Il Consiglio di Giustizia Amministrativa si pronuncia sull’occupazione usurpativa

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa si è recentemente pronunciato su vari aspetti giuridici dell’occupazione usurpativa.

Innanzitutto per il CGA deve ritenersi appartenere alla competenza del Giudice Amministrativo ogni controversia avente ad oggetto i danni derivanti da illegittima occupazione e trasformazione del terreno in forza di procedura espropriativa iniziata sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità, poi divenuta inefficace per scadenza dei termini.

In secondo luogo il proprietario dell’area, su cui è stata realizzata l’opera in modo illegittimo, può optare per la proposizione di domanda volta all’ottenimento del risarcimento per equivalente, al fine del ristoro patrimoniale del pregiudizio derivante dalla perdita del diritto di proprietà, piuttosto che proporre la domanda di reintegrazione in forma specifica e di restituzione dell’immobile.

Infine la scelta del proprietario di proporre domanda risarcitoria per equivalente non preclude all’Amministrazione di restituire l’immobile, eliminando in tal modo il danno arrecato,  nello stesso stato in cui si trovava prima dell’occupazione usurpativa. In ogni caso il danneggiato ha sempre la facoltà di rifiutare la restituzione sempreché tale rifiuto  non  si configuri come ingiustificato. Qualora il rifiuto sia ingiustificato e determini un aggravamento del danno, l’Amministrazione ha, infatti, diritto alla riduzione del risarcimento dovuto.

Riportiamo di seguito il testo della sentenza in oggetto.

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C.G.A., Sez. Giurisdizionale

Sentenza n. 486 del 25 maggio 2009

(Pres. Virgilio – Est. Lipari)

[…]

DIRITTO

1. L’amministrazione sostiene, anzitutto, che l’azione risarcitoria proposta in primo grado avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, “anche per difetto di giurisdizione” del giudice amministrativo, prospettando la tesi secondo cui la domanda formulata si riferirebbe a controversie relative a “meri comportamenti dell’amministrazione”, affidati alla cognizione del giudice ordinario.

Tale profilo dell’appello deve essere respinto.

Non vi è dubbio, infatti, che, nel caso di specie, la parte ricorrente in primo grado abbia ritualmente contestato la condotta dell’amministrazione strettamente correlata al procedimento ablatorio avviato dall’amministrazione regionale, ma poi non concluso nei termini prescritti, finalizzato alla realizzazione di un’opera pubblica, sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera divenuta inefficace, per scadenza dei termini.

Il comportamento dell’amministrazione produttivo del pregiudizio subito dall’interessato, quindi, si connette esplicitamente alla procedura espropriativa iniziata sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità, poi divenuta inefficace per scadenza dei termini.

Tale circostanza è sufficiente per radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’articolo 53 del testo unico dell’espropriazione, secondo i principi esposti dalla Corte costituzionale, con le sentenze n. 204/2004 e n. 191/2006 e sviluppati dall’Adunanza Plenaria, con decisione 22 ottobre 2007, n. 12. Quindi, il collegamento fattuale e formale tra la domanda risarcitoria proposta e l’esercizio del potere pubblico risulta, nella presente fattispecie, del tutto indiscutibile.

2. L’amministrazione appellante sostiene, poi, sotto altro profilo, l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno per equivalente, accompagnata dalla rinuncia al diritto di proprietà sul bene, proposta in primo grado dalla parte ricorrente privata.

Secondo l’Assessorato, la domanda mirerebbe, in ultima analisi, a determinare una sorta di inammissibile trasferimento coattivo della proprietà dell’immobile, insieme alla contestuale attribuzione del diritto al risarcimento del danno derivante dalla stessa perdita della proprietà.

Si tratterebbe, quindi, di una vicenda del tutto corrispondente agli effetti tipici dell’occupazione acquisitiva (o “accessione invertita”), creata dalla giurisprudenza ordinaria e poi recepita dal legislatore. Ma, secondo l’appellante, nel nuovo contesto normativo derivante dall’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni, tale istituto non può avere alcuno spazio applicativo, anche in base alle indicazioni precise della Corte del Lussemburgo e ai vincoli sostanziali derivanti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Pertanto, il “risultato” consistente nell’acquisizione, da parte dell’amministrazione, del terreno privato su cui insiste l’opera pubblica e nel contestuale obbligo del risarcimento del danno in favore del proprietario privato, potrebbe derivare solo dall’applicazione delle diverse e innovative regole dell’acquisizione sanante, previsto dall’articolo 43.

Questa disciplina, a sua volta, risulta caratterizzata, necessariamente, dalla assenza di qualsiasi automatismo derivante dalla trasformazione irreversibile del suolo. Al contrario, l’effetto acquisitivo presuppone la esistenza di una domanda di “restituzione” del bene, formulata dal soggetto privato, successivamente “paralizzata” dall’amministrazione, mediante l’adozione del provvedimento di acquisto della proprietà, accompagnato dalla corresponsione del risarcimento del danno.

In tale contesto, quindi, conclude l’appellante, non sarebbe possibile, in accoglimento della domanda proposta dall’interessato, imporre all’amministrazione il pagamento del risarcimento del danno per equivalente e l’acquisto della proprietà dell’immobile. Ne conseguirebbe, quindi, l’inammissibilità della domanda risarcitoria, proposta dall’interessato e l’erroneità della sentenza di accoglimento pronunciata in primo grado.

3. La questione principale proposta dall’appellante consiste nello stabilire se, ed eventualmente a quali condizioni, per tutelare i propri interessi e diritti, il soggetto proprietario di un immobile trasformato ed utilizzato senza titolo dall’amministrazione, per finalità di interesse pubblico, possa scegliere, autonomamente, di chiedere il risarcimento del danno per equivalente, rinunciando – anche in corso del giudizio – alla domanda di restituzione dell’immobile.

Il Consiglio ritiene che il tema proposto debba essere affrontato considerando, sistematicamente:

– i principi generali civilistici in materia di risarcimento del danno incidente sul diritto di proprietà del privato, con particolare riguardo al rapporto tra la tutela restitutoria, la reintegrazione in forma specifica e il risarcimento per equivalente;

– la disciplina specifica in materia di conseguenze derivanti dalla utilizzazione senza titolo di un immobile privato, per scopi di interesse pubblico, accompagnata dalla realizzazione di un’opera pubblica (articolo 43 del testo unico dell’espropriazione);

– la giurisprudenza civile formatasi in materia di strumenti di tutela del proprietario nelle ipotesi della cosiddetta occupazione “usurpativa”, ossia nei casi in cui, nonostante la realizzazione materiale dell’opera pubblica, permane integro il diritto alla restituzione del bene al proprietario, difettando il presupposto necessario dell’occupazione appropriativa, costituito da una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.

Questi aspetti devono poi essere attentamente correlati alla disciplina dei modi di acquisto, trasferimento e rinuncia dei diritti di proprietà.

4. In linea generale, secondo le coordinate civilistiche, desumibili dalla lettura sistematica degli articoli 2043, 2058 e 2933 del codice civile, la riparazione del danno patrimoniale ingiusto extracontrattuale subito dal proprietario di un bene può avvenire, alternativamente, tramite la corresponsione dell’equivalente monetario, oppure mediante la reintegrazione in forma specifica, attuata mediante la restituzione, accompagnata dalla fisica e materiale riparazione o sostituzione della cosa danneggiata, distrutta o resa inservibile per l’uso.

La regola della alternatività non impedisce, ovviamente, la complementarità delle due tutele in particolari casi, considerando che il risarcimento per equivalente va comunque riconosciuto per quelle componenti del pregiudizio economico non riparabili in forma specifica, quali l’indisponibilità del bene nel periodo precedente la perdita della proprietà.

Inoltre, la regola dell’alternatività è puntualmente ribadita nell’ambito del risarcimento del danno derivante dall’attività provvedimentale illegittima. In particolare, l’articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998, che contiene un esplicito riferimento ad entrambi i tipi di risarcimento e reintegrazione del pregiudizio, posti sullo stesso piano.

5. Nella sistematica civilistica si prevedono anche alcune specifiche disposizioni dirette a regolare il rapporto fra le due forme di tutela. In questa direzione, l’articolo 2058 del codice civile esclude il risarcimento in forma specifica solo qualora ciò sia considerato “eccessivamente oneroso” per il debitore o risulti contrastante con l’economia nazionale.

Nella prospettiva del codice si muove ragionevolmente dall’idea secondo cui il risarcimento in forma specifica comporti, per il debitore, un sacrifico maggiore del risarcimento meramente patrimoniale e, pertanto, si prevedono alcune eccezionali limitazioni. Tali restrizioni operano “unidirezionalmente”, nel senso che circoscrivono lo spazio applicativo della tutela in forma specifica, ma non delimitano mai l’operatività del diritto al risarcimento per equivalente.

Al di fuori di questi limiti espliciti, la previsione dell’alternatività delle due forme di tutela comporta, evidentemente, l’attribuzione al danneggiato del diritto di optare per la modalità risarcitoria ritenuta più idonea a proteggere i propri interessi. Né il giudice, né tanto meno l’autore dell’illecito possono contrastare tale scelta, al di fuori dei confini indicati dall’articolo 2058 del codice civile.

In particolare, non è attribuito al danneggiante il potere di paralizzare – automaticamente – la domanda risarcitoria per equivalente proposta dall’interessato, mediante la mera offerta di una riparazione in forma specifica.

Non vi sono, quindi, limiti espliciti, o derivanti da principi di creazione giurisprudenziale, alla utilizzabilità dell’ordinario strumento di tutela del risarcimento per equivalente.

6. In termini generali, quindi, la Cassazione ha da tempo affermato il principio secondo cui la scelta del tipo di risarcimento (se in forma specifica o per equivalente) spetta al danneggiato. Gli strumenti di tutela del soggetto interessato, infatti, rientrano nella disponibilità della parte, la quale, in base alle circostanze, può ritenere preferibile l’una o l’altra forma di realizzazione dell’interesse leso dal comportamento illecito del danneggiante. Tale principio opera anche nei casi in cui il danno discenda dalla materiale apprensione di un bene e dalla sua radicale trasformazione fisica, e il risarcimento in forma specifica miri alla restituzione del bene, ovviamente nel suo stato originario e con le medesime potenzialità di utilizzazione presenti prima dell’evento dannoso.

7. La stessa giurisprudenza, tuttavia, ha chiarito che la regola dell’alternatività non osta a che il danneggiante, secondo i principi generali in tema di obbligazione, e fino a quando non intervenga la sentenza esecutiva, risarcisca spontaneamente il danno, anche in forma diversa da quella scelta dal creditore, salva la possibilità, per quest’ultimo, di rifiuto, che, ove ingiustificato e determinante un aggravamento del danno, comporta, tuttavia, la riduzione del risarcimento dovuto, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c. (Cassazione civile, sez. III, 21 maggio 2004, n. 9709).

In questa prospettiva, quindi, solo il comportamento materiale dell’autore dell’illecito, che si sostanzia nella concreta eliminazione del danno, potrebbe comportare la riduzione, anche cospicua, dell’obbligazione risarcitoria, secondo le coordinate dell’articolo 1227 del codice civile. E non potrebbe escludersi nemmeno che il danneggiante riesca ad eliminare completamente il danno prima della pronuncia della sentenza di condanna.

Ma occorre ribadire, che, per la giurisprudenza della Cassazione, anche in queste ipotesi, la condotta del debitore non è sempre idonea a fermare – ope iuris – la pretesa risarcitoria del danneggiato, il quale, in base alle circostanze concrete – potrebbe rifiutare, giustificatamene, il risarcimento specifico, preferendo l’equivalente monetario. Si pensi ai casi in cui la restituzione della cosa avvenga a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’illecito e dall’inizio dell’utilizzazione dell’immobile.

8. La disciplina specifica contenuta nell’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni non prevede, in materia di risarcimento del danno subito dal proprietario, regole contrastanti con i principi generali espressi dal codice civile e dallo stesso articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998.

La specialità della normativa si innesta nel quadro sistematico della tutela risarcitoria, dettando alcune significative deroghe, le quali, tuttavia, non intaccano la persistente cogenza del principio di alternatività tra la tutela risarcitoria e la reintegrazione in forma specifica.

9. La disposizione, sul piano letterale, descrive un meccanismo caratterizzato dalla sequenza tra una richiesta di restituzione del bene e una determinazione del soggetto pubblico diretta ad operare l’acquisizione del bene e la conseguente metamorfosi della pretesa alla restituzione del bene in un diritto di credito al risarcimento del danno per equivalente.

Non sembra dubitabile, quindi, che il nuovo istituto introdotto dall’articolo 43 intenda eliminare la cosiddetta “anomalia” dell’occupazione appropriativa, di origine giurisprudenziale, ma poi recepita dal legislatore, conseguente al fatto materiale dell’irreversibile trasformazione dell’immobile (seppure nell’ambito di una efficace dichiarazione di pubblica utilità), riconducendo sempre il trasferimento coattivo dell’immobile, in danno del proprietario, ad un motivato provvedimento dell’amministrazione, ascrivibile al genus degli atti espropriativi per ragioni di interesse pubblico.

Ma, appunto, tanto la lettera della disposizione, quanto la sua ratio, intendono regolare, innovativamente, le ipotesi di trasferimento coattivamente imposte al proprietario, senza nulla dire in ordine alla perdita della proprietà derivante da una scelta spontanea dell’interessato: in tale secondo caso devono applicarsi i principi comuni in materia di risarcimento del danno.

10. E’ indiscusso, infatti, che la previsione dell’articolo 43, miri, essenzialmente, a rafforzare la tutela del proprietario dell’immobile trasformato, assicurandogli, in linea di principio, la pienezza della tutela restitutoria e in forma specifica, salvo, però, il potere della amministrazione di adottare il provvedimento di acquisizione sanante, secondo le regole procedurali e sostanziali tipiche, previste dalla disposizione.

In tal caso, il limite alla tutela in forma specifica opera anche al di là dei confini previsti dall’articolo 2058 del codice civile (secondo i quali la reintegrazione in forma specifica può avvenire solo in presenza di rigorose condizioni di fatto) e si connette allo svolgimento di un tipico procedimento di natura ablatoria.

11. La norma non vuole stigmatizzare, in sé, la vicenda traslativa conseguente all’utilizzazione senza titolo di un immobile privato, ma solo la circostanza che essa avvenga, in danno del proprietario, senza il rispetto delle minime garanzie formali e sostanziali del diritto dominicale.

Dunque, la circostanza che l’articolo 43 non faccia alcuna menzione della domanda risarcitoria proposta autonomamente dall’interessato, in luogo della richiesta restitutoria, non può significare affatto che questa forma di tutela sia stata espunta dall’ordinamento, perché essa è fondata direttamente sulle regole generali (articolo 2043 del codice civile, articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998).

12. E’ pacifico, del resto, che “sul piano processuale, il risarcimento per equivalente costituisca un “minus” rispetto alla reintegrazione in forma specifica e ne rappresenti il sostitutivo legale sussidiario mediante prestazione dell'”eadem res debita“, per cui la relativa domanda è contenuta in quella della reintegrazione in forma specifica (ex plurimis Cass. 25.11.1983, n. 7080), con la conseguenza che, anche se il danneggiato chiede la reintegrazione in forma specifica, il giudice gli può accordare il risarcimento per equivalente, senza violare il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, mentre non è possibile il contrario.

Dunque, il fatto che l’articolo 43 contenga un riferimento testuale alla domanda di restituzione del bene utilizzato senza titolo dall’amministrazione, mediante la realizzazione di un’opera pubblica, comporta proprio il riconoscimento, sistematico, dell’azione diretta ad ottenere il risarcimento per equivalente e non certo la sua negazione. La previsione della forma di tutela più ampia e satisfattiva (in forma specifica), presuppone, evidentemente, la sussistenza dei mezzi di tutela “minori” (il risarcimento per equivalente).

13. La giurisprudenza della Cassazione in materia di occupazione “usurpativa” (formatasi proprio in relazione a quelle fattispecie in cui, diversamente dai casi di occupazione appropriativa, permane il diritto del proprietario ad ottenere la restituzione del bene e la reintegrazione in forma specifica, nonostante l’intervenuta realizzazione materiale dell’opera pubblica), ha da tempo riconosciuto il principio secondo cui il proprietario può scegliere, in piena autonomia, se chiedere la restituzione del bene, oppure il risarcimento del danno per equivalente, calibrato sul valore della proprietà “persa” in conseguenza dell’attività illecita dell’amministrazione.

L’indicata giurisprudenza della Cassazione non ha escluso “la possibilità dell’interessato di abbandonare l’immobile danneggiato all’amministrazione occupante e di ottenere in cambio l’integrale risarcimento del danno per la perdita definitiva del bene; che questa volta dipende esclusivamente da una scelta del proprietario usurpato ed è inquadrabile in una vicenda logicamente e temporalmente successiva alla radicale trasformazione del fondo, nel caso del tutto irrilevante ai fini del suo assetto proprietario. Con la conseguenza che solo se e quando viene compiuto il suddetto atto abdicativo cessa il dovere dell’amministrazione di porre fine alla creata situazione permanente di antigiuridicità ed inizia il decorso del dies a quo del termine prescrizionale della prescelta azione risarcitoria, pur esso privo di collegamento con l’illecita trasformazione perpetrata dall’ente pubblico” (Cass. 1814-2000; sez. un. N. 1907-1997).

14. Tale indirizzo, poi, è indirettamente avallato anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, 11 maggio 2006, n. 191.

In tal senso, si è affermato che “la facoltà di ottenere la restituzione dell’immobile non esclude, peraltro, la possibilità dell’interessato di avvalersi di un’azione di risarcimento del danno per perdita definitiva del bene, ponendo in essere un meccanismo abdicatorio che non manca di riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104, 550 c.c.). Tale riferimento sistematico è contestato in una delle citate sentenze delle S.U. (la 3940-88), ma ciò avviene nell’ottica dell’occupazione acquisitiva, mentre nel caso in esame si tratta della diversa ipotesi in cui, mancando la dichiarazione di pubblica utilità, tale vicenda acquisitiva non si verifica. D’altra parte, poiché la valenza restitutoria dell’azione del privato potrebbe trovare ostacolo o nell’eccessiva onerosità di essa per il debitore (art. 2058, comma 2, c.c.) o nel pregiudizio per l’economia nazionale (art. 2933, comma 2, c.c.), come espressamente rilevano le S.U. nella sentenza 3963-89, o essere irragionevolmente antieconomica a cagione della irreversibilità – anche soltanto materiale – della trasformazione del fondo, non si vede perché il privato non dovrebbe essere ammesso a formulare la sua pretesa in termini di risarcimento del danno per la perdita del bene.” (Cass. 1814-2000; sez. un. N. 1907-1997).

15. Nella prospettiva civilistica delle modalità di attuazione della tutela risarcitoria, quindi, secondo la giurisprudenza più recente della Cassazione, non emergono ostacoli di sorta in ordine alla possibilità, per il privato danneggiato, di chiedere il risarcimento per equivalente, anziché la restituzione del bene.

Detta domanda è certamente ammissibile, sul piano processuale, ferma restando la possibilità di verificare se, sul piano sostanziale e “materiale”, il danno sia stato già, in tutto o in parte, eliminato dall’amministrazione, mediante la rimessione in pristino dell’immobile e la sua effettiva messa a disposizione in favore del proprietario spossessato. Detta circostanza di fatto, che deve essere dimostrata dall’amministrazione autrice dell’illecito e presuppone, in ogni caso, l’assenza di un rifiuto giustificato del danneggiato, peraltro, può rilevare ai soli fini dell’applicazione dell’articolo 1227 del codice civile e non paralizza, sul versante processuale, l’ammissibilità della richiesta di risarcimento per equivalente.

16. Questa soluzione interpretativa, tuttavia, è stata sottoposta – anche da parte di non isolate pronunce di TAR – ad alcune obiezioni, incentrate, essenzialmente, su argomenti sistematici tratti dall’analisi del rapporto tra la tutela risarcitoria per equivalente e la disciplina positiva dei modi di acquisto, di trasferimento e di estinzione della proprietà immobiliare.

Le tesi critiche in esame approfondiscono il presupposto logico e sostanziale della domanda risarcitoria per equivalente, diretta ad ottenere una riparazione patrimoniale calibrata sul valore venale del bene del danneggiato. L’integralità di tale risarcimento, il quale risulta diverso da quello riguardante il ristoro della temporanea indisponibilità del bene, postula, allora, che il danneggiato sia stato definitivamente privato del diritto di proprietà. Non sarebbe possibile un risarcimento del danno pieno, invece, qualora si affermasse che il proprietario conservi, formalmente, il diritto dominicale, ancorché radicalmente “svuotato” di valore, sul piano economico.

A giudizio della illustrata tesi critica, tuttavia, il vigente quadro legislativo non consentirebbe di individuare una modalità idonea a determinare la prospettata perdita del diritto di proprietà. Non potrebbe più trovare applicazione, infatti, il meccanismo dell’occupazione appropriativa, definitivamente espunto dall’ordinamento, secondo cui l’irreversibile trasformazione dell’immobile oggetto di una valida dichiarazione di pubblica utilità comporta la vicenda estintiva del diritto di proprietà privata, accompagnata dall’acquisto dell’amministrazione pubblica.

Ma l’opinione critica in esame si spinge oltre, contestando radicalmente anche l’orientamento più recente della Cassazione, secondo la quale il danneggiato potrebbe optare per la tutela risarcitoria, rinunciando contestualmente al diritto di proprietà.

17. Il Collegio condivide le premesse dell’esposto ragionamento critico, ma non le conclusioni prospettate.

Effettivamente, è corretta sia l’affermazione, preliminare, del necessario collegamento tra la perdita delle proprietà e il diritto al risarcimento integrale del valore del bene, sia l’asserzione relativa alla definitiva soppressione dall’ordinamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva.

La domanda di risarcimento del danno per equivalente si accompagna, esplicitamente o implicitamente, alla formale dichiarazione della rinuncia al diritto di proprietà, sospensivamente condizionata all’accoglimento dell’azione proposta dinanzi al giudice.

D’altro lato, però, tale azione non potrebbe più basarsi sulla affermata esistenza di un meccanismo normativo che collega il trasferimento della proprietà al fatto materiale della realizzazione dell’opera.

18. Non è invece persuasiva l’obiezione secondo cui, in termini generali, non sarebbe ammissibile la rinuncia al diritto di proprietà immobiliare.

La tesi in esame si basa su due ordini di argomenti. Il primo richiama i principi generali civilistici. Il secondo muove dalla disciplina dell’articolo 43 del testo unico dell’espropriazione.

Gli indicati argomenti sistematici di carattere privatistico non convincono.

E’ acquisizione plurisecolare quella secondo cui, nel campo del diritto civile, il principio cardine è rappresentato dalla piena disponibilità delle facoltà economiche e patrimoniali dei soggetti privati. La “disponibilità” comprende, ovviamente, anche il potere di rinunciare al diritto, senza alcuna necessità che questa possibilità sia espressamente enunciata in relazione alla singola fattispecie considerata o sia formalmente ribadita in funzione della categoria del diritto oggetto della rinuncia o della natura del bene.

Le eccezioni al principio della disponibilità previste dall’ordinamento devono essere espressamente stabilite e riguardano, di solito, esigenze specifiche di protezione dello stesso titolare ed operano nel campo dei diritti “personalissimi”, oppure si raccordano a obiettivi di tutela del “soggetto debole”, o alla realizzazione di precise finalità di interesse pubblico.

Nessuna di queste situazioni ricorre nel caso della rinuncia alla proprietà immobiliare, sia in termini generali, sia in riferimento al caso specifico della proprietà privata utilizzata per scopi di interesse pubblico.

19. Non risulta che, in dottrina o in giurisprudenza, si sia mai seriamente dubitato circa la possibilità di rinunciare al diritto di proprietà, anche immobiliare. Sul piano empirico, infatti, riesce difficile comprendere perché la proprietà immobiliare debba trasformarsi, immancabilmente, in una sorta di “condanna” perpetua del titolare, evitabile solo mediante il consenso di un nuovo acquirente, disposto a farsi carico del bene.

A maggiore ragione, sarebbe difficile comprendere per quale motivo si debba impedire al proprietario di rinunciare formalmente al diritto, proprio al fine di realizzare nel modo più efficace la riparazione del danno patrimoniale conseguente ad una utilizzazione del bene da parte dell’amministrazione pubblica, tale da svuotarne, sostanzialmente, il contenuto economico.

In tale ultima situazione, infatti, risulta adeguatamente soddisfatto anche il requisito “causale” della giustificazione dell’atto abdicativo, individuato nella strumentalità alla riparazione dell’illecito causato dal comportamento di un terzo.

20. L’argomento critico sviluppato da alcune pronunce di TAR, in base al quale, attraverso la rinuncia, il proprietario potrebbe così “sottrarsi” alle proprie responsabilità, non è convincente.

Anche dopo la rinuncia restano fermi, infatti, tutti gli obblighi (civili, penali e amministrativi) eziologicamente riconducibili alle azioni e alle omissioni commesse, in precedenza, nella qualità di proprietario del bene, a nulla rilevando che, poi, gli effetti si siano verificati in un momento successivo alla rinuncia. Ed è perfettamente in linea con le coordinate del sistema e con i principi di personalità della responsabilità, che questa debba essere esclusa in caso di mancanza di un collegamento tra il soggetto e un bene.

21. D’altro canto, sul piano del riscontro del diritto positivo, non è vero che la legge ignori la rinuncia al diritto di proprietà immobiliare. Al contrario, gli articoli 1350, numero 5), e 2643, numero 5), del codice civile, menzionano espressamente “gli atti di rinuncia ai diritti indicati dai numeri precedenti” (e non solo la rinuncia ai “diritti derivanti dai contratti”), fra i quali rientra, indiscutibilmente, anche il diritto di proprietà immobiliare.

Specifiche ipotesi di atti di rinuncia al diritto di proprietà immobiliare, poi, sono contemplate dagli articoli 1070, 1104 e 550 del codice civile: disposizioni tutte costruite come applicazioni di principi generali e non come eccezioni a una regola.

22. Ancora, l’articolo 827 del codice civile contempla l’ipotesi dei beni immobili “vacanti”, stabilendo che essi, se “non sono di proprietà di alcuno”, spettano al patrimonio dello Stato (o delle Regioni a Statuto Speciale che lo prevedono).

La disposizione, per la sua ratio e per la sua formulazione letterale (oltre che per la sua collocazione), non ha affatto una portata meramente transitoria, collegata all’entrata in vigore del codice civile, ma riguarda tutte le fattispecie in cui, per qualsiasi ragione, un bene immobile sia privo di un proprietario. In tale ambito, quindi, rientrano anche i casi in cui il titolare abbia rinunciato al proprio diritto, senza determinare il contestuale acquisto da parte di altro soggetto determinato.

Dunque, la “rinuncia” al diritto di proprietà immobiliare trova piena cittadinanza nel sistema generale civilistico, senza incontrare alcun significativo ostacolo di ordine letterale o sistematico.

23. Una seconda linea argomentativa critica, peraltro, si è sviluppata attraverso una particolare lettura dell’articolo 43 del testo unico dell’espropriazione. In questa prospettiva, si dice che la disposizione contempla, espressamente, un solo modo attraverso cui può verificarsi la perdita del diritto di proprietà dell’interessato, connessa alla realizzazione di un bene per finalità di interesse pubblico: l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, subordinato alla valutazione discrezionale dell’amministrazione.

Si tratta di un argomento insufficiente. Come si è detto, lo scopo palese dell’articolo 43 è quello di cancellare dall’ordinamento il modo di acquisto “automatico” dell’occupazione appropriativa, giudicato incompatibile con il sistema di protezione della proprietà provata. Ma l’articolo 43 non ha inteso affatto eliminare una forma di tutela ulteriore del privato, attivata spontaneamente dal soggetto interessato e agevolmente ricavabile dai principi del risarcimento del danno per equivalente, sempre ammesso dal codice civile.

Del resto, nel contesto dell’articolo 43, la rilevanza della discrezionalità dell’amministrazione emerge solo quando essa intenda, attraverso l’adozione dell’atto di acquisizione sanante, impedire la restituzione del bene. Ma non rileva una discrezionalità di segno opposto, che potrebbe consentire all’amministrazione, contro i principi di diritto civile, di paralizzare la richiesta meramente risarcitoria dell’interessato.

Quindi, la norma non contiene alcuna previsione esplicita o implicita, diretta a vietare la rinuncia al diritto di proprietà sul suolo utilizzato per la realizzazione di un’opera pubblica in assenza di valido ed efficace titolo.

D’altro lato, come si è rilevato, l’amministrazione, al pari di qualsiasi altro debitore, conserva la possibilità di eliminare o ridurre il danno, mediante la spontanea e materiale esecuzione delle attività indispensabili per la rimessione in pristino dell’immobile privato.

24. Altri argomenti contrari all’ammissibilità della rinuncia al diritto di proprietà, finalizzata alla proposizione della domanda risarcitoria per equivalente, sono stati prospettati facendo riferimento alle – asserite – notevoli difficoltà e incertezze nella individuazione del momento in cui si verifica l’acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione utilizzatrice del bene, nonché nelle determinazione dello stesso “titolo” dell’acquisto. Si sostiene, al riguardo, che l’articolo 43 avrebbe anche lo scopo di definire con chiarezza l’assetto proprietario del bene interessato dalla utilizzazione per motivi di interesse pubblico. Il meccanismo della “rinuncia” alla proprietà non consentirebbe di realizzare adeguatamente la stessa finalità, perché, si dice, non risulterebbe molto chiaro quale sorte subisca il diritto di proprietà rinunciato dal privato.

Al proposito, infatti, si sono prospettate diverse soluzioni, secondo cui la proprietà:

a) si trasmetterebbe automaticamente all’amministrazione utilizzatrice del bene, mediante una semplice dichiarazione di “accettazione”, oppure per il solo fatto concludente della utilizzazione del bene, analogo ad una “occupazione” dell’immobile, o, ancora, sulla base della volontà insita nella dichiarazione di pubblica utilità o nel decreto di esproprio (secondo taluno, ancorché annullati o divenuti inefficaci);

b) passerebbe al patrimonio dello Stato o della Regione, secondo il meccanismo dell’articolo 827 del codice civile;

c) diventerebbe res nullius;

d) dovrebbe essere attribuita all’amministrazione utilizzatrice, ma solo in virtù della “doverosa” applicazione dell’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni.

25. Si deve premettere, tuttavia, che la problematica evocata, per quanto rilevante in termini generali, non sembra comunque condizionare il tema specifico in esame, che consiste, semplicemente, nello stabilire se il proprietario possa chiedere il risarcimento pecuniario, rinunciando al diritto di proprietà. A tale scopo non occorre definire il nuovo assetto dominicale del bene, per effetto di tale rinuncia: tale problematica, del resto, esula dalla giurisdizione amministrativa e può essere esaminata, incidentalmente, solo per i suoi riflessi sulla tutela risarcitoria.

Al riguardo, è sufficiente osservare che il diritto al risarcimento per equivalente va correlato al fatto obiettivo della perdita di valore del bene, contestuale alla rinuncia alla restituzione (e al diritto di proprietà) sul bene stesso.

Il diritto al risarcimento, quindi, non dipende in alcun modo dalla ulteriore sorte di tale diritto e non richiede affatto l’accertamento dell’acquisto del diritto da parte del soggetto pubblico utilizzatore del bene. La tutela risarcitoria, infatti, in un contesto ormai completamente diverso da quello in cui era sorto l’istituto pretorio dell’occupazione appropriativa, svolge una funzione integralmente riparatoria del pregiudizio subito dal privato e sfugge a qualsiasi logica di “corrispettivo” dell’acquisto operato dall’amministrazione utilizzatrice del bene.

Pertanto, è scarsamente rilevante, per tale scopo, stabilire se, in seguito alla rinuncia contestuale alla domanda risarcitoria, il bene diventi res nullius, sia acquistato dall’amministrazione che lo utilizza o diventi di proprietà dello Stato (secondo il regime dei beni immobili vacanti). In ciascuna delle diverse ipotesi prospettabili, infatti, resterebbe fermo, comunque, il diritto al risarcimento dell’interessato e la contestuale “perdita del diritto di proprietà”.

26. In via del tutto incidentale, il Consiglio osserva, comunque, che la soluzione del problema è in larga misura condizionata anche dalle peculiarità di ciascuna vicenda sostanziale e processuale e dalla soluzione generale della questione degli effetti derivanti dalla rinuncia al diritto di proprietà collegata alla proposizione della domanda risarcitoria.

In questa prospettiva, potrebbe presentarsi l’ipotesi, tutt’altro che infrequente, in cui la rinuncia operata dal proprietario privato indichi chiaramente la propria proiezione verso l’acquisto dell’amministrazione che utilizza il bene e questa, a sua volta, manifesti formalmente la propria intenzione di acquistare il bene, con atti adottati all’interno del processo, o stragiudiziali.

In mancanza di siffatte dichiarazioni, invece, il bene oggetto della rinuncia dovrebbe essere acquisito al patrimonio dello Stato o delle Regioni, ma resterebbe intatto il potere dell’amministrazione di “regolarizzare” l’utilizzazione dell’immobile mediante l’atto di cui all’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni.

27. Da ultimo, il Collegio osserva che, in relazione all’oggetto del presente giudizio, non è necessario affrontare le questioni, pure connesse alla individuazione dei mezzi di tutela del proprietario, concernenti la doverosità, o meno, del provvedimento di acquisizione sanante, una volta disposta la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno per equivalente e alla stessa ammissibilità di una pronuncia del giudice che ordini all’amministrazione di provvedere in tal senso, su istanza di parte o di ufficio, in sede di cognizione o di esecuzione.

Infatti, la statuizione del giudice di primo grado, che ha ordinato all’amministrazione di provvedere in tal senso non ha formato oggetto di impugnazione.

Al riguardo, tuttavia, il Consiglio ritiene che la soluzione preferibile potrebbe essere nel senso di escludere che l’amministrazione possa essere condannata all’adozione del provvedimento di acquisizione sanante. L’adozione di questo atto resta sempre oggetto di un potere discrezionale, ancorché, dopo la condanna al risarcimento del danno per equivalente, le esigenze di specifica considerazione della posizione del privato debbano ritenersi definitivamente superate ed assorbite dalla sentenza, la quale ha accertato l’esistenza di una volontà abdicativa del proprietario.

D’altro canto, risulterebbe difficile giustificare, anche nella prospettiva delle responsabilità personali degli amministratori, la mancata adozione di un provvedimento (costitutivo o ricognitivo) di acquisizione del bene, a fronte dell’esborso monetario riguardante il risarcimento del danno cagionato.

28. Esula dal presente giudizio, poi, anche l’ulteriore questione riguardante la sussistenza del dovere dell’amministrazione di provvedere sull’istanza del soggetto proprietario di un immobile utilizzato senza titolo dall’amministrazione volta a sollecitare l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, anche nelle ipotesi in cui sia stata omessa la formulazione di una domanda di restituzione del bene o di risarcimento del danno.

Il Collegio si limita ad osservare che, secondo la prevalente giurisprudenza dei TAR, l’amministrazione non ha alcun obbligo di provvedere sull’istanza, considerando la discrezionalità ampia del potere disciplinato dall’articolo 43. Ne deriverebbe, quindi, l’inammissibilità del ricorso azionato ai sensi dell’articolo 21-bis della legge TAR, per contestare l’inerzia dell’amministrazione.

La soluzione indicata non sembra persuasiva.

Infatti, se è vero che il provvedimento di acquisizione sanante presenta un certo tasso di discrezionalità sull’an, resta fermo che l’amministrazione utilizzatrice del bene realizzato in assenza di un valido titolo, debba decidere tra due alternative: la restituzione del bene, oppure l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante. Pur in assenza di un termine perentorio per l’assunzione della decisione, a fronte di una richiesta dell’interessato emerge l’obbligo di esprimere compiutamente e definitivamente la posizione del soggetto pubblico. Dunque, non il dovere di adottare il provvedimento di acquisizione sanante, ma l’obbligo di rispondere all’istanza del privato.

29. Ne deriva, conclusivamente, che il proprietario dell’area su cui è stata realizzata l’opera utilizzata per finalità di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace titolo, può proporre, autonomamente, e di propria iniziativa, la domanda risarcitoria per equivalente, diretta ad ottenere il ristoro patrimoniale del pregiudizio derivante dalla perdita del diritto di proprietà, anziché la domanda di reintegrazione in forma specifica e di restituzione dell’immobile, rinunciando, contestualmente, al proprio diritto di proprietà.

In base ai principi generali, tuttavia, la proposizione di tale domanda non impedisce all’amministrazione autrice dell’illecito di eliminare concretamente tale danno, mediante la restituzione dell’immobile, nello stato di fatto in cui esso si trovava prima dell’utilizzazione per finalità di interesse pubblico, rimettendolo nella piena disponibilità materiale e giuridica dell’interessato, fino alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, fermo restando il potere del danneggiato di rifiutare, giustificatamente, tale forma di riparazione.

30. In definitiva, quindi, l’appello deve essere respinto.

Redazione

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