contrasto la censurata legge regionale. Essa, infatti, in nome della propria competenza legislativa in materia di commercio, pretende di disciplinare organicamente «l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa», prevedendo, all’art. 4, la necessità di uno speciale provvedimento autorizzatorio, diverso ed ulteriore rispetto a quello previsto dall’art. 25 del Codice che il Comune è chiamato a concedere o negare entro novanta giorni dalla presentazione della domanda, e al cui rilascio è subordinato l’esercizio dell’attività.

Inoltre, il conseguimento del provvedimento autorizzatorio è subordinato dal citato art. 4 alla sussistenza di requisiti alquanto eterogenei (“morali” per i titolari ed i gestori – art. 3; di disponibilità dei locali – art. 4; di caratteristiche igienico-sanitarie, di presenza di sufficienti misure di sicurezza dei luoghi di lavoro e di prevenzione degli incendi– art. 8; di natura urbanistica – art. 7; ecc.), i quali si sovrappongono, largamente ed in diversi ambiti, ai requisiti previsti dal Codice e dalle leggi a cui questo rinvia e, soprattutto, contraddicono palesemente l’unicità del procedimento autorizzativo e le collegate esigenze di semplificazione e tempestività dei procedimenti.

Non vi è dubbio che il comma 1 dell’art. 25 del Codice (riproducendo quanto in generale determinato dal comma 3 dell’art. 3 del medesimo testo) prevede che la libertà nella fornitura di servizi di comunicazione elettronica possa essere limitata anche «da specifiche disposizioni» che siano «giustificate da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato e della sanità pubblica, compatibilmente con le esigenze della tutela dell’ambiente e della protezione civile». Tuttavia, queste disposizioni possono solo integrare la procedura autorizzativa prevista dall’art. 25 (d’altra parte, lo stesso allegato 9 al Codice prevede che il dichiarante, al momento della richiesta di autorizzazione, debba garantire anche il rispetto «delle condizioni che possono essere imposte alle imprese in virtù di altre normative non di settore») o temporaneamente ad essa sommarsi in casi di emergenza (si veda il primo comma dell’art. 7 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale», convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155, che fino al 31 dicembre 2008 prevede la necessità anche di una licenza del Questore).

Confligge, dunque, con le scelte operate dal legislatore statale in tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di semplificazione procedimentale la introduzione, ad opera del legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento autorizzatorio per lo svolgimento dell’attività dei centri di telefonia; ferma restando la possibilità per i Comuni, tramite la loro potestà regolamentare, e le Regioni, tramite la loro potestà legislativa, di disciplinare specifici profili incidenti anche su questo settore.

Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, per violazione dei criteri di riparto delle competenze di cui all’art. 117 della Costituzione, degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge regionale n. 6 del 2006.

9. – Pur restando escluse dall’oggetto del giudizio le altre norme della legge della Regione Lombardia, non validamente impugnate, questa Corte rileva che la riscontrata illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, non può che estendersi all’intera legge regionale n. 6 del 2006.

Invero, l’assetto normativo concepito dal legislatore lombardo s’irradia dalle suddette disposizioni che configurano l’autorizzazione ivi prevista quale nucleo essenziale del prescelto regime amministrativo. Tutti gli altri articoli della legge regionale censurata risultano avvinti da un inscindibile rapporto strumentale alle disposizioni dichiarate incostituzionali. E, pertanto, il vizio d’incostituzionalità si proietta sull’intera disciplina dei centri di telefonia, determinandone la complessiva caducazione ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

10. – Le residue censure, riferite agli altri parametri evocati, restano assorbite.

P.Q.M.

riuniti i giudizi;

a) dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa);

b) dichiara, ai sensi dell’articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006;

c) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione, con le ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia nei confronti dell’art. 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i), e comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006;

d) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con le ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e 127 del 2008.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008.

Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2008.

Redazione

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