Esami di avvocato: ‘non c’e’ piu’ motivazione !’

Esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato.

Ieri la Corte Costituzionale per la prima volta ha dichiarato essere divenuto vero e proprio “diritto vivente”, dunque ormai consolidato, il principio dell’insussistenza, nell’ordinamento vigente, di un obbligo di
motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione e della
idoneità degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida
motivazione del provvedimento di inidoneit.

La tesi minoritaria (sull’obbligo di motivazione del punteggio), pur ancora adottata “in alcune isolate pronunce”, è stata ritenuta “priva di ogni
concreta possibilità di definitiva affermazione giurisprudenziale
” !

A seguire, i passi salienti della pronuncia (riportata per esteso in calce).

1) E’ ormai “diritto vivente” la tesi giurisprudenziale dell’insussistenza di un obbligo di
motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione e della
idoneità degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida
motivazione del provvedimento di inidoneità.

“Questa Corte ha sinora escluso che la tesi
dell’insussistenza, nell’ordinamento vigente, di un obbligo di
motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione e della
idoneità degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida
motivazione del provvedimento di inidoneità costituisse una
interpretazione obbligata e univoca della normativa vigente .

Tuttavia, nella più recente evoluzione della giurisprudenza del
Consiglio di Stato, tale tesi si è ormai consolidata, privando la tesi
minoritaria, ancora adottata in alcune isolate pronunce, di ogni
concreta possibilità di definitiva affermazione giurisprudenziale.

Questa Corte deve quindi prendere atto della circostanza che la
soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza costituisce ormai un
vero e proprio ‘diritto vivente’.”

2) I parametri costituzionali posti dal rimettente a base dell’ordinanza (artt. 24, 111 e 113 Cost.)

“Gli articoli 24 e 113, Cost., enunciano il principio
dell’effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il
secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica
amministrazione.

Entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza
degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per
la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano
processuale.

A sua volta, il principio del giusto processo, consacrato
nell’art. 111, Cost., è finalizzato ad assicurare che gli strumenti
procedurali vigenti pongano accusa e difesa in una posizione di parità
e offrano idonea tutela ai diritti sostanziali su cui si controverte
nel processo, attraverso la piena attuazione del principio del
contraddittorio, del principio di ragionevole durata del procedimento,
della motivazione della decisione. Anche in tal caso si tratta di
garanzie di carattere esclusivamente processuale.

Gli stessi principi di effettività del diritto di difesa e del
giusto processo sono espressi anche nella “Convenzione per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali” con
esclusivo riferimento al piano processuale.

La denunciata illegittimità costituzionale della
norma che, in base al diritto vivente, non impone alla commissione una
specifica modalità di motivazione delle determinazioni da essa assunte
in merito alle prove scritte ed orali, concerne un momento del
procedimento amministrativo
che disciplina lo svolgimento degli esami
per l’abilitazione alla professione forense. Essa, quindi, riguarda il
profilo sostanziale dei requisiti di validità del provvedimento di
esclusione del candidato, conclusivo di detto procedimento. L’aspetto
processuale
degli strumenti predisposti dall’ordinamento per
l’attuazione in giudizio dei diritti non è chiamato in gioco dalla
norma
, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo.

La disciplina censurata non è quindi idonea a interferire né con
il diritto di difesa né con il principio del contraddittorio e si
sottrae all’ambito di applicazione dei parametri invocati dal
rimettente”.

. . . . . .

Corte Costituzionale

Sentenza 30 gennaio 2009 numero 20

(presidente Flick, estensore Mazzella)
[norme impugnate: art. 22, c. 9°, del regio decreto legge 27/11/1933, n. 1578, convertito in legge 22/11/1934, n. 36; artt. 17 bis, 22, 23 e 24, c. 1°, del regio decreto 22/01/1934, n. 37]

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, nella legge 18 luglio 2003, n. 180 e degli artt. 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio-decreto 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), promossi con ordinanze del 5 maggio (nn. 2 ordinanze) e del 3 giugno 2008 dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, rispettivamente iscritte ai nn. 228, 229 e 261 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 30 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2008.

(…)

Ritenuto in fatto

1 – Con tre distinte ordinanze, emesse il 5 maggio e il 3 giugno 2008, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento ha sollevato, con riferimento agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore) – disposizioni, queste ultime, da intendersi censurate nel testo vigente, quale risultante dalle modifiche e dalle sostituzioni di cui alla legge 27 giugno 1988, n. 242 (Modifiche alla disciplina degli esami di procuratore legale) e dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180 – nella parte in cui non prevedono l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame per l’abilitazione alla professione forense.

2 – Riferisce il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, in ciascuna delle ordinanze di rimessione, che, con sentenze non definitive, esso aveva respinto, all’esito dei giudizi di impugnazione delle valutazioni negative degli scritti redatti in sede di esami di abilitazione alla professione forense, sessione 2006/2007, due delle tre censure dedotte dai ricorrenti, fondate sulla denunciata violazione, da parte delle commissioni esaminatrici, dell’asserito obbligo di dare atto dell’effettiva applicazione dei criteri di valutazioni stabiliti in sede nazionale, dato che dagli artt. 22 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e 17-bis, 22, 23 e 24 del R.D. 23 gennaio 1934, n. 37 non emergerebbe un siffatto obbligo. Nell’esaminare la residuale, terza censura, con la quale era stato dedotto il difetto di motivazione dell’espresso giudizio alla luce della totale inidoneità ad esternarlo da parte del cosiddetto voto alfanumerico, il rimettente asserisce che, in base al consolidato indirizzo della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che fa propria la tesi della sufficienza del voto alfanumerico, tale censura avrebbe dovuto essere respinta.

3 – Il rimettente, tuttavia, dubita della legittimità costituzionale della normativa in oggetto secondo la costante interpretazione della giurisprudenza del Consiglio di Stato.

Sotto un primo profilo, infatti, la mera espressione alfanumerica di un giudizio, secondo il rimettente, non soddisferebbe l’esigenza di manifestare al candidato le ragioni della sua reiezione alle prove scritte, traducendosi soltanto nell’espressione di un valore relativo che si manifesta in termini matematici.

Il rimettente si dichiara consapevole di quanto statuito, anche di recente, da questa Corte, con le ordinanze n. 466 del 2000, n. 419 e 420 del 2005 e, da ultimo, n. 28 del 2006, sull’inammissibilità di questioni analoghe a quella odierna, tese ad ottenere un avallo interpretativo, a causa dell’insussistenza in giurisprudenza di un vero e proprio «diritto vivente».

Egli, tuttavia, reputa che, allo stato, tale giurisprudenza possa essere superata, visto che ogni diversa lettura dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sarebbe costantemente rigettata in sede d’appello dal Consiglio di Stato, il cui orientamento dovrebbe, quindi, essere ormai qualificato come diritto vivente.

Una conferma si desumerebbe, sempre secondo il rimettente, dalla circostanza che, sebbene il decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, al suo art. 1-bis abbia introdotto alcuni criteri di valutazione delle prove d’esame in discussione, tale precetto non pare essere stato recepito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha statuito che neppure la predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove a posti di pubblico impiego può essere considerata elemento imprescindibile ai fini della legittimità della procedura, trattandosi di attività riservata alla discrezionalità dell’Amministrazione.

La questione dovrebbe essere riguardata, a parere del rimettente, alla luce dei precetti di cui agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, in associazione a quanto stabilito dall’art. 117, primo comma, della Costituzione.

Quanto al principio di effettività della tutela giurisdizionale, il rimettente osserva che il Consiglio di Stato, con il parere 9 novembre 1995, n. 120 dell’Adunanza generale, aveva richiesto e ottenuto dal legislatore la modifica dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. 9 agosto 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), avvenuta con d.P.R. 30 ottobre 1996, n. 693 (Regolamento recante modificazioni al regolamento sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e sulle modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nel pubblico impiego, approvato con D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487). In tal modo, tramite la sostituzione dell’espressione «assegnazione del punteggio» a quella preesistente, avrebbe determinato l’espunzione dal tessuto dell’ordinamento dell’unica disposizione in grado di positivamente infirmare la teoria del voto alfanumerico.

Tale riforma sarebbe stata, secondo il rimettente, ispirata a valorizzare i principi, oltre che d’imparzialità, di economicità e di celerità di espletamento delle procedure concorsuali, nonché di buon andamento stabiliti dall’art. 97 della Costituzione.

Al rimettente pare, tuttavia, che in tale riforma e nel successivo orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, sia stata trascurata la diversa, ma non meno rilevante esigenza della trasparenza dei giudizi formulati dalle Commissioni esaminatrici e che sia stato violato il diverso principio tratto dai richiamati artt. 24, primo e secondo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, che altrettanto puntualmente proclamano il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

L’affermazione che il voto alfanumerico sia espressione sintetica, ma completa, del giudizio, sarebbe insoddisfacente, dato che, sulla base di un voto alfanumerico, sarebbe impedito il successivo svolgimento di un giusto processo, data la preclusione di ogni potenziale verifica degli eventuali vizi della motivazione.

Per altro verso, secondo il rimettente, l’art. 22, comma 9, del r.d. n. 1578 del 1933, come modificato dal d.l. n. 112 del 2003 e dalla sua legge di conversione, stabilisce che «la commissione istituita presso il Ministero della giustizia definisce i criteri per la valutazione degli elaborati scritti» che devono essere comunicati alle varie Sottocommissioni; fra tale criteri, devono comunque essere sempre presenti i seguenti: a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione; b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici; c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati; d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà; e) relativamente all’atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione. Ciò offrirebbe un’ulteriore conferma alla dedotta censura, dato che la norma in questione sarebbe priva di significato in mancanza di un obbligo di motivazione dei giudizi formulati sugli elaborate dei candidati.

Le norme censurate, interpretate in base al «diritto vivente» elaborato negli anni dal Consiglio di Stato, precluderebbero, inoltre, ogni diritto di difesa dato che il giudizio negativo espresso nei confronti di un soggetto, non sarebbe verificabile neppure sotto l’angusto profilo della sua motivazione: ciò che determinerebbe una violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, consacrato, secondo il rimettente, anche nel principio del “giusto processo” di cui all’art. 111, primo e secondo comma della Costituzione.

La questione appare al rimettente non manifestamente infondata anche alla luce dell’art. 117, primo comma della Costituzione, posto che tale norma farebbe obbligo allo Stato di esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi internazionali. La violazione delle regole del giusto processo e del principio della sua effettività, invero, determinerebbe, in base a quanto statuito da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, a cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché del suo Protocollo addizionale firmato a Parigi il 20 marzo 1952.

4 – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, con tre distinti atti di intervento, deducendo l’inammissibilità del ricorso, per l’inesistenza del diritto vivente descritto dal rimettente e sostenendo in ogni caso, nel merito, l’infondatezza dello stesso.

Quanto al primo aspetto, la difesa erariale sottolinea come questa Corte, in ben quattro pronunce, abbia già evidenziato la mancanza di un orientamento consolidato del Consiglio di Stato e dei TAR qualificabile come “diritto vivente”, attesa la eterogeneità delle soluzioni interpretative offerte in giurisprudenza.

Nel merito, l’Avvocatura ricorda che l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), nel prevedere il generale obbligo di motivazione, si riferisce all’attività amministrativa provvedimentale e non a quella conseguente a una valutazione tecnica, qual è quella relativa alla preparazione del candidato.

Soggiunge che il voto in tale circostanza non rappresenterebbe una sorta di dispositivo di cui occorra fornire la motivazione, ma esprime esso stesso, in forma sintetica, la valutazione compiuta dalla commissione esaminatrice nell’apprezzamento delle singole prove e nella loro reciproca comparazione.

Né, prosegue l’Avvocatura, la situazione può ritenersi alterata dall’introduzione dell’art. 11, comma 5, del d.lgs. 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonché in materia di coadiutori notarili in attuazione dell’articolo 7, comma 1, della L. 28 novembre 2005, n. 246, in materia di concorso notarile), in base al quale il giudizio di non idoneità è motivato, mentre nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione. La diversità di normativa sarebbe giustificata dal fatto che il concorso notarile, a differenza dell’esame di abilitazione, sarebbe una procedura concorsuale a numero chiuso, fondata sul necessario raffronto comparativo tra i candidati.

L’Avvocatura poi ricorda la recente decisione del Consiglio di Stato, in relazione al concorso per uditore giudiziario, con la quale è stato affermato che non è configurabile un interesse giuridico del candidato a conoscere il grado di insufficienza delle proprie prove, atteso che «nell’ambito dell’insufficienza, le norme non assegnano all’uno o all’altro voto alcun effetto».

Quanto alla deduzione in base alla quale la espressione numerica del giudizio non consentirebbe al candidato di comprendere dove abbia sbagliato, onde poter ritentare l’esame di abilitazione, l’Avvocatura osserva che la valutazione della commissione non ha scopi didattici; aggiungendo che tale forma sintetica di motivazione garantirebbe il rispetto dei principi costituzionali di efficienza, economia, efficacia e speditezza su cui deve fondarsi l’azione amministrativa, dovendosi ritenere che l’attività di correzione sarebbe notevolmente rallentata se la commissione dovesse esprimere dei giudizi articolati in luogo dei voti.

L’idoneità del voto a racchiudere in sé un giudizio sintetico renderebbe, pertanto, priva di fondamento la tesi del Tribunale amministrativo rimettente dell’asserita violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e di garanzia del giusto processo, sia per quanto attiene alla censura relativa all’art. 24, Cost., sia per quella relativa all’art. 111, Cost., sia infine per quella relativa all’art. 117, primo comma, Cost.


Considerato in diritto

1 – Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento dubita, con riferimento agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, d.l. 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), nella parte in cui non prevedono l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame per l’abilitazione alla professione forense.

Il vigente sistema di valutazione, fondato sulla attribuzione di un punteggio alfanumerico compreso tra 1 e 10, viene contestato nella parte in cui, secondo un’interpretazione giurisprudenziale qualificata dal rimettente in termini di diritto vivente, non prevederebbe (implicitamente anche) la necessità di una motivazione del punteggio attribuito agli elaborati scritti.

L’odierno incidente di costituzionalità ha ad oggetto, da un lato, gli artt. 17-bis, 22, 23, e 24, 1 comma, del regio decreto 22 gennaio 1934 n. 37, come modificato dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 convertito in legge (…), che dettano la disciplina e il contenuto delle prove (scritte e orali) cui sono sottoposti gli aspiranti avvocati, prevedendo, tra l’altro, che all’esito della correzione degli elaborati scritti la sottocommissione esprima un punteggio numerico tra 1 e 10 per ciascuna prova scritta; e, dall’altro, la disposizione di cui all’art. 22 del r.d.l. n. 1578 del 1933, come riformato dal decreto-legge n. 112 del 2003, che pone a carico della Commissione esaminatrice nazionale l’obbligo di definire, per tutte le Corti di appello, dei criteri uniformi per la valutazione degli elaborati scritti.

Le norme predette, nell’odierno giudizio costituzionale, vengono ritenute in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, per la lesione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, in ambito generale e amministrativo; con il principio del “giusto processo”, enunciato dall’art. 111 della Costituzione e, infine, per il tramite dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, con i medesimi principi di effettività della tutela giurisdizionale e del giusto processo, consacrati nella Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

2 – I giudizi, avendo ad oggetto le medesime norme, denunciate in riferimento agli stessi parametri e con argomentazioni identiche, vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia.

3 – La questione è ammissibile.

Questa Corte, in plurime decisioni, ha sinora escluso che la tesi dell’insussistenza, nell’ordinamento vigente, di un obbligo di motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione e della idoneità degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida motivazione del provvedimento di inidoneità costituisse una interpretazione obbligata e univoca della normativa vigente (ordinanze n. 466 del 2000, n. 233 del 2001, n. 419 del 2005 e, da ultimo, n. 28 del 2006).

Tuttavia, nella più recente evoluzione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, tale tesi si è ormai consolidata, privando la tesi minoritaria, ancora adottata in alcune isolate pronunce, di ogni concreta possibilità di definitiva affermazione giurisprudenziale. Questa Corte deve quindi prendere atto della circostanza che la soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza costituisce ormai un vero e proprio «diritto vivente».

4 – Nel merito, la questione non è fondata.

Gli articoli 24 e 113, Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione.

Entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis, le sentenze n. 182 del 2008, nn. 180, 181, 282, 420 del 2007, n. 101 del 2003 e n. 419 del 2000).

A sua volta, il principio del giusto processo, consacrato nell’art. 111, Cost., è finalizzato ad assicurare che gli strumenti procedurali vigenti pongano accusa e difesa in una posizione di parità e offrano idonea tutela ai diritti sostanziali su cui si controverte nel processo, attraverso la piena attuazione del principio del contraddittorio, del principio di ragionevole durata del procedimento, della motivazione della decisione. Anche in tal caso si tratta di garanzie di carattere esclusivamente processuale.

Gli stessi principî di effettività del diritto di difesa e del giusto processo sono espressi anche nella «Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali» con esclusivo riferimento al piano processuale.

Per converso, la denunciata illegittimità costituzionale della norma che, in base al diritto vivente, non impone alla commissione una specifica modalità di motivazione delle determinazioni da essa assunte in merito alle prove scritte ed orali, concerne un momento del procedimento amministrativo che disciplina lo svolgimento degli esami per l’abilitazione alla professione forense. Essa, quindi, riguarda il profilo sostanziale dei requisiti di validità del provvedimento di esclusione del candidato, conclusivo di detto procedimento. L’aspetto processuale degli strumenti predisposti dall’ordinamento per l’attuazione in giudizio dei diritti non è chiamato in gioco dalla norma, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo.

La disciplina censurata non è quindi idonea a interferire né con il diritto di difesa né con il principio del contraddittorio e si sottrae all’ambito di applicazione dei parametri invocati dal rimettente.

P.Q.M.

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), sollevata, in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con le ordinanze indicate in epigrafe.

Redazione

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